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Mondo Gatto

Casa mia ad Alassio, per la prima volta da decenni, è rimasta senza gatti. Mi pare giusto cogliere l’occasione per ricordare in questa sede i felini che hanno abitato in quella casa. Preparate i fazzoletti, sono quasi tutte storie tristi.

Minnie e Felicia: i primi gatti domestici arrivati dalle nostre parti (prima c’erano stati alcuni gatti selvatici a cui davamo da mangiare) erano una coppia di gatte, probabilmente sorelle, particolarmente tenere e carine. Non sono durate moltissimo, una di loro due, mi pare Felicia, è stata investita da una macchina di fronte a me in un freddo giorno invernale del 1983 (causandomi, come potete immaginare, uno shock non indifferente). Casa mia ha un ampio giardino, e gli animali lo sfruttano abbondantemente; il lato negativo è che possono arrivare anche alla strada, dove purtroppo, come si vedrà, finiranno quasi tutti i gatti. Minnie invece è scomparsa nel nulla.

Mimò: Mimò probabilmente è il gatto a cui sono stato più affezionato. Arrivato da noi come cucciolo, si riteneva che fosse una femmina (coi gattini capita!) ed era stato battezzato Mimì. Una volta scoperta la verità, si era pensato di lasciarlo col suo nome, adatto anche ai maschi (“Mimì metallurgico ferito nell’onore”), ma alla fine è prevalso il partito della maschilizzazione in Mimò. Mimò era piuttosto piccolo di taglia,  quindi nella stagione degli amori finiva sempre riempito di botte dai gatti concorrenti; era di color bianco e nero, quindi veniva quasi spontaneo pensare a Silvestro. Comunque, dopo che una volta è tornato davvero tanto malconcio, dopo che il veterinario l’ha rattoppato abbiamo deciso di zac!, e Mimò non è stato più Mimò per intero. Mimò, come la grande maggioranza dei miei gatti, è morto sotto una macchina nell’estate 1991, quando io e mia sorella eravamo a Sassello. Ci è stato millantato che era scomparso, e solo l’anno scorso mia mamma ha deciso che eravamo abbastanza grandi per sapere la verità.

Adelina: i miei lettori più fedeli sanno che io avevo una zia chiamata Adelina. Quando ci siamo trovati di fronte questa gatta bianca e abbiam dovuto battezzarla, ci è parso che il nome della zia fosse perfetto per lei. Abbiamo telefonato ad Adelina (la zia, non la gatta), per sapere se si sarebbe offesa, ma il nome era quello, e pochi nomi sono stati più azzeccati. Adelina infatti è sempre stata una gatta vecchia, anche da giovane; si muoveva come un’anziana signora, mangiava sempre e solo bocconcini secchi, era aggraziata ed educata, non brillava per scaltrezza e dava affetto solo quando voleva. Adelina è vissuta molto a lungo, e, indovinate un po’, è morta sotto una macchina, quando probabilmente era ormai troppo rincoglionita per attraversare la strada. Ho trovato io il corpicino della gatta (facevo l’università, al tempo), e non ho avuto cuore di seppellirlo: è una cosa di cui mi pento e vergogno, ma l’ho messa in un sacco e l’ho buttata nella spazzatura.

ChoCho: beh, non poteva andarci bene proprio con tutti i felini. ChoCho è stata probabilmente la gatta più longeva che abbia frequentato Casa Ventimiglia, e sicuramente la più antipatica. Alcuni gatti sono affettuosi, altri di meno, ma ChoCho, anche se ogni tanto veniva in braccio a fare le fusa, era calcolatrice, furba e approfittatrice. Tanto furba che probabilmente è stata l’unica bestia a sopravvivere alla strada, e si è spenta di vecchiaia in giardino, dopo un giorno di agonia. Nonostante la sua antipatia, ci è dispiaciuto lo stesso.

Mimina: Mimina era la gatta di mia nonna Luisa nel senso più totale. La seguiva dappertutto, e quando lei si allontanava per un po’ di tempo (magari per andare in vacanza), al suo ritorno la trovava offesa. Era inoltre tanto affettuosa con mia nonna quanto poteva essere scontrosa e addirittura aggressiva nei confronti di altri. Mia nonna è mancata nel 2001, e Mimina è venuta a vivere in campagna da noi. Ha avuto un po’ difficoltà ad abituarsi al nuovo ambiente, e soprattutto alla mancanza della sua padrona, ma poi ha iniziato a dispensare affetto un po’ sussiegoso anche ai suoi nuovi ospiti. Non per molto purtroppo: la solita strada se l’è portata via dopo pochi mesi. E’ stato quando se n’è andata Mimina che mia nonna ci ha lasciato completamente.

Jaeger: un’altra meteora, Jeager è forse il gatto che ha lasciato il ricordo migliore. Anche se fu voluto fortemente da mia sorella, Jaeger è diventato subito il gatto di mio padre. Il babbo non ha mai amato particolarmente i gatti, ma quando lui e Jaeger si son incontrati, si son fissati un momento e son diventati subito amici. Il fulvo Jaeger (“cacciatore” in tedesco) era un perfetto esempio di “nomen omen”; tra i vari gatti qui citati, solo Adelina ogni tanto prendeva qualche topo, mentre Jaeger era una vera macchina da caccia: topi, lucertole, gechi, enormi falene, uccelli,  nulla sfuggiva ai suoi artigli. Ed era anche un gatto affettuosissimo, tanto che portava sempre il frutto della sua cacciagione in casa per far vedere quanto era stato bravo. Jaeger un giorno è scomparso, e dopo una settimana mia sorella ha addirittura affisso manifesti nel vicinato per capire se fosse da qualche parte. Un signore ci ha detto di averlo trovato al bordo della strada, investito da una macchina.

Ghost/Betordo:  Betordo, detto Betty, era il gatto di mia nonna Amelia, e probabilmente è stato il gatto più sfortunato del lotto. La nonna aveva voluto un gatto, ma non fu mai soddisfatta di Betordo; diceva che era un fifone antipatico, e in effetti quando andavamo a trovarla si rifugiava in cima agli armadi. Come è successo per Mimina, quando mia nonna ci ha lasciato ci siamo presi Betty. Il giorno dopo, questo gatto era già scomparso. Diversi giorni dopo, mia mamma aprì la mia camera da letto di bambino, ormai inutilizzata, e ne spuntò fuori un gatto quasi impazzito dalla sete e dalla paura. Gli strani rumori che si sentivano in casa nei giorni precedenti erano i tentativi di Betordo di uscire dalla sua prigione: oltre il danno, la beffa, la povera bestiola è stata ribattezzata Ghost. Per i primi tempi Ghost si è fatto vedere solo per mangiare, ma col tempo ha preso confidenza ed è diventato domestico, riuscendo un gatto un po’ sospettoso ma nel complesso di buona compagnia. Poi, è arrivato Quick, il mio attuale cane, che si è conquistato tutto il territorio. Ghost, terrorizzato, ha iniziato a vivere in giardino, nelle zone non raggiungibili da Quick, e pian piano si è rinselvatichito, tornando solo per mangiare, sempre con due occhi spalancati dallo spavento, e anzi, a volte approfittando dell’ospitalità del vicinato per star lontano da casa più giorni. Poche settimane fa, Ghost non si è più fatto vedere. O è stato adottato definitivamente da una casa senza cani, o non è più tra noi. In ogni caso, spero che questo povero gatto ora sia finalmente in pace.

Mantenere le promesse

Un anno fa, poco prima delle vacanze, stilai una lista degli articoli prossimi venturi, una sorta di “trailer” della quarta stagione di Pinguini nel Salotto. Finora la stragrande maggioranza di tali pezzi non è effettivamente uscita, quindi per evitare che la gente pensi che io sono uno spergiuro, ecco che mantengo tutte le promesse. E non si dica che non vale!

Cazzetti Awards 2006/2007
Il miglior film della stagione 2006/2007, il Cazzetto d’Oro, è stato Lettere da Iwo Jima di Clint Eastwood, asciutto, sferzante, praticamente perfetto, tallonato da vicino dal visionario Il Labirinto del Fauno di Guillermo del Toro, Cazzetto d’Argento. Menzione speciale e Cazzetto di Bronzo ex-aequo allo spassosissimo frat-pack  Blades of Glory di John Gordon e Will Speck al geniale L’arte del sogno di Michel Gondry e a Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck. E non solo: anche The Prestige, Zodiac, INLAND EMPIRE, Thank you for smoking, Little Miss Sunshine sono stati bei film. Non ricordavo che fosse stata una stagione così soddisfacente! Dal lato negativo, senza dubbio il film peggiore dell’anno, Cazzetto Moscio, è Spider-Man 3 di Sam Raimi. Torno ad annoiarmi solo a ripensare alle tre ore passate a vedere quel film.

Linux, linuxari e Herr Starr
Questo l’ho fatto!

Analisi critica (seria!) della filmografia di Antonioni
No, dai, seriamente. Non sono ancora pronto a vedere Antonioni, e probabilmente non lo sarò mai. Che palle.

Quella volta che la maestra prese a calci nel sedere Alessandro perché sbagliava le divisioni
E’ una bugia, non è mai successo.

Quella volta che la maestra chiuse la bocca di Emanuele con lo scotch da pacchi perché chiacchierava
Questo invece è successo veramente. Poco tempo fa un episodio simile è finito sui giornali… i tempi cambiano! Va detto però che quando, nel 2001, la classe dell’annata 1974 è andata a trovare la maestra e abbiamo ricordato l’episodio, lei si è mostrata contrita e ha chiesto scusa. Troppo tardi.

Quella volta che la maestra donò un acro di terra e un mulo a tutti gli scolari
Non è successo, ma sarebbe stato bello. I muli sono animali molto buffi e simpatici.

Ode alle spinacine di Gatto
Ode a di Gatto le spinacine
le mangerei sere e mattine.

Purtroppo durante l’inverno è successa una tragedia: ho scoperto che la polleria Gatto, da cui mi rifornisco di frequente perché prende i ticket e perché le sue spinacine sono buonissime, in realtà si chiama Catto, scritto con un font un po’ strano. Io però comunque continuo a chiamarlo Gatto perché fa più ridere.
(Quando ho in programma di mangiare le spinacine, alla sera tornando dal lavoro in motoretta canto “Le spinacine di Gatto, le spinacine di Gatto, le spinacine di Gatto, stasera mi vado a pappar” sull’aria di “Perché è un bravo ragazzo”. Giuro.)

Un’invettiva poco originale contro il cartello di ricchioni
Maledetti stilisti!

Il ritorno di Odia gli stupidi con la sigla di Gloiser X

(Gloiser X è una sigla strumentale)

Tecniche di sopravvivenza alla macchinetta del caffé
Ehi, questo è un bello spunto di cui mi ero dimenticato! No, per questo ci faccio un articolo serio nella quinta stagione. O, se me ne dimentico, ne scriverò l’estate prossima.

Un nuovo layout ancora più rosa e altre classifiche per i commentatori ancora più anali di quelle esistenti
Ho mentito.

…e un mucchio di cultura con l’Enciclopedia Stronza
E anche questa, sebbene abbia rallentato un po’ di recente, c’è stata eccome.

Et voilà!

Misteri della vita LXXXIII: Uno, due, tre…latino!

Nella prima lezione di latino al liceo, nel settembre 1988, la professoressa si sentì in dovere di dirci:

A cosa serve studiare il latino? Serve a sapere meglio l’italiano. Inoltre è una lingua molto difficile, quindi studiarla rende l’apprendimento delle altre lingue molto più semplice.

Almeno non ha detto che  “il latino apre la mente”. Innanzitutto, chiarisco un punto chiave: una cosa di cui sono profondamente convinto è che non sia necessario che ciò che si studia a scuola debba avere un utilizzo pratico, cioè “servire” a qualcosa. Penso che qualunque tipo di studio non puramente mnemonico renda le persone migliori fornendo abitudine a pensare e sviluppando un atteggiamento più critico nei confronti del mondo.  Però, in questo caso, è la prof ad avere iniziato, e mi sento in dovere di ribattere. Vent’anni dopo.

L’enfasi che viene posta nell’insegnamento del latino nei licei italiani mi risulta un mistero. Non sono sufficientemente preparato in linguistica per capire se è vero che la conoscenza del latino migliori la conoscenza dell’italiano moderno; a naso direi di no, sono lingue troppo differenti e con strutture profondamente diverse. E’ invece vero che la cultura latina fa parte delle radici di quella italiana e conoscere gli autori latini è indispensabile per capire il pensiero dei maggiori scrittori italiani. Ma lo stesso vale per la Bibbia, e nessuno si sogna di far imparare l’aramaico per conoscere meglio Dante! Si possono studiare benissimo Virgilio e Seneca senza leggerli in lingua originale.

L’altra argomentazione mi pare ancora più debole. Il latino non è difficile di per sé, sono difficili gli autori che si studiano perché scrivono in modo ricercato. Sono convinto che studiare una lingua moderna complessa e aliena come può essere un idioma cinese o l’hindi o anche l’arabo “apra la mente” assai di più, e ha risvolti pratici che, nonostante quello che ho detto, male certamente non fanno.

Insomma, perché si studia il latino? Semplicemente perché Gentile era un vecchio barbogio?

Zizzannia

Ho notato che poche cose mettono in disaccordo le persone come la ricetta degli spaghetti alla carbonara. Avete mai provato a fare  una carbonara ad un gruppo di amici? Apriti cielo! Ognuno dice la sua, ed è convinto che la propria versione non solo sia la più buona, ma anche quella “giusta”, spesso suffragando la propria ipotesi con “E’ quella che c’è sul Cucchiaio d’Argento” o “I veri cuochi la fanno così”. In realtà non credo che ci sia nulla di più sbagliato del concetto di “ricetta giusta”, ognuno mangia i cibi preparati semplicemente come preferisce, ed è una regola sulla quale, nel complesso, la gente è d’accordo… tranne che per la carbonara.

Escludendo varianti a mio parare troppo snaturanti (la “carbonara con le zucchine al posto della pancetta” non è una carbonara, è pasta con uovo e zucchine!), quelle che ho registrato, finora, sono le seguenti:

Che portano a 64 versioni di carbonara. Fino a poco tempo fa avrei detto 56, perché le 8 versioni con solo tuorlo, senza panna e strascicate in padella mi parevano senza senso (cos’è, pasta all’uovo sodo?!?), ma ho conosciuto di recente anche chi applica questa variante.
Ora sono pronto a tutto, c’è qualcuno che usa il peperoncino al posto del pepe? O che cuoce le uova nell’acqua insieme alla pasta? Stupitemi!

PS: la mia versione è no panna, no cipolla, no aglio, uova intere leggermente rappresein padella, pancetta a caso. E’ quella giusta, poche storie!

Annecy 2008: Di bello e di brutto

E infine, una rassegna di roba varia che ho visto e che ritengo che valga la pena di essere citata. In alcuni casi perché, pur non avendo vinto premi, sono meritevoli di citazione, in altri casi perché è roba talmente brutta o scema che è uopo tenersene alla larga, o deriderla, o tutti e due.

Dai lungometraggi:

pianonomori.jpgPiano no mori (La foresta del piano) di Masayuki Kojima: lungometraggio giapponese, un bel polpettone shoonen, è interessante per la struttura che si innesta sugli anime sportivi (gioventù, rivalità, passione, talento, impegno…) per parlare di pianisti classici. Mancano solo le mosse speciali, per il resto sarebbe quasi indistinguibile da una versione impomatata di Holly e Benji. L’ho visto il lunedì mattina, prima visione dell’annata, ed è stato un buon inizio.

moonbear.jpgMoonbeam bear and his friends di Mike Maurus (Germania): al contrario, questo l’ho visto di venerdì, quando la settimana ormai scemava e si inizia a pagare qualche errore di programmazione delle visioni. Ci si ritrova ad affrontare quindi scelte in cui il meglio è la storia di un orsetto che amava molto la luna, tanto che la ospita a casa sua e la batte a dama. Credo di aver avuto un enorme gocciolone di sudore sulla nuca per tutta la proiezione, ma in fondo si tratta di un film nella tradizione teutonica pedagogica, ed è abbastanza tenero e apprezzabile da un bambino.

Dai cortometraggi in concorso:

Far away from Ural di Katariina Lillqvist (Finlandia): signori, il vincitore del premio “Corto molesto” dell’anno! Far away from Ural è un’infinita (almeno, secondo la percezione dello spettatore) accozzaglia di sgraziate metafore visive sulla guerra civile finlandese. Pur ammettendo che l’ignoranza sull’argomento possa avere inficiato la visione (prima di questo corto ignoravo che esistesse una guerra civile finlandese!), 25 minuti di signori con una valigia nel culo sono intollerabili. Purtroppo non sono riuscito a dormire.

styri.jpgŠtyri (Quattro) di Ivana Sebestova (Slovacchia): lo schema è già stato visto: narrare la stessa storia da quattro punti di vista differenti, facendo in modo che ogni successiva ripetizione aggiunga qualche dettaglio e getti una nuova luce sulle precedenti. Non è un’idea nuova, certo, ma è sempre affascinante, e in più Styri è costruita in uno stile grafico particolarmente efficace, non lontano da Tamara de Lempicka. Speravo molto in un  premio per questo lavoro.

chainsaw.jpgChainsaw di Dennis Tupicoff (Australia): un altro candidato del pubblico (cioè, mio) ad un premio, è questo lungo lavoro principalmente in rotoscopio. Chainsaw è una storia quasi alla Hemingway, di tori e toreri, di uomini virili che abbattono alberi, di tradimenti, di belle donne e  di mezzuomini. Il rotoscopio lascia sempre un po’ di amaro in bocca, è una tecnica che appare paradossalmente un po’ artificiale, ma è un corto che si segue con piacere.

kizimizi.jpgKizi Mizi di Mariusz Wilczynski (Polonia): sembra quasi un corto polacco delle barzellette. Lungo oltre 20′, è un’incomprensibile storia di un gatto e di un topo, disegnata in maniera, ehm, “rudimentale” che mostra più volte le stesse situazioni, a volte con alcune variazioni e a volte no, il tutto con una musica stridente e volutamente fastidiosa. Eppure, contriariamente ai miei compagni di visione, non me la sento di candidare Kizi Mizi al premio “Corto Molesto” perché col proseguire della visione con la ripetizione di scene inizia ad assumere un ritmo avvolgente, quasi ipnotico. Non è un lavoro privo di interesse, benché sia assai ostico.

paradise.jpgParadise di Jesse Rosensweet (Canada): toh, il vecchio tema del libero arbitrio e della società opprimente che ci costringe in ruoli predefiniti! Paradise sfrutta una tecnica particolare, è costruito con pupazzetti metallici agganciati ad una base (credo che ci fosse una linea di giocattoli simili, in passato) che li fa scorrere, appunto, come se fossero delle rotaie in percorsi prestabiliti. Applicando la tecnica a un’ambientazione “marito che lavora, donna a casa” la metafora è evidente. Il finale è inoltre particolarmente pessimista.

Dai corti fuori concorso:

corte.jpgCorte eléctrico di Maria Arteaga (Colombia): segnalo questo lavoro colombiano, anche se alla fine non ho idea se mi sia piaciuto o meno. In un bel 3d pittorico, si narra la storia di un condominio moderno visto dal tipo che lava i vetri (per qualche strana ragione, un prestante figaccione). Ci sarà poi l’immancabile serial killer a dare un tocco di brivido. Corte eléctrico è ben disegnato, la narrazione è fluida e si segue con piacere, ma lascia una sensazione di “embè?” che è proprio fastidiosa.

kodomo.jpgKodomo no keijihogaku di Koji Yamamura (Giappone): il nuovo lavoro dell’autore del pluripremiato Atama Yama non è passato in concorso principale, ed è proprio un peccato perché l’ho trovato migliore non solo di molti corti in concorso, ma forse anche dei precedenti lavori di Yamamura. Kodomo no keijihogaku, “Metafisica del bambino”, è una raccolta di brevissime scenette, ognuna delle quali rappresenta con una metafora visiva un tipico comportamento infantile. Non tutte sono immediatamente comprensibili (magari i bambini giapponesi funzionano in modo differente!), ma il corto, anche se disegnato in modo un po’ schematico, funziona.

Majakovsky – Drei Liebesgeschichten (Majakovsky – Tre lettere d’amore) di Svetlana Filippova (Germania): grazie a questo corto, abbiamo imparato che rappresentando eventi insignificanti della vita di un poeta in un film particolarmente brutto e molesto è possibile rovinare la fama del poeta stesso. Per me, ora Majakovsky è un pessimo poeta.

canerime.jpgÇa ne rime a rien di Claude Duty (Francia): ah, che esperimento interessante! Lo stesso filmato, quasi completamente astratto, viene mostrato quattro o cinque volte, ogni volta con una musica differente. L’accostamento tra immagini e musica genera quindi ogni volta sensazioni completamente differenti, anche se le immagini sono proprio le stesse. Arte concettuale.

E ora, qualcosa di completamente diverso (dalla TV):

rickandsteve.jpgRick and Steve the happiest gay couple in the world di Q. Allan Brocka (USA): una sit-com gay costruita animando i playmobil? Ha senso? Eccome se ne ha! Rick and Steve è spassosa, ricca di belle battute, con umorismo che passa dall’auto ironia del mondo gay all’humour nero alle più becere battute pecorecce, e tutto in puro stile sit-com, con ritmo e personaggi chiaramente definiti. Una scoperta davvero interessante.

wanted.jpgWanted di Woonki Kim (Corea del Sud): la vita in una cittadina coreana scorre normalmente, tra piccole antipatie, personaggi pittoreschi e la voglia di tirare avanti in un modo o nell’altro, quando una strega provoca una terribile inondazione (no, non è Angelina Jolie). Appare come una specie di favola, ma proseguendo la visione è chiaro che si parla di un vero tifone arrivato in Corea, con evidenti accuse a come sono stati gestiti gli aiuti da parte delle autorità. Questa contaminazione tra fiaba e realtà getta su Wanted una luce migliore di quello che sembra inizialmente.

Bytis: Lamsi and Anthony Evans di Thomas B. Edgar (GB): non credo di aver mai visto a un festival nulla di peggio di questo programma. Inconcepibile. Un pupazzetto di agnello, mosso probabilmente a mano, interagisce con un ospite reale come accadeva nel Muppets Show, ma senza battute lontamente degne, senza animazione lontamente passabile, senza un briciolo di gusto nei dialoghi. Quasi illuminante!

Torniamo ai corti, questa volta di scuola:

redhood.jpgStraying Little Red Riding Hood di Pecoraped (Giappone): parodie di favole ne abbiam viste tante, anzi troppe, ma quando sono fatte con un gusto per la contaminazione, con un’evidente spirito surrealista (Rabbit è il paragone più immediato), con la follia che hanno solo i giapponesi quando ci si mettono, ben vengano!

Black Dog di Dong-rack Son (Corea del Sud): triste corto coreano di un cane randagio che vaga per le strade. Potrebbe essere quasi definito come neo-realista per l’intento e per il tono con cui è narrato, e anche se non proprio originale Black Dog è a modo suo ben realizzato. Curioso, i cani in animazione funzionano meglio dei gatti.

lamour.jpgL’amour m’anime di Chloé Mazlo (Francia)  l’autrice di questo corto si mette in piazza e racconta alcuni episodi della sua vita (in particolare, quella amorosa) utilizzando una pletora di diverse tecniche di animazione. L’animazione al tempo dei blog, certamente, ma l’effetto patchwork, con la sola unità della protagonista, genera un corto di indubbio interesse.

E infine qualcosa dai programmi speciali:

Maa-aa-aa! di Chetan Sharma (India): primo corto del programma dei corti indiani, ha sbalordito un po’ tutti. Che nel 2006 si facessero ancora imitazioni del Disney classico, animando rodovetri con animaletti buffi e canterini, è una sorpresa. Che invece i risultati siano così terribili, in fondo era prevedibile.

fantasmagorie.jpgUne autre histoire du cinema: che spettacolo! Cortometraggi muti degli albori del cinema (di animazione e non), con sua maestà Serge Bromberg che li accompagna con un pianoforte a coda! Peccato che, ehm, la combinazione è letale per le mie cellule vegliatrici (ammesso che esista qualcosa di simile, ma pazienza) e ho ronfato pesantemente per quasi tutta la proiezione…

purves.jpgBarry Purves: E infine, un programma speciale per intiero, quello dedicato a Barry Purves. La mia strada non si era mai incrociata con quella di questo animatore britannico, e sono andato a vedere la sua monografia un po’ dubbioso. Amo poco le monografie, di solito stancano perché gli autori capaci di dire tante cose diverse e dirle per bene sono davvero pochi. Ebbene, Purves è uno di essi: anche quando narrano trame un po’ stupidine come il Rigoletto, i suoi corti sono spettacolari, fatti con marionette espressive e ambienti sontuosi.

Sì, è finita. A chi è arrivato in fondo, in omaggio una suoneria con un animaletto buffo che scorreggia.

Il cinema di Salvatores

Durante il periodo universitario sono andato pochissimo al cinema. In quei cinque anni dal 1993 al 1998 credo di aver visto meno di dieci film in sala, probabilmente solo i seguenti: Star Wars (riedizione del 1997), Il Ciclone, Independence Day, Ed Wood, Street Fighter II (sic), Mi sdoppio in quattro, e Sud, il film di Gabriele Salvatores. Sì, per gran parte film di merda.

L’ultimo film citato, Sud, è stato il primo a cui ho assistito in città, in un cinema che (che tempi, che more) è stato poi trasformato in sala Bingo, e lo vidi coi miei coinquilini del primo anno di università, il già citato Simone e l’inedito Salvatore. Verso tre quarti del film, la proiezione ebbe quello che pareva un incidente, e il quadro si spostò verso il basso, lasciando quindi visibile solo la parte superiore della pellicola. La cosa durò per qualche minuto, durante  il quale il pubblico rumoreggiò. Mi rivolsi allora a Simone e gli sussurrai: “Certo che potrebbero fare qualcosa per risolvere il problema!” e lui mi sibilò: “Ma che problema! E’ un effetto voluto…tu non conosci il cinema di Salvatores!”. In effetti non conoscevo il cinema di Salvatores (era il primo film che vedevo di questo regista) e incassai la risposta. Poco dopo, la proiezione tornò normale.

Negli anni successivi ho visto altri film di Salvatores. Non tutti, ma parecchi, e comunque abbastanza per capire che il suo stile è privo di certi sperimentalismi (soprattutto se un po’ aridi, come sarebbe stato in questo caso), ma non ho più rivisto Sud e quindi non ho mai saputo per certo se Simone avesse ragione o meno. Cribbio.

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