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Per i ritardatari
Mi do da fare
Sono alla moda e tuitto
06/3139

Stupida, stupida memoria. Man mano che invecchio tendo a dimenticarmi un po’ di cose, soprattutto nell’area di memoria breve. Sempre più spesso mi capita di guardare l’orologio per leggere l’ora e, pochi secondi dopo, rendermi conto di avere già dimenticato che ore sono (non sono l’unico, però. Cristian P. dice che gli capita sempre). Per non parlare dell’uso di un’agenda o di file di "2do" o di mancoliste di fumetti, quando fino a poco tempo fa ricordavo sempre tutto.

Tutto questo, però, tutto sommato non mi disturba. Lo accetto come parte del mio decadimento naturale, è normale. Quello però che mi irrita profondamente è lo spazio che, nella mia memoria, è riservato a dati che non voglio ricordare. Non parlo solo di episodi tremendamente imbarazzanti che vorrei dimenticare, come quella volta che con Silvia R….ma no, lasciamo stare. Parlo anche di informazioni irrilevanti, che non mi sono di alcuna utilità, nè ora nè in passato, nè utilità pratica nè, per così dire, "estetica".
Ad esempio, mi ricordo quanti gradini dovevo fare per raggiungere la mia casa in via Gaulli (141). Chi se ne frega? Oppure, ricordo l’odore della casa dei miei cugini quand’ero piccolo. Che me ne faccio? Ancora, so quali sono le precise parole con cui mi sono presentato quando ho iniziato a lavorare nella ditta in cui adesso sgobbo. (passa un corvo: cra! cra!)

Ma il principe di queste informazioni è il numero telefonico di Pronto Raffaella, "3139, 06 per chi chiama da fuori Roma" (erano tempi in cui "fissa il prefisso" era ancora lungi da venire…). Non mi piaceva la trasmissione, la Carrà mi è tutto sommato indifferente e non ho mai telefonato. Non me lo voglio ricordare! Stupida memoria, cancella questo dato e riserva quello spazio a cose più utili, per dire, il numero di telefono dell’idraulico che ogni volta lo devo cercare!
Argh! Più cerco di dimenticarlo più me lo fisso in mente. Sigh…

LUPINI!

Che io abbia una mente un pochino malata è ben noto. Tuttavia dice il saggio: "E’ più folle il folle o il folle che lo segue?". Secondo me il folle. E’ il saggio che dice che è folle, e il saggio è saggio mica per niente. Dell’altro (quello che segue) non sappiamo nulla, se non che segue il folle. Magari lo fa perché pensa che, essendo l’altro un folle, potrebbe perdere il portafoglio e allora potrebbe farlo suo. Altro che folle!

Ho perso il filo. Dicevo, uno dei sintomi di tale mongolaggine è data dal fatto che alcune parole mi fanno ridere irresistibilmente. Mi basta sentirle pronunciare o leggerle per farmi una grassa risata interiore, ma se posto nel contesto giusto e prima che tali parole si logorino con l’uso, posso veramente trovarmi a sganasciarmi.
Tali parole, in questo momento, sono

…e ovviamente ora sto ridacchiando.

Analizzando la questione, al di là di quanto sono folle io (anche se non seguo nessun altro folle) c’è il fatto che si tratta di parole intrinsicamente un po’ comiche, e, in qualche modo, sono legati ad un episodio almeno blandamente divertente. Il resto del divertimento è anche un po’ autoreferenziale: probabilmente trovo comico il fatto che queste parole mi facciano ridere. Il richiamo al mondo vegetale che le accomuna penso invece che sia un caso.

Per quanto riguarda lupini, è ovvio che la mente corre ai Malavoglia. E’ inevitabile che si amino poco i romanzi che vengono imposti a scuola, ma io i Malavoglia proprio non sono mai riuscito a reggerlo. Quel suo prendersi così tremendamente sul serio, soprattutto se confrontato con la levità che nello stesso secolo Dickens utilizzava per trattare temi simili, mi scatenava una sorta di ilarità. La parola lupini, protagonista di alcuni delle fasi più drammatiche pur suonando in modo così ridicolo, risulta inevitabilmente comica.

Broccoletto ha anch’esso una storia. Andiamo sulle cattiverie: la moderatrice del newsgroup it.arti.animazione, Elena P., pur essendo una brava ragazza, ha spesso dei gusti a dir poco imprevedibili nel campo che dovrebbe essere il suo expertise, il cinema d’animazione appunto. In una discussione su Sen to chihiro no kamikakushi, noto anche come Spirited Away, noto anche come La città incantata, l’ultimo film di Hayao Miyazaki, premiato con l’Oscar (R), vincitore dell’Orso d’oro di Berlino, e ora la smetto con le apposizioni, lei disse che non era un granché e che Broccoletto era molto meglio. Dopo un po’ di indagini abbiamo scoperto che si trattava di un film cinese Grandma and her ghosts, che nella traduzione italiana ha proposto l’improbabile nome.

Le pepinèrie non hanno una storia comica (si far per dire) dietro, se non il riferimento al nome di Peppino, che è in effetti un nome che fa intrinsecamente ridere. Peppino. Grandioso! Come? Non sapete cosa sono le peppinerie? Fate un giro in Corsica. Eccone una qui.

E ora guardo verso il futuro luminoso, sicuramente foriero di altre parole comiche. Quale sarà la prossima? Spinacina? Noce moscata? Chi vivrà vedrà (a meno che non stia troppo appiccicato al folle davanti).

Giulio, o della congestione

Chi, da giovane, non ha mai sofferto quelle due, tre ore in spiaggia a morire di caldo prima che la focaccia rapidamente ingurgitata per pranzo potesse essere dichiarata ufficialmente digerita? Già, è lo spettro che pare terrorizzare le mamme italiane, la temutissima congestione. Personalmente non ho mai conosciuto nessuno che sia stato colpito da questo male, se non la mia amica Sara che però se l’è beccata bevendo acqua dal frigorifero. C’è gente che annega in un bicchier d’acqua, ma per fortuna lei non è una di queste, e la nana in questione è ancora a far danni nella sua adorata Lombardia.

Giulio era un torinese (abitante in corso Unione Sovietica, come ci teneva a ribadire) in vacanza ad Alassio. L’ho conosciuto nell’estate tra la terza e la quarta elementare; era di un anno e un mese più anziano di me, ma molto più rincoglionito. La sua grande passione erano le piste con le biglie, a cui dedicava gran parte delle sue giornate in spiaggia. Individuato uno spiazzo sufficientemente ampio, tracciava a grandi linee la pista con una mano. Accanto ad essa iniziava scavare una buca stretta e profonda che chiamava pozzo artesiano, da cui estraeva sabbia bagnata utile per costruire gli ostacoli e le mura del tracciato della pista. Esistevano poi diverse varianti su come giocare a biglie, ma lui non ne vedeva altre che "buca torni dov’eri" o "fuori torni dov’eri", frasi che ripeteva ossessivamente centinaia di volte al giorno. Le varianti tipo "parabolica" o "fuori uno fuori due fuori tre" non le voleva nemmeno sentir nominare.

Ma non è la sua piccola grande passione per le biglie che mi è rimasta più impressa di Giulio. Ciò che giganteggia nei miei ricordi è l’immagine di lui e sua madre che prendono un panino e della frutta, entrano in acqua, proseguono finché l’acqua non supera i loro stomaci, e a questo punto attaccano a banchettare. "E’ proprio buono questo panino al prosciutto, ne?". Era la loro ricetta persona contro la congestione: ritenevano, non so sulla base di quale diceria o teoria (pseudo)scientifica, che facendo così lo stomaco si abituasse al freddo dell’acqua e si potesse fare il bagno subito dopo.
Giulio e sua mamma non hanno mai avuto una congestione. Un sondaggista di Forza Italia potrebbe trarre la conclusione che avevano ragione.

La festa delle elementari

Ho un ricordo abbastanza vivo delle feste che si tenevano alle elementari. Mi pareva che ce ne fossero tante, ma ho scoperto solo in seguito che in realtà mi invitavano ad una piccola parte di esse dato che, da bambino, pare che io stessi sui marroni un po’ a tutti. Avranno avuto le loro buone ragioni.

Uno degli episodi più fenomenali è avvenuto alla festa di Alessandro M.. il quale si era messo alla porta e controllava che tutti gli invitati portassero un regalo. Chi non portava il regalo, non era ammesso alla festa. Non ho mai capito se Alessandro fosse particolarmente avanti e avesse già capito come funziona questo cinico mondo, oppure se fosse semplicemente un po’ tardo e non capisse i principi basilari dell’educazione.

Un altro meraviglioso episodio in una festa, che ha segnato anni e anni della mia vita, è avvenuto quando, un pochino più grandicelli, alla festa di Cristina P., si tenne il seguente dialogo.

Cesare R: Io so cosa vuol dire scopare!
Tutti gli altri: Sì, certo, significa strisciare la scopa sul pavimento per raccogliere polvere, briciole o altri residui che non si desidera rimangano lì
Cesare R: No, significa mettere il cazzo dentro la figa (scusate il francese NdR)
Tutti gli altri (a cui sfuggiva il vantaggio di un’operazione così astrusa ma che non volevano apparire minchioni): Oooooh!
(momento di silenzio)
Enrico C: E voi sapete cosa vuol dire "pettinare"?
Tout le monde (che non osava più azzardare previsioni. Forse era mettere il ginocchio nell’ascella?): (silenzio)
Enrico C: Lo stesso di scopare!

Ho passato quindi anni e anni della mia esistenza a credere che le espressioni "scopare" e "pettinare" fossero sostanzialmente intercambiabili. Tuttora mi chiedo da dove Enrico C. abbia tirato fuori quell’idea: una mia ipotesi è che avesse orecchiato l’espressione petting e l’avesse "normalizzata" in pettinare.

La boum americaine

Ovvero, il remake americano de Il tempo delle mele, denominato The Party. In Italia, che non capiamo niente, l’abbiamo rinominato "Hollywood Party" invece di qualcosa di più sensato tipo "Il tempo delle fragole". Gli stupidi yankee, come al solito, stravolgono la trama e l’ambientano nel 1968 a Hollywood, ricreando anche uno stile cinematografico dell’epoca.
La deliziosa Vic diventa un indiano d’India (che abita dalle party
di Bombay), un certo Hrundi Bakshi, molto pasticcione, i cui antagonisti, invece di essere i genitori che non ricordano più che significhi essere tredicenni, sono produttori e registi che non vogliono farlo lavorare. Il film purtroppo si perde quasi subito: dopo un’inizio drammatico in cui i cattivi compagni di festa del buon Bakshi tendono ad ignorarlo, iniziano una serie di gag che se fossero volontarie sarebbero da scompisciarsi, ma sappiamo tutti che è impossibile tenere un ritmo comico così elevato mantenendo l’unità di luogo e senza far succedere praticamente niente. Bisognerebbe essere dei geni sia come regia che
come interpretazione. Ci saranno poi i soliti criticoni che vorranno per forza vedere le metafore sull’immigrazione e la partecipazione alla festa america, ma che noia!
Per fortuna il film si riprende sul finale,
quando Vic, pardon, Bakshi trova l’amore, che non è il bel Jean-Luc coi baffetti da tredicenne ma un’analoga francesina, senza baffetti per fortuna.

Giuochi da cortile

I giuochi da cortile dei bambini sono sempre stati una mia piccola fissazione. Mi è sempre piaciuto confrontarli con altre persone, soprattutto se provenienti da regioni d’Italia differenti dalla mia, e ho rilevato molte differenze, sia come giuochi in sé che come denominazioni che come sfumature delle regole. Ad esempio, quello che io chiamavo L’orologio di Milano fa tic-tac è molto più noto come "Un due tre stella". Suppongo in effetti che a Milano faccia un po’ ridere parlare dell’orologio di Milano. Quale? Ce ne sono così tanti! Milan l’è un gran Milan!
Potrei poi citare giochi come <i>Fulmine, Rialzo, Strega Comanda Colore, Palla Bufalo, La Settimana</i> e tanti altri, ma molti di voi non saprebbero di che parlo o li conoscerebbero con altro nome o con regole leggermente differenti. Magari un’altra volta ne parlerò, se mi capiterà di non avere idee!
L’aspetto che accomuna i giochi è però il fatto che siano fondamentalmente mirati a divertirsi. Non è così ovvio: tutti questi giochi possono essere facilmente aggirati piegando le regole (ovviamente molto generiche) alle proprie necessità. E non si pensi che i bambini non ci arrivassero: semplicemente loro sapevano che lo scopo del gioco era il divertimento, non la vittoria. Altrimenti non sarebbero lì. Voglio dire, sapendo che la sporcellosissima Ambarabacicicocò ha 46 sillabe, non è complicato calcolare subito a chi tocca stare sotto!
Mi è venuta in mente questa considerazione (apparentemente ovvia, ma, per quanto mi riguarda, un piccolo Pinguino nel Salotto) una sera in cui, in una festa popolata da ingegneri, li vidi giocare a Jenga , il gioco in cui bisogna togliere un pezzo dalla base di una costruzione di mattoncini di legno e riporlo in cima ad essa. Ebbene, mi fece molta tristezza vedere come essi si applicassero nel trovare azioni che andassero a loro vantaggio1 e che non fossero esplicitamente vietate nelle regole, tradendo così lo spirito del gioco…e divertendosi assai di meno.
1a volte le affinità tra ingegnieri e avvocati mi sorprendono

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