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(un post molto anomalo. Fate finta, per una volta, che questo sia un blog normale. O quasi.)

Venerdì scorso, 11 novembre 2005, ho fatto una cosa che era tanto tempo che sognavo di fare, e forse ne sono pentito.
Partito da Genova in macchina con la mia Kakavolo dopo pranzo, inforco l’autostrada diretto verso Alassio. Arrivato ad Albisola, mi viene in mente che avevo il pomeriggio libero, ero in macchina ed ero rilassato. Che occasione migliore? Sono uscito dall’autostrada e, dopo tredici anni, sono andato a Sassello a rivedere i luoghi della mia infanzia.

Nella mia immaginazione mi ero formato due ipotesi: che tutto fosse rimasto immutabile o che tutto fosse cambiato. La realtà è quasi sempre più conciliante, e infatti il paese ha avuto un’evoluzione ma non è irriconoscibile.
La statale da Albisola a Sassello non ha risvegliato ricordi nascosti. Tuttavia, poco dopo l’ingresso nel paese, percorrendo la stradina che portava nella frazione in cui abitavo (il Piano), ho scorto il panorama del paese. Questo è stato un momento di grandissima emozione. Ho fermato la macchina e sono rimasto qualche minuto in riflessione. Poi mi son fatto coraggio e ho proseguito fino al Piano.

Ecco, qui sì che posso dire che è cambiato pochissimo. La strada è stata rifatta col porfido al posto dell’asfalto, il rubinetto della fontanella alla base della creuza di San Giovanni è differente, il parapetto in corrispondenza del Rio Sbruggia non è più verde, il cane della famiglia Zunino è un altro. Però l’assurdo motivo della pittura del muro di Giocondo è sempre quello, è solo più consunto, le porte sono sempre tutte verdi, la panchina per i vecchietti è esattamente la stessa. È tutto solo più piccolo. C’è però un luogo che devo assolutamente vedere: la mia casa. Mi inerpico su per la salita. Passando di fronte a casa di Baciccia, esattamente nel punto in cui ruppi la bottiglia, una signora mai vista spunta da una finestra e mi apostrofa sospettosa. Ripensandoci, un venerdì pomeriggio di novembre alle 14 in un borgo di 25 abitanti spunta un trentenne con gli occhiali da sole, la barba di due giorni e la giacca di pelle che fa foto in giro. La cosa è sicuramente inquietante. Le spiego comunque che abitavo in cima alla salita; citando il mio cognome la vedo rasserenarsi e mi lascia andare.

Mia nonna purtroppo non c’è più, ma spero che, ovunque sia, sappia che la casa che amava tanto è in ottime condizioni. Il giardino è curato, pieno di piccoli accessori: al posto dell’altalena ora c’è un pozzo (finto, probabilmente), c’è una tettoia nuova. Il cancello d’ingresso è grigio e non più marrone, ma l’edera è esattamente al suo posto come i platani che facevano da porta durante le partitelle di pallone.
Sono passato di fronte a case di gente che conoscevo, ma un po’ per l’ora (nel primo pomeriggio in campagna si fa il pisolino!) un po’ per vigliaccheria non ho osato suonare alla porta e presentarmi. Forse è meglio così.

Credo di aver visto abbastanza del Piano. Ora andiamo in centro: mi incuriosisce guidare a Sassello. Ho smesso di andarci a 17 anni, quindi non ho mai percorso le strade in macchina. Non mi sono mai posto il problema di quali di quelle strade che affrontavo quotidianamente a piedi o in sella alla mia bici Azzari "da cross" fossero a senso unico o addirittura inibite al traffico, né di dove si potesse parcheggiare. Comunque, lascio la macchina un po’ a caso e vago a piedi. L’impressione generale del centro di Sassello è la città abbia ceduto un po’ alla vocazione turistica che ai miei tempi trascurava, ma che non abbia perso l’anima di paese di campagna. Quindi, se ora ci sono i parcheggi a pagamento (ma solo in estate!) e si scorgono banchetti di funghi e amaretti dovunque, appena fuori dal centro storico si trovano mucchi di letame, segherie e vecchie signore che ti guardano sospettoso. E inoltre un’istituzione come "la Gina" del bar omonimo è sempre uguale.

Se al Piano avevo ancora tutto fissato in mente in modo fotografico, in paese invece riscopro scorci che avevo dimenticato. Eh già, accanto al tabacchino c’era un negozio di ferramenta! E come ho fatto a rimuovere la pista da pattinaggio accanto allo spiazzo che ad agosto ospita il Calcinculo? Eppure ogni tanto ci giocavo a basket! E il vicolo che conduce dal fornaio, quel vicolo che alle dieci di mattina profumava di tirotto di patate, aveva quell’arco così caratteristico: perché non lo ricordavo?

Basta, ho visto abbastanza. Partendo, inizio a riflettere e mi assalgono i dubbi: non era forse meglio conservare nella mia memoria il ricordo del Sassello passato, con tutto ciò che si porta dietro, e nella mia immaginazione il Sassello del presente? A cosa serve andare a cercare la propria infanzia quando so bene che è passata e che non tornerà? Non è una pratica in qualche modo autolesionista o addirittura quasi malata? O forse, più semplicemente, mi son tolto una curiosità, ho fatto una piacevole gita e ho rinfrescato alcuni ricordi. Insomma, perché devo sempre complicare tutto?