Fonte Nugata: fonte di acqua sorgiva sita in Val Nugata, in Piemonte. Attorno ai primi anni ’90 salì agli onori delle cronache perché tre anziani contadini affermarono che le sue acque avevano il sapore di gelato alla nocciola. In breve, si diffuse la notizia e la fonte divenne meta di pellegrinaggi e fu trasformata in una rinomata località turistica: da tutta Italia la gente accorreva per assaggiarne le prelibate acque nocciolate. Le sorti di Fonte Nugata si capovolsero quando i tre contadini morirono nel giro di pochi mesi di atroci sofferenze. Furono compiute delle indagini e si scoprì che, nei terreni circostanti la fonte, una piccola associazione criminale era solita smaltire abusivamente rifiuti tossici. In breve tempo, la Val Nugata si spopolò e la fonte alla nocciola fu abbandonata al suo destino. Voci non ufficiali affermano che il sapore unico della Nutella derivi dalla sua vicinanza alla Val Nugata.
Il Melomaniaco: celebre discoteca di Riccione in cui si ascolta solamente musica classica. Gli avventori sono soliti venire vestiti da gentiluomini o da dame del Sei-Settecento e ballare e sballarsi sui brani scelti dal celebre dj Rockocò. I buttafuori sono vestiti da cavalieri e impugnano picche e aracaici archibugi per spaventare chi non è vestito abbastanza alla non-moda. Il Melomaniaco è stato chiuso nel 2006 dopo che sono stati trovati sei chili di ecstasy alla papaia nascosti nella parrucca di un avventore.
Palla Dimetrodonte: variante del popolare gioco di Palla Asino. Il meccanismo è identico a quest’ultimo: ci si passa la palla, e chi la fa cadere guadagna una lettera fino a comporre la parola “Asino”, al che è eliminato. La differenza è che in Palla Dimetrodonte la parola composta è “Dimetrodonte”, e chi per primo la raggiunge è il vincitore. Campione del mondo di Palla Dimetrodonte è Pierino Cacciavalle di Salerno, inventore del gioco e unica persona che vuole giocare a un gioco talmente stupido.
Una delle preoccupazioni di zia Adelina, oltre che fare in modo che io finissi tutto quello che avevo nel piatto, era che mi tenessi il cappotto (o, come lo chiamava lei, il paletò) in casa. Intendiamoci, non passavo le mie giornate in casa a guardare Trider G7 e Robottino intabarrato in sciarpe e giacconi, ma se, ad esempio, dovevo entrare un momento in casa per prendere un quaderno che avevo dimenticato, o se stavo ad aspettare qualcuno che non era ancora pronto per uscire, non mi stavo a spogliare. E che marroni!
Per zia Adelina, questo era un comportamento gravissimo, poiché “Se tieni il paletò in casa, poi quando esci hai più freddo e ti ammali!”. A me la cosa suonava un po’ strana, perché la temperatura esterna rimane la stessa sia che io tenga il cappotto in casa sia che non lo faccia, e comunque accumulare un po’ di calore prima di affrontare le intemperie male di sicuro non fa. Però, quando lei era in giro, obbedivo, più per evitare futili discussioni che altro.
Mi è rimasto tuttavia il dubbio che potesse esserci un fondo di verità in quello che la zia diceva; adesso, coi potenti mezzi di Internet, vediamo di risolverlo una volta per tutte: tenere il paletò in casa fa ammalare?
Quand’ero piccolo, ad Alassio, in un impeto di campagnolità, tenevamo le galline. Il pollaio, contenente di solito quattro galline, era situato nella fascia del giardino adesso dedicata al sollazzo, quella dove c’è la piscina, e precisamente stava dove adesso è il mio appartamento (sì, so che queste informazioni sono inutili per chi non è mai stato a casa mia, ma giacché la maggior parte dei miei lettori la conosce, io allungo il brodo e lo scrivo. Tutti gli altri facciano finta di non aver letto il periodo precedente, l’articolo funzionerà lo stesso egregiamente).
Io odiavo le galline. Uno dei miei compiti era quello di dare loro da mangiare la domenica e a volte anche nei giorni feriali, se ce n’era bisogno. Dar da mangiare alle galline significava infilarmi nel locale caldaie, buio e pieno di ragni, prendere le granaglie, portarle nel pollaio, schivare tutta la popò, affrontare gli sguardi inquisitori degli uccellacci e infine dare loro da mangiare. Dovevo poi prenere le uova, che spesso erano sporche di guano, e portarle in casa. Ammetto che ci sono incombenze più sgradevoli anche per un bambino, ma avevo preso proprio in antipatia questo lavoretto.
Ma io non ero l’unico a cui le galline causavano problemi: i volatili in questione erano soggetti a ricambio, nel senso che quando diventavano troppo vecchie e non facevano più uova, bisognava ammazzarle e farne buon brodo. Ma nessuno, in famiglia, conosceva le tecniche per accoppare queste bestie. Dopo alcune pantomime, tra cui quella in cui la Piera, la donna che ci dava una mano in casa, cercò di decapitarne una con l’accetta, ci si rassegnò a rivolgersi ad aiuti esterni.
“Poco male”, direte voi, “tutto questo è nulla in confronto al piacere di avere le uova freschissime quotidianamente in casa!”. Poveri illusi: mai sottovalutare il potere tragicomico di casa Ventimiglia. Ogni uovo, quando veniva raccolto, era marcato con la data, a matita sul guscio. Quando era il momento di consumarne uno, la regola prevedeva che si iniziasse da quelli più vecchi. E poiché la produzione media era di quattro uova al giorno, che non sono poche per una famiglia di quattro persone, si finiva sempre per mangiare uova più vecchie di quelle che si comprano nei negozi.
Poi, a un certo punto, anche i miei si sono rotti. Da allora, comunque, ho capito che non avrei fatto il contadino perché mi scoglionavo a dar da mangiare alle galline. Un’altra strada che mi si chiudeva.
(articoletto extra per viziarvi un po’, suvvia…)
L’articolo sui motori di ricerca si fa una volta all’anno, ma non ho potuto resistere: oggi sono arrivati qui cercando su Google la stringa:
ping-pong a či fico-pong
Due domande:
a) cosa cacchio cercavano?
b) esiste al mondo un’espressione più buffa di questa?
Quando vado a fare la spesa al supermercato mi capita talvolta di trovare i carrelli, riposti nell’apposito spazio, in una particolare configurazione. Succede infatti che, se ci sono più file di carrelli, tutti i carrelli siano stati presi da una sola o, viceversa, che siano stati presi da tutte tranne che da una. Beh, di solito le file sono solo due, quindi i due casi coincidono.
Risulta comunque che c’è almeno una fila di carrelli piena, di fronte a una o più quasi vuote. In questi casi, per me è inevitabile fare il Bastian Contrario, pensare “Che diamine, non voglio mica fare come tutti gli altri che seguono le mode!” e, con sicumera, andare a prendere il carrello nella fila piena. Regolarmente, il primo carrello di tale fila ha qualcosa che non va: magari ha una ruota rotta, o è sporco o, nel caso più comune, il congegno dove mettere la moneta è difettoso e non si sblocca. Quindi, con le pive nel sacco, torno nel gregge e prendo il carrello dalla fila quasi vuota, inveendo: la mia facoltà di scelta è stata violata.
Fakt 2: I supermercati promettono libertà e poi non la danno
Ecco un’altra storia in cui io sono il malvagio della situazione. Tenetevi forte.
C’è stato un periodo, quando avevo circa 12-13 anni, che avevo preso l’abitudine di andare al cinema da solo la domenica pomeriggio ad Alassio. Allora, come d’altronde adesso, non vivevo la cosa come un fallimento sociale, semplicemente avevo voglia di vedere un film e andavo al cinema, tutto lì.
In queste mie sessioni, che erano diventate una sorta di rito, mi portavo sempre qualcosa da sgranocchiare: patatine, caramelle, o qualcosa di simile; un giorno, andai a vedere un film il cui titolo ho rimosso (poteva essere magari I tre Amigos o Beverly Hills Cop 2, ma non ci giurerei) al cinema Colombo e acquistai al bar lì vicino, sorprendentemente chiamato Bar Colombo, una confezione di Voglia Matta. Le Voglia Matta, ora generalmente dimenticate, erano un prodotto della Perugina e consistevano in una specie di piccoli cioccolatini in una scatoletta di cartone, nella misura di una ventina per confezione. La pubblicità recitava, sull’aria di Cuore Matto di Little Tony: “La voglia matta, matta da legare, con cinque gusti non sai più che cosa fare” perché, come i più astuti avranno intuito, c’erano cinque declinazioni di Voglia Matta. Questa vertiginosa varietà di scelta cagionò la mia malvagità. Tenetevi ancora più forte. Infatti, iniziato il film, aprii la scatola, presi la prima Voglia Matta e l’addentai; tuttavia, appena morsa la prima prelibata pralina ebbi una brutta sorpresa: avevo commesso un imperdonabile errore e avevo acquistato l’unico gusto di Voglia Matta che proprio non mi piaceva, quella che sotto una scorza di cioccolato nascondeva una ciliegina candita. A me le ciliegine candite fanno cagare, infatti schifo anche i Mon Cheri. Immaginate lo shock: addenti qualcosa che pensi che ti piaccia un pacco e ti ritrovi con qualcosa di inaspettato! Come addentare un croissant e trovarci dentro del ragù al posto della marmellata!
La prima Voglia Matta la ingollai senza masticare ulteriormente, e poi, sconcertato, fui di fronte al dilemma: che fare? Il film sarebbe stato meno godibile senza la pappatoria, e comunque avevo pagato qualcosa tipo 1000 lire per i dolcetti, che non potevano andare sprecati. Ebbi quindi una diabolica illuminazione: in fondo, il cioccolato fuori è buono, almeno quello è mangiabile. Presi allora le Voglia Matta una per una, le succhiai amorosamente gustando ogni stilla di cioccolato…e poi…ehm, approfittando del buio della sala e del fatto che esa fosse semivuota, silenziosamente sputai le orride ciliegie candite sotto il sedile. In questo modo riuscii ad ottimizzare le risorse a mia disposizione, godendo di un po’ di cioccolato anche se non proprio delle Voglia Matta che speravo di avere, e il tutto al piccolo prezzo di un po’ di karma negativo e qualche centinaio di bestemmie di chi avrebbe dovuto fare le pulizie. In fondo il mondo è semplice.