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Il ragazzo col cappello

Di idee cattive, deliranti o semplicemente sceme ne ho avute parecchie, ma credo che questa le batta tutte.

Un giorno, quando avrò avuto circa 12 anni, ebbi la folgorazione che per rinsaldare la mia traballante (per non dire inesistente) popolarità io sarei diventato “il ragazzo col cappello”. Mi sarei trovato un cappellino qualunque (anche se sottintendevo a me stesso che era una cappellino da baseball, di quelli con visiera) e l’avrei indossato continuamente.  La gente, un po’ sconcertata all’inizio, avrebbe poi iniziato a voler bene a quello strano giovanotto. Il fruttivendolo gli avrebbe tirato una mela dicendo “Tieni, ragazzo col cappello, prendi questa e buon pro ti faccia!” e i giovinastri ai giardini e in sala giochi avrebbero avuto un muto rispetto per chi si proponeva con un così audace gesto. Forse addirittura una volta egli avrebbe salvato un bambino che stava finendo sotto un’ambulanza (sì, sotto un’ambulanza…che crudele ironia!) lanciandosi per sottrarlo a una morte crudele; il ragazzo col cappello si sarebbe ferito, e per la prima volta tutti lo avrebbero visto senza cappello, e avrebbero mormorato “allora il ragazzo col cappello è così, senza il cappello…”;  se poi fossi morto, avrebbero pianto la mia dipartita e sulla mia bara ci sarebbe stato il suddetto copricapo. Però non ho mai deciso se sarei morto o meno (sì, il resto erano “film che mi ero fatto”).

Poi San Boleto Coccige mi ha messo la mano sulla spalla, mi ha benedetto e ho avuto l’illuminazione che, di tutte le cazzate che potevo fare, questa era una delle più imbecilli. Ed è per questo che nessuno mi conosce come “ragazzo col cappello”. Oh, ma sono sempre in tempo…

(ripensando a questa storia, non posso fare  a meno di immaginarmi come Charlie Brown. Good grief…)

Divagazioni presabatali

E’ venerdì, e come sempre si conclude, per noi squallidi impiegatucci, una settimana di lavoro. Eppure, al termine della prima settimana in cui lavorai, appena laureato, all’inizio di ottobre 1994, io tremai.  Il fatto è che nessuno mi aveva detto se la settimana di lavoro era dal lunedì al venerdì o dal lunedì al sabato. Cazzo ridete, il contratto metalmeccanico stabilisce che si lavora sei giorni a settimana, è per questo che se Natale cade di sabato molti di noi rimangono con un pugno di mosche, mentre se cade di domenica abbiamo un ricco giorno pagato in più! Mi è sempre sfuggito, tuttavia, con quale gabola si lavori per “solo” cinque giorni, ma meglio così, che diamine. Il sabato mattina ci ho da fare il lungo lento, e ho bisogno di un paio d’ore per correre con calma.

Beh, per tornare al mio aneddoto, ero ragionevolmente certo che il sabato non si sarebbe lavorato, ma non completamente certo, e mi sentivo troppo fesso per chiederlo ai colleghi. Cioè, immaginate uno che vi arriva e vi chiede: “Senti un po’, ma domani si lavora?”. Vi conosco, prendereste un’ora di permesso per andare a procurarvi il catrame e le piume! Io le piume saprei dove prenderle, basta sventrare un cuscino o un piumino, ma il catrame non saprei dove andarlo a comprare. Probabilmente finirei per andare da un cantiere e chiedere a un membro dei Village People:  “Mi scusi, dovrei impiumare un tizio che ha chiesto se domani si lavora, non è che mi presta un po’ di catrame? Grazie mille!”.

E quindi, dimostrando rara astuzia, passai il venerdì pomeriggio con le orecchie tese per captare eventuali frammenti di conversazione che dicessero “Buon weekend, ci vediamo lunedì!” o “Mah, è inutile iniziare a fare queste cose adesso, poi dopo due giorni perdiamo il filo” o, viceversa, “Ne parliamo nella riunione di domattina!” o “Forza che domani finisce la settimana e poi abbiamo un ricco giorno di riposo!”. Afferrai qualche frammento del primo tipo e andai a casa sereno. Poi, il giorno dopo, mi alzai alle 6.30 perché dovevo andare a Savona a farmi dare un certificato di  un tipo di cui nel tribunale non conoscevano l’esistenza. Ma questa è un’altra storia, e si dovrà raccontare un’altra volta… (putroppo per voi)

Io e la protesta studentesca

Non ho un’opinione precisa, informata e ragionata sulla protesta studentesca in atto contro la Riforma Gelmini: da un lato sono convinto che spesso i ragazzi protestino solo per protestare e far casino, dall’altro sono anche convinto che sia un bene che facciano così, al di là del fatto che sia una riforma corretta o meno. Insomma, se non rompono le palle i ragazzi, dove andremo a finire?

D’altra parte, la mia esperienza di protesta studentesca (in quanto studente, è necessario specificare. Sì, ci sono anche i non-studenti che protestatno cogli studenti) è stata assai limitata. Quasi niente al liceo:  ai miei tempi (mi son diplomato nel 1993) non c’era la moda delle occupazioni periodiche pre-natalizie; quella sarebbe arrivata in seguito. C’erano invece occasionali scioperi contro guerre o simili (ricordo il mio saggio professore di italiano che ce la menava “Domani non c’è lezione perché andate a far cambiare idea a Bush“, aggiungendo però “è giusto che lo facciate” – per la cronaca, era Bush padre) o quando non c’era il riscaldamento: “Fa freddo! Sciopero!”, che poi io avevo sempre caldo e  far lezione con 15° non mi pareva una tragedia, ma vuoi mettere un’occasione per saltare una possibile interrogazione?

All’università, durante il secondo anno, nacque invece un movimento di protesta. Io non partecipai, che diamine, ci avevo da studiare, ma ricordo che l’Aula di Legno, situata presso la facoltà di  Biologia in Viale Benedetto XV a Genova, fu occupata. Non cambiò assolutamente nulla in quell’aula, che era già pensata per chi voleva studiare o socializzare più che per far lezione, però in più qualcuno ci dormiva di notte. E un giorno decisi di prendere parte a una manifestazione. Contro cosa si manifestava? Non avevo capito bene, ma era un’esperienza che mi interessava fare, e potevo permettermi di saltare un giorno di lezione. Ciò che ricordo di quel corteo è lo slogan “Su, su, su! Le tasse vanno su! Occupiamo e non paghiamo più!”, dal che deduco che probabilmente il casus belli degli scioperi era stato un aumento delle tasse universitarie. Tutti noi ricordiamo il Famoso Aumento delle Tasse del 1995, vero? Vero? Ah, no? Beh, probabilmente allora non era un aumento così radicale. A me suonava un po’ strano, perché non capivo in che modo l’aumento delle tasse potesse essere risolto non pagandole o impedendo di far lezione nell’Aula di Legno. Comunque sia, si scandiva ripetutamente quello slogan e ogni tanto si correva in avanti facendo finta di caricare la polizia che, con gran pazienza, ci guardava come se fossimo un po’ scemi. Il corteo condusse in un’aula vicino a via Balbi dove si tenne un’assemblea dal sapore sessantottino. Qui rimasi poco perché fumavano tutti, l’aria era davvero irrespirabile e iniziavo a sentirmi male. E poi ero inquieto per solidarietà con una ragazza che aveva preso la parola, era nervosissima, tremava addirittura e, sebbene dicesse cose un po’ sciocchine (“siamo noi gli avvocati del domani e quindi dobbiamo essere responsabili”) mi sembrava scorretto che tutti le ridessero dietro.

E quindi sono uscito, ho respirato aria pura e ho smesso con la protesta studentesca. Ero anziano già a 21 anni, e questo è tutto quello che ho da dire sulla protesta studentesca.

Perché non credo ai miracoli

Quando avevo circa 12 anni, c’è stato un periodo in cui mi sono cimentato come Pescatore di Polpi in Apnea. Partivo dalla spiaggia di Alassio armato di pinne, fucile ed occhiali, tranne che il fucile era un semplice tridente senza possibilità di spararlo perché in effetti fa brutto andare in mezzo ai bagnanti armato (per tacer del fatto che ci vuole qualche permesso, suppongo). E poi già mi son fatto male col tridentino così, facendomi un taglio sul polpaccio destro di cui porto ancora la cicatrice, figuriamoci sparando! Mi piccavo di essere un ottimo subacqueo, sostenendo di scendere “a otto metri”. In realtà non ho la minima idea di quale fosse le profondità a cui scendessi, ma una volta che impari a compensare, è solo questione di avere un pochetto di fiato, quindi non c’è molto da pavoneggiarsi.

E così andavo a caccia di polpi. Alassio ha una spiaggia di sabbia molto fine, e anche andando verso il largo il paesaggio sottomarino è piuttosto uniforme (e un po’ palloso per chi volesse fare snorkeling, diciamolo!). Il vantaggio di questa morfologia è però che le occasionali rocce o relitti (bidoni, tronchi d’alberto…) che si trovano sott’acqua sono i soli posti dove i polpi possono fare la tana. La strategia di caccia è quindi presto fatta: si va a zonzo in superficie finché non si scorge un luogo papabile per un polpo; lì ci si immerge e si verifica se c’è un polpo; se c’è, lo si infilza, altrimenti si passa alla roccia/relitto successivo (l’istinto dell’informatico ha trasformato la pesca al polpo in un algoritmo!).

Un giorno, il cielo era quasi completamente coperto e io, fischiettando sotto il pelo dell’acqua la canzone dei Puffi, stavo cercando cefalopodi. All’improvviso, le nuvole si aprirono e un raggio di luce filtrò, penetrando sott’acqua e illuminando una roccia subacquea poco lontana che mi era sfuggita. Non poteva essere altro che un segno divino, lì sotto ci sarà per forza una Piovra Gigante con cui sfamerò l’Etiopia! Scesi, e come sicuramente avete immaginato non c’era una ceppa.

Da allora, se vedo sul muro una macchia di umidità a forma di Padre Pio chiamo il condominio, non i giornali. Ripensandoci, forse è questo il vero miracolo.

Il limite

Prendendo esempio da quello che ho fatto qualche mese fa, ho iniziato a ripulire anche la camera della mia casa natìa ad Alassio. Per la semplice ragione che ci ho passato più anni, infatti, lì ci sono ancora più nonsisamai, clandestini, ricorditi, invisibili e scassavecchiotti. Meno burosauri, invece. Alcune oggetti sepolti nei cassetti sono davvero notevoli:  ho, ad esempio, un gadget contenuto nella scatola di Ultima II per Apple II uscito negli anni ’80 che è una mappa del mondo del gioco stampata su stoffa. Penso che al mercato dei collezionisti possa anche valere qualcosa.

Ma per il resto, tanta roba da buttare. Eppure, anch’io mi sono fermato di fronte a un oggetto che è uno scassavecchiotto invisibile, perdipiù inutile come pochi: la cassetta di The Number of the Beast degli Iron Maiden.
Due mesi fa ho venduto la mia Kakavolo, e con essa è andato via l’ultimo lettore di musicassette in mio possesso. La mia collezione di oltre un centinaio di pezzi, alcuni originali e altri duplicati, già invecchiata paurosamente da quando esistono i lettori MP3, è diventata così assolutamente inutile. Questa cassetta in particolare risale al 1982 ed è stata comprata da Zio Mario che poi me l’ha regalata quando, nel 1988, ho scoperto quei signori capelluti;  è stata ascoltata centinaia se non migliaia di volte, trascinata in vacanze, ficcata nei walkman di tutte le fogge e in pomposi sterei con high-speed dubbing. E’ quindi inevitabile che si sia usurata, e ricordo che negli ultimi anni si sentiva proprio male. Eppure, non ho avuto cuore di gettarla via: la cassetta di The Number of the Beast è stata una barriera che si è opposta alla mia foga di repulisti. Quel giorno non vi buttai più avante.

E ora, con questa barriera che mi si oppone, come faccio a liberarmi di tre cassetti strapieni di musicassette inutili? Nessuno vuole venirsele a prendere? Le regalo tutte, con l’eccezione di The Number of the Beast. Nonostante Gangland, quello lo metto in una teca.

Ingiustizie

Le mie gite a Sassello in inverno sono state rare e sporadiche, eppure ricordo un sacco di cose di quelle vacanzine fuori stagione. Sarà che erano così anomale che si prestano a essere rimembrate, un po’ come succede che ti ricordi benissimo dell’unica volta in cui sei andato a pescare merluzzi rispetto a tutte le volte che sei andato a pescare branzini. Che poi i merluzzi freschi non esistono, i merluzzi si mangiano solo surgelati, meglio se in forma di bastoncino, meglio se del Capitano. Il che mi ricorda che i bastoncini di pesce ogni tanto compaiono nella mia dieta, mentre invece i Sofficini, che in qualche modo sono i loro gemelli, invece non li mangio da lustri ormai. Credo che abbiano financo cambiato ricetta.

Ma io divago, tanto per cambiare. Nella Pasqua 1983 andammo a Sassello con tutta la famiglia. Una volta partiti, arrivati di fronte al Grand Hotel Diana di Alassio (a una diecina di minuti da casa mia), il mio babbo si rese conto di aver dimenticato il borsello e dovemmo tornare indietro a prenderlo. Probabilmente in quel borsello (che sarà stato di vero budello) c’erano chiavi e portafoglio, quindi non c’era scelta. Arrivammo in campagna e mi preparai ad andare a scorrazzare in giro coi miei amichetti, quando venni fermato da mia mamma: “Molla qui l’orologio! Poi finisce che lo perdi o lo rompi scorrazzando in giro coi tuoi amichetti!”. Invero, avevo un orologio digitale di cui ero molto fiero perché aveva la bellezza di otto pulsanti, quattro intorno all’orologio e quattro sotto il display, una soluzione mai più vista perché da allora la tendenza nel design è stata di ridurre sempre di più il numero di pulsanti. Misi quindi l’orologio in un contenitore nella credenza dove si tenevano i biscotti e la Nutella e me ne andai a scorrazzare in giro coi miei amichetti.

Passarono alcuni giorni e fu il momento di ritornare a casa; chiudemmo la casa e ripartimmo. Poco dopo, quando eravamo dai Badani (quindi a circa dieci minuti di strada da casa), mi accorsi di aver dimenticato l’orologio in quel contenitore. “Mamma, papà, torniamo indietro, ho dimenticato l’orologio!” li pregai, ma invano. Eravamo partiti e non si tornava indietro. Sì, però per il borsello eravamo tornati indietro, è un’ingiustizia. E quindi rimasi senza orologio per tutta la primavera finché, giunta l’estate, non tornai a Sassello ed ebbi la possibilità finalmente di tornare in possesso del mio orologio digitale con otto pulsanti.

La morale è che, se sono arrivato tardi qualche volta nella primavera 1983, non è colpa mia, e che i bastoncini di pesce sono buoni, anche fatti al forno.

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