Casa Ventimiglia, quand’ero piccolo, era disseminata di trappole culturali. Non solo c’erano libri dappertutto, ma i miei genitori, insegnanti, erano in effetti piuttosto bravi a trasmettere nozioni sotto forma di gioco o di racconto, in modo che io e mia sorella ci divertissimo. Un tipico esempio era quello dei miti e dei poemi epici greci, che ci venivano raccontati un po’ come se fossero una favola; questo stratagemma è stato riciclato con successo di recente con la mia nipotina seienne: d’altronde, se certe storie hanno funzionato per più di duemila anni, non saranno i trent’anni tra il 1980 e il 2013 a fare la differenza.
Ma il gioco più gettonato in assoluto era quello della catena sillabica. Probabilmente ci avrete giocato anche voi: partendo da una parola, a turno bisogna escogitare una parola che inizi con l’ultima sillaba della parola precedente, senza ripetere parole già dette. Chi non trova una parola entro un tempo ragionevole ha perso. Ad esempio: finestra, strato, tomino, notiziario, rione e così via. Il senso del gioco è imparare il concetto di divisione in sillabe, e, soprattutto, stimolare la costruzione di un ampio lessico. Purtroppo, però, a un certo punto il gioco smise di essere divertente, e precisamente quando scoprimmo il trucco vincente. Proseguiamo la catena di prima: rione, nemico, coniglio. “Glio…”. Pensateci un attimo, vi viene in mente qualche parola che inizi con la sillaba “glio”? No, non vi viene in mente. I gruppi “glia” e “glio” , “glie” sono pressoché impossibili. Noi giocatori professionisti di catene sillabiche ci rivolgemmo al dizionario e trovammo solo un pugno di oscuri termini medici, di cui ricordo solo “glioma”. E’ fatta, dunque? Il gioco è salvo? Eh no. Proseguiamo: Coniglio, glioma, maglio. Sigh. Andiamo a guardare i cartoni in tv, va’. C’è Robottino: “Lobolobolobo occi yeyeye”.
Di recente, per integrare un po’ la mia attività di corsa, ho iniziato ad andare in palestra seguendo i cosiddetti “corsi”. Ce ne sono un sacco con mille nomi assurdi (Body Combat, Circuit Training, Body Pump etc.), ci son mode che nascono e muoiono, ma il succo è che ti fan fare esercizi a tempo di musica. Io detesto fare pesi, mi son reso conto che da solo a casa non riesco a trovare il ritmo per fare esercizi, e allora vada per sgambettare in gruppo a ritmo di tunz-tunz. Tutto sommato è anche abbastanza divertente.
La palestra che ho scelto, per posizione, orari e tipo di corsi è la Mandraccio di Genova. E’ priva di una tradizionale sala con le macchine, ed è specializzata in corsi, scuola di ballo (!) e soprattutto alcuni tipi di arti marziali: alla mia prima comparsa da quelle parti, un tizio barbuto nello spogliatoio mi ha chiesto: “Tu che fai?” “Ah, io faccio i corsi nella saletta qui a fianco, sai, quelli dove ci sono un sacco di donne che sgambettano. E tu?”. Mi ha guardato con disprezzo e concluso: “Io faccio Krav Maga!”. Più di frequente, però, lo spogliatoio è pieno di bambini che “ci hanno” judo, e più raramente lotta libera.
Un giorno, dopo l’allenamento, vado a fare la doccia quand’ecco che mi rivolge la parola un giovane judoka, avrà avuto circa otto anni, in cui ho visto un Piccolo Luca un po’ più ciarliero. Nel locale docce, mi ha raccomandato di non andare nella terza doccia, perchè “è la doccia dei perdenti”. E’ un’espressione e un modo di vedere le cose che è molto tipico di me, ora e da piccolo.
In seguito, poi, nello spogliatoio, chissà perché, mi ha interrogato. Prima è partito con le barzellette. L’ho stupito sapendo rispondere correttamente all’annosa questione “Cosa fanno una Kawasaki e una Suzuki in riva al mare?” (se non lo sapete ci potete arrivare, dai), ma poi è riuscito a incastrarmi con “Perché tutti vogliono fare i calciatori di serie A?”. Ho azzardato e azzeccato l’area semantica rispondendo “Per fare un sacco di soldi”, cosa che non fa ridere, ma la risposta corretta era “Per fare soldi a pallate“. Non fa ridere manco questa, va detto, ma vedo che Sergio Paoletti ha fatto proseliti.
Successivamente però mi sono vendicato smentendo la sua maestra. “La maestra mi ha detto che Bibbia deriva dal latino Biblios che vuol dire libro“. Ho risposto:”Quasi: non dal latino, ma dal greco.” “Ma la maestra…” “…si è sbagliata.”. Questo l’ha un po’ messo in crisi, ma si è ripreso tornando all’attacco: “Questa la sbagli di sicuro. Quanto fa un mezzo per un mezzo?” Senza la minima esitazione sfoggio la mia cultura matematica a livello universitario: “Un quarto”. “…! Bravissimo! Tutti sbagliano e dicono uno!”. Mentre era barcollante per il colpo, ho contrattaccato: “E quanto fa un mezzo diviso un mezzo?” “?!? Un mezzo diviso un mezzo…” “Pensaci: quanto fa un numero qualsiasi diviso se stesso? Due diviso due, tre diviso tre, sei diviso sei?” “Uno! Fa uno!” e ha anche aggiunto “E’ vero: se immaginiamo la tabellina di ‘un mezzo’ e usiamo il metodo per dividere tramite le tabelline, la risposta è evidente!”. Stava gongolando e ancora riflettendo sulla sua scoperta, e ho meditato se era il caso di introdurlo alle meraviglie della divisione per zero, ma erano le otto, avevo fame, e me ne sono andato mentre continuava a parlare. Chissà, più volte ho pensato che il mio vero, grande talento sia quello di insegnante. Beh, pazienza. La prossima vita, magari.
Perché le mutande riforzate, quelle da mettersi contro gli attacchi degli omosessuali (quei peccatori debosciati sono sempre in agguato! Qualcuno faccia qualcosa!) o, metaforicamente, per ripararsi dalle avversità, devono proprio essere di ghisa e non di ferro, bronzo, rame, alluminio, ottone o acciaio? Pur ammettendo che la ghisa è la più buffa tra i metalli e le leghe sopra citate, perché proprio questa per far le mutande?