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Odia gli stupidi: Pinocchio – Perché no?

di Gianluca Aicardi (con la collaborazione di Luca Ventimiglia)
PinocchioTitolo: Pinocchio – Perché no?

Sigla della serie: Le nuove avventure di Pinocchio (Kashi no ki Mokku, 1972)

Parole: Carla Vistarini

Musica: Luigi Lopez e Massimo Cantini (Argante)

Cantata da: Luigi Lopez con “La gang di Pinocchio”

Produzione: Rai

Anno: 1980

Dietro la sigla italiana del famoso anime della Tatsunoko ispirato alla creatura di Collodi, troviamo alcuni altri nomi importanti nella storia della televisione italiana.

Carla Vistarini, che ha scritto i testi di più di trecento brani (anche per Ornella Vanoni), è un’autrice televisiva di tutto rispetto, e negli ultimi trent’anni ha lavorato, fra gli altri, con Proietti, Fazio, Riondino, Paolantoni, Bonolis e Chiambretti, e ha curato numerose edizioni del Pavarotti & Friends. Come sceneggiatrice cinematografica ha vinto il David di Donatello nel 1995 per Nemici d’infanzia di Luigi Magni. In coppia con Lopez ha firmato un’altra sigla molto celebre, La fantastica Mimì, per Mimì e le ragazze della pallavolo.

Per questo pezzo Luigi Lopez, cantante e musicista di esperienza, ottiene la collaborazione non accreditata dell’inglese Douglas Meakin, fondatore di gruppi “da sigla” come i Superobots e i Rocking Horse, e che viene considerato uno dei musicisti di maggior talento operante sulla scena delle sigle italiane di quegli anni.

La struttura musicale è infatti piacevole e ricca di variazioni, pensata come una vera e propria canzone anziché un semplice ritornello ripetuto due volte: un’attenzione alla qualità musicale che rivela l’intervento di Meakin, le cui realizzazioni venivano sempre concepite come canzoni pure e semplici, e non sigle. A ben guardare, la struttura di Pinocchio, perché no? va anche al di là della forma classica strofa-strofa-ritornello/strofa-ritornello, e le tre strofe iniziali precedenti il ritornello hanno ciascuna un andamento melodico differente (la terza riprende la seconda ma la conclude diversamente introducendo il ritornello).

Il testo cerca invece di riprodurre una tipica filastrocca per bambini, una strada seguita da molte sigle di questo genere, per ovvi motivi tematici. In particolare questo tipo di stile ben si adattava a Pinocchio, come naturale espressione delle avventure di un burattino-bambino.

Nel campo delle sigle-filastrocca, però, ci sono da fare dei distinguo. Alcune funzionano, sospendendo la logica (e talvolta anche il legame con il soggetto); altre farebbero venire una crisi isterica a Gianni Rodari.

Vediamo questa.

1

Naso di legno, cuore di stagno, burattino
Quando diventerai un bimbo come noi?
Pan di mollica, scansafatica, dove vai?
Sono un burattino e non mi fermo mai!

Si sta descrivendo un burattino e il proverbiale “naso di legno” di Pinocchio è giustamente subito richiamato. La rima interna con “cuore di stagno” è invece più ardita, quasi una citazione da Il mago di Oz: è però concepibile, quasi colto, che un burattino possa avere dello stagno fra i materiali che lo compongono, e l’immagine regge, così come, nella strofa successiva il “vestitino di carta colorato” (anche se l’aggettivo “colorato” viene coordinato con il sostantivo “vestito”, anziché con “carta”, solo per motivi di rima).
L’altra rima interna, “pan di mollica, scansafatica”, mette in campo una strana inversione sintattica (“mollica di pane”), che peraltro, pur suggerendo vagamente l’idea di un altro componente improbabile del corpo di Pinocchio, non sembra avere maggior senso di quello metrico.

2

Con le mie scarpe di zuppa e pan bagnato
Il vestitino di carta colorato
Farò i dispetti a chi sarà cattivo
E sarò buono con chi mi dice: bravo!

Le impossibili “scarpe di zuppa e pan bagnato” cominciano a diventare eccessive: visivamente sono roba degna di Dalì (vorremmo vedere Geppetto a tentare di confezionare scarpe semi-liquide, con tutto che la zuppa avrebbe probabilmente preferito mangiarsela[1]), e concettualmente sono una vera stupidata poetica; se l’idea di concretizzare un proverbio potrebbe essere divertente, la scelta specifica è più comica dell’intento: allora potremmo anche avere un “cappello di mogli e buoi” e una “giacchetta di gatta e lardo”!
La seconda parte introduce la personalità del protagonista, anche se la rende un po’ troppo positiva nel suo suddividere i comportamenti fra buoni e cattivi, suddivisione che odora di tranquillizzazioni parentali.
Si noti invece il discreto passaggio, ripetuto più volte, fra il punto di vista dei bambini, ideali spettatori delle avventure del burattino (“Quando diventerai un bimbo come noi?”), e quello di Pinocchio stesso (“Sono un burattino e non mi fermo mai!”). Solo a tratti, però, avviene anche un passaggio effettivo dalla voce di Lopez a quella del coro di bambini: le occasioni in cui accade sono motivate unicamente da ragioni musicali (peraltro di buon effetto).

3

Faccio festa per trenta giorni al mese
E il calendario per me, lo sai, non ha sorprese

Un verso che stabilisce in modo chiaro il tratto fondamentale del protagonista: quello di scansafatiche che non vuole andare a scuola, in linea perfetta con l’originale collodiano (a cui la serie peraltro si ispira molto vagamente).
L’espressione “trenta giorni” al mese è ovviamente comune, anche se poi uno si potrebbe chiedere come si comporti Pinocchio a gennaio, marzo, maggio, luglio, agosto, ottobre e dicembre. Magari recupera i giorni di festa mancati a febbraio, chissà.
Peraltro, non si capisce come un calendario potrebbe riservare sorprese a chicchessia (“Toh, guarda, aprile ha trenta giorni! Pensavo ne avesse trentuno!”).

3.1

Natale e Pasqua, Befana e Ferragosto
Sempre domenica è per me
E se domenica non è
È festa uguale, lo so
“Ma perché per noi no?”
Che ne so!

Una certa aria di stupidata logica pervade questo passaggio. “Natale e Pasqua, Befana e Ferragosto / Sempre domenica è per me”: a rigor di logica, Pasqua è sempre domenica per tutti; le altre festività cadono di domenica negli anni iellati come il 2004. Ma in realtà apprendiamo che tutto ciò non importa, perché per Pinocchio: “se domenica non è / È festa uguale”. Quindi, ricapitolando: per lui tutte le feste cadono di domenica (il che è male), ma di fatto non gliene frega nulla perché tanto lui festeggia anche negli altri giorni. La cosa non fa una piega, se non che non si capisce quale sia l’utilità di raggruppare tutte le feste di domenica: forse per far danno agli altri, così lui può festeggiare alla faccia loro.

R

Pinocchio, ma dove vai?
Pinocchio, che cosa fai?
Pinocchio, la fantasia
È solo una bugia!

Le domande oziose dei primi due versi sono troppo palesemente messe lì per questioni metriche, non avendo in realtà un grosso significato (“dove vai?” e “cosa fai?” lo si potrebbe chiedere a qualunque protagonista di qualunque serie, è qualunquismo poetico della peggior specie); il concetto “la fantasia è solo una bugia” è d’altro canto piuttosto interessante, rovesciando quello più classico che vuole una menzogna essere frutto di creatività: in questo caso sembra quasi si voglia intendere che ciò che costituisce la fantasia umana, il suo vero fondamento, è il mentire, e che ogni artista è di fatto un imbroglione (concezione espressa da molti in vari modi nel corso della storia della filosofia e della letteratura).
Oppure si voleva intendere l’inverso e questa è semplicemente un’altra stupidata.

4

Son piccolino, lo so, ma m’intrufolo dappertutto
Non ho paura, però, un po’ me la faccio sotto
Sono una peste, dei grandi me ne infischio
E un terremoto farò, se no non provo gusto

Essere piccolino e intrufolarsi dappertutto non sembrano due concetti in contrapposizione, a meno che con “intrufolarsi” non si intendeva “immischiarsi” (questa interpretazione sarebbe supportata dal primo verso della strofa successiva). Gli altri tre versi della strofa sono efficaci nel dipingere Pinocchio e le sue idiosincrasie: un po’ audace e un po’ pauroso, irrispettoso dell’autorità, amante della confusione e combinaguai.

5

Che confusione laggiù, spostatevi che m’impiccio
Io mi diverto di più se termina in un pasticcio
A lavorare, a scrivere e a studiare
Ci mando gli altri, senza me
Io sto in vacanza, e sai perché?
Un burattino non può
“Ma perché lui non può?”
Perché no!

I primi due versi continuano la strofa precedente (a cui sono peraltro metricamente legati), i successivi rafforzano ancor di più le tendenze sociopatiche di Pinocchio, che oltre a non voler prendere parte al sistema di doveri imposto dalla società, manifesta la tendenza a disprezzare l’altrui fatica.
La citata attività dello “scrivere”, distinta da quello dello “studiare”, sembra un po’ inconsueta per un bambino-burattino. Si può azzardare l’ipotesi che l’autore, in questo caso, si sia introdotto nel testo, inserendo il suo personale travaglio quotidiano: scrivere, appunto.
Forse un po’ farraginoso, infine, il verso “Un burattino non può”, che per motivi metrici contiene un’ellissi abbastanza forzata, e per giunta ribadita nel verso seguente. Va letto infatti come “Un burattino non può (fare ciò di cui si sta parlando)”.

[Ripete R]
[Ripete 3.1]

Naso di legno, cuore di stagno, burattino
Quando diventerai un bimbo come noi?
Pan di mollica, scansafatica, dove vai?
Sono trottolino…
Sono piccolino…
Sono un burattino e non mi fermo mai!

Nell’ultima reprise si segnala soltanto la variante un po’ stucchevole “Sono trottolino”, e l’ancor più stucchevole ricorso a un corista molto giovane (probabilmente di non più di quattro anni) per pronunciare la battuta “Sono piccolino”.

In conclusione, la canzone è molto riuscita, piena, come si è detto, di gradevoli cambi di tempo e con l’ottimo inserimento di un vibrafono a suggerire il suono dei passetti frenetici di Pinocchio, quasi a ritmo di tip-tap.
A livello testuale tenta la carta del filastrocchismo, confezionando un testo di facile presa (più di un passaggio si incolla automaticamente alla mente, rendendo questo testo uno di quelli più facilmente memorizzati e ricordati dagli spettatori di allora), ma cade rovinosamente in alcuni punti, dove l’intento ironico precipita nel campo del risibile per colpa di un paio di decisive stupidate.

[1] Del resto, Mastro Geppetto non era proprio una cima, come chiunque passi svariati anni dentro uno squalo (e non una balena, com’è noto). Che poi non c’è neanche tutto questo spazio dentro uno squalo, praticamente era come essere rinchiuso in un sarcofago salmastro. Tacendo della curiosa disfunzione cronica dell’apparato digerente del grosso pesce, e di come questo abbia potuto mantenersi in vita per tutto quel tempo, ingolfato da un vecchio bacucco.

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