Parte del catechismo che ho ricevuto da piccolo consisteva nell’imparare a memoria le preghiere, e tra tutte le preghiere la più difficile era il Credo (che poi una preghiera non è, ma tralasciamo). Non è difficile immaginare perché: senza basi di teologia, si tratta di una sequenza di nozioni perlopiù incomprensibili da buttare a mente senza pietà. Ciononostante, io cercavo di capirci qualcosa lo stesso, e nel seguito di questo articolo verrà esposta l’analisi del Credo come la pensava il Piccolo Luca. Attenzione, non quello che credo che potrebbe pensare, ma quello che mi ricordo che lui pensasse. Se la cosa vi pare blasfema, beh, prendetela coi miei catechisti che non ci hanno nemmeno provato a spiegarmi il Credo! (Tra parentesi, se vi va sputtanate pure il Piccolo Luca, lo so che ogni singola parola di questa professione di fede è stata studiata nel Consiglio di Nicea e gronda del sangue delle eresie, ma siete proprio cattivi a prendere in giro un bambino!)
Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili ed invisibili.
Ok, che ci sia un Dio, sia unico e onnipotente va bene. Ma perché del “cielo e della terra”? Non ho capito, perché allora non elenchiamo le montagne, i mari, i fiumi? E poi cosa diamine vuol dire “visibili e invisibili”? Ovvio che è così! L’Uomo Invisibile è stato creato, mi pare ovvio, perché bisogna specificarlo a parte?
Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli:
“Prima di tutti i secoli” è ganzissimo. Dà l’idea di qualcosa di taaaaanto tempo fa, ma non si poteva dire, che so “un sacco di tempo fa?” Perché complicarsi la vita?
Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero,
Questa parte è assolutamente incomprensibile (a dire il vero, lo è anche tuttora per il Grande Luca). Dio da Dio, boh, Dio è nato da Dio? Vabbè, prendiamola per buona, è uno di quei misteri che non si capiscono tanto bene, ma la religione si sa che funziona così. Luce da luce. Uhm, qui è più dura. Se accendo la luce, viene la luce, ok, ma dubito che vogliano dirci questo. Dio vero da Dio vero. Ok, ci rinuncio.
generato, non creato, della stessa sostanza del Padre;
Questa era la mia frase preferita. Ignorando cosa fosse la “sostanza del Padre”, mi immaginavo uno scienziato che sollevava una provetta ed esclamava: “Eureka! Ce l’ho fatta! Ho distillato la sostanza del Padre!”. Sì, non ha senso. Ma fa ridere.
per mezzo di Lui tutte le cose sono state create.
Ok, ma non l’avevi già detto?
Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture, è salito al cielo, siede alla destra del Padre.
Ah, vabbè, il riassunto del Vangelo. Ok, questo è facile da ricordare. Ma era proprio necessario citare quello sfigato di Ponzio Pilato, con tutte le cose che succedono nei Vangeli? Non poteva dire, tipo, “Fu crocifisso per noi e gli diedero da bere l’aceto”? E poi, perché l’inciso “secondo le Scritture” è riservato alla parte della resurrezione? Cioè, anche i sassi sanno che è il momento più importante, ma anche il resto è nelle Scritture!
E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine.
Su questa frase, nulla da eccepire. Mi piaceva l’immagine di Gesù che torna fico come non mai e giudica i vivi e i morti.
Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, e procede dal Padre e dal Figlio.
Un attimo, ma il Signore non era quell’altro? E cosa piripacchio vuol dire “procede dal Padre e dal Figlio”? Che viene prima?
Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti.
Ma i profeti son venuti prima di Gesù! E la parte con la sua storia l’hai già fatta! Perché ne parli adesso?
Credo nella Chiesa, una, santa, cattolica, e apostolica.
Sfuggendomi la virgola tra “una” e “santa” , io credevo di dichiarare di credere in “una santa”, perdipiù “cattolica e apostolica”. Quale santa non lo dice: Santa Chiara, Santa Luisa, Santa Margherita? E poi cattolica ok, siamo cattolici (anche se non so cosa vuol dire), ma “apostolica”? Tra gli apostoli non c’erano donne! Sono confuso…
Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati.
E quante volte vuoi essere battezzato?
Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà.
Non abbiamo già parlato prima della fine del mondo?
Amen.
Fiuu, è finita anche per stavolta.
Esistono diversi aneddoti che mi riguardano di cui io non conservo memoria, forse perché ho rimosso, forse perché ero troppo piccolo, o forse perché sul momento non mi sono sembrati degni di nota e quindi di essere ricordati.
Il seguente è uno di questi, e in quanto tale non ne posso garantire la veridicità, però mi pare meritevole di una narrazione. Se poi risultasse falso, beh, vedetelo come un racconto di fantasia.
Il mezzo di trasporto principe a Sassello in estate era la bicicletta. Tracciati dei confini entro i quali scorrazzare da parte dei genitori/nonni, si poteva fare un po’ quello che si voleva. Ovviamente, essendo Sassello un paese di collina, ci sono un sacco di salite e discese, e come conseguenza un sacco di gomiti e ginocchi sbucciati nelle discese percorse gridando “Geronimo!”. Porto ancora, sul ginocchio destro, una grossa cicatrice per una brutta caduta durante una di queste sagaci imprese [*]. Una volta (ed è questo il famoso Aneddoto Perduto), mi lanciai senza pensarci due volte da un pendio ripidissimo, e terminai la mia corsa contro un tronco d’albero abbattuto che giaceva per terra poco oltre la fine della discesa stessa. A causa della brusca interruzione della corsa e delle stupide leggi dell’inerzia, volai per diversi metri e atterrai sano e salvo… su un mucchio di letame! Mi rialzai, mi guardai intorno brevemente e iniziai a piangere disperato. Zio Mario, accorso immediatamente e preoccupatissimo che mi fossi fatto male o anche solo spaventato e/o disgustato dall’atterraggio nello sterco di vacca, si sincerò delle mie condizioni, al che io risposi: “La ruota della bicicletta si è stortata!”. E questa dev’essere stata una delle prime volte che sono stato mandato affanculo, se non esplicitamente, almeno mentalmente.
[*] Questa storia merita un sub-aneddoto: la mia casa era in cima a una salita. Essendo io inesperto con la bici, percorrevo la discesa relativa portandola a mano. Un giorno mi dissi: “E basta! Ora sono grande, scenderò in sella!”. Inforcai il mezzo, percorsi due metri e finii dentro il fossato che costeggiava la strada. Tornai a casa piangente e sanguinante e un’amica di mia mamma, ivi presente, disse: “Poverino! Ha ragione di piangere!”. Altro che piangere, avrei avuto bisogno di qualche punto, e infatti passai mezza estate con dolorose medicazioni.
C’è stato un momento della mia vita in cui mi piaceva il calcio, all’incirca dai nove ai tredici anni. Giocavo a calcio nell’Alassio (con poco successo,come potete leggere qui), ero tifoso della Juventus e guardavo in avanti verso i mondiali del 1990, quando, mi dicevo, “avrò sedici anni, sarò grande e quindi guarderò un sacco di partite allo stadio”. Invece, per fortuna, poi sono rinsanvito, e l’unica partita di calcio a livello professionale che abbia mai visto rimane Sampdoria-Toronto Blizzard, amichevole giocata al campo sportivo di Alassio nel 1984.
Il Toronto Blizzard, squadra canadese, era famosa a quel tempo perché ci era andato a giocare Roberto Bettega. I giornali dicevano che era andato in Canada a studiare per fare il manager di calcio, e in effetti poi manager era diventato, ma cosa diavolo andava a studiare a Toronto che non poteva studiare in Europa? E perché doveva giocare in una squadra professionale, doveva mantenersi gli studi?
La partita finì con la trionfale vittoria della squadra di casa (o quasi). Non ho idea se sia stata una bella partita o se abbiano giocato bene, ma ricordo che Bettega segnò un gol di testa. La cosa mi riempì di soddisfazione, in quanto juventino, ma commenti che sentii in seguito sostenevano che “gliel’hanno fatto fare”, e ci rimasi molto male.
E questo è tutto quello che ho da dire su Sampdoria – Toronto Blizzard 3-2. Poco, dite voi? Volete scherzare? Prima di questo articolo internet ignorava l’esistenza di Sampdoria – Toronto Blizzard 3-2. Ora c’è una documentazione su questa partita, e il mondo è più ricco (ma non necessariamente migliore).
Alle elementari studiammo l’arcobaleno. Non una spiegazione scientifica accurata, per carità, non ho ancora capito ora perché sia arcuato (anche se suppongo che sia una conseguenza della diversa densità dell’aria nell’atmosfera), ma piuttosto come una serie di nozioni siffatte: l’arcobaleno si forma quando esce il sereno dopo la pioggia, quando un raggio di sole attraversa una goccia sospesa; si può riprodurre l’effetto usando un prisma; non è vero che c’è una pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno (anzi, credo proprio che non esista la fine dell’arcobaleno); i colori dell’arcobaleno sono sette: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco, violetto.
Indaco? Che diamine di colore è l’indaco? Cioè, ora lo so, è una specie di viola tendente al blu, ma a scuola nessuno si prese la briga di spiegarlo e tantomeno io di chiederlo. Era una di quelle nozioni da imparare a memoria senza chiedere dettagli, un po’ come “oro incenso e mirra”. Però indaco mi faceva ridere perché mi ricordava “sindaco”, e i sindaci, nel mio mondo, erano signori panzoni e buffi, spesso con la faccia da maiale, con il cappello a cilindro e la fascia a tracolla sopra un vestito elegante di un certo colore. Questo colore, il color “sindaco”, era per me il color indaco. Vi dirò di più: dovrebbero fare una legge per la quale ogni sindaco deve vestirsi sempre di color indaco, che quindi diverrebbe in effetti color sindaco. Ciò semplificherebbe assai lo studio dei poveri bambini di oggi, che già hanno più province da imparare di quante ce ne fossero ai miei tempi, e soprattutto, così avrei ragione.
Tutti abbiamo dei giuochi d’infanzia “da cortile” che ci hanno intrattenuto e ricordiamo con piacere: Strega comanda colore, Fulmine, Un due tre stella, Ce l’hai e così via. Probabilmente ognuno ha le sue varianti di nome e di regole; ad esempio io giocavo a una versione di Un due tre stella chiamata L’orologio di Milano fa tic-tac, versione identica in tutti gli aspetti tranne che nelle parole recitate da chi “sta sotto”. Oppure, in quel grande classico che è nascondino, secondo qualcuno era necessario toccare le persone scoperte nel nascondiglio, per altri era sufficiente vederle [1]. In ogni caso, sono giochi che in qualche modo si riscoprono un po’ ovunque.
Eppure esiste un gioco che non ho mai trovato da nessun altra parte se non a Sassello quand’ero piccolo. Google lo ignora[2], e si chiama Palla Bufalo. Eccone in breve le regole: serve una palla. Un tizio “sta sotto” (chiamiamolo, per brevità, “lo stronzo”); si inizia con tutti i giuocatori accanto allo stronzo, che lancia la palla in alto più forte che può. Al lancio della palla, tutti scappano in tutte le direzioni finché lo stronzo non riprende la palla. Quest’ultimo allora grida “Bufalo!” e tutti si fermano. Lo stronzo allora ha facoltà, dal luogo in cui si trova, di fare tre passi in direzione del non-stronzo più vicino (o anche il più lontano, se è davvero così stronzo) e cercare di colpirlo con la palla. La vittima designata può provare a schivare la palla, senza però muovere i piedi. Se viene colpita, essa diviene il nuovo stronzo, altrimenti lo stronzo rimane tale e si riparte. [3]
Non ho mai capito perché questo gioco si chiamasse Palla Bufalo, e non ricordo nemmeno chi, nella compagnia, l’avesse introdotto, se non addirittura inventato (cosa che giustificherebbe la non-esistenza di Palla Bufalo nel mondo). Ma temo che questa mia curiosità rimarrà senza risposta.
[1] Nella versione di nascondino che giocavamo a Sassello, c’era una regola speciale: “Non vale nascondersi a casa di Daniele”. La casa di Daniele, rimasta in costruzione per diversi anni (probabilmente per qualche sorta di abuso edilizio) era un nascondiglio troppo sleale per la combinazione di ottima visibilità nel nascondente e ricchezza di pertugi dove celarsi, e quindi venne proibito. Non ve ne frega niente? Pazienza.
[2] Se non in un altro articolo a tema simile di questo stesso sito, quindi non conta.
[3] Inutile dire che è facilissimo barare, basta lanciare la palla con poca forza in modo che venga raccolta rapidamente, e poi mirare ai piedi della vittima invece che al corpo, giacché i piedi non possono essere mossi. Ma gli stupidi bambini preferiscono divertirsi invece che cercare di vincere.
Quand’ero piccolo, ad Alassio, in un impeto di campagnolità, tenevamo le galline. Il pollaio, contenente di solito quattro galline, era situato nella fascia del giardino adesso dedicata al sollazzo, quella dove c’è la piscina, e precisamente stava dove adesso è il mio appartamento (sì, so che queste informazioni sono inutili per chi non è mai stato a casa mia, ma giacché la maggior parte dei miei lettori la conosce, io allungo il brodo e lo scrivo. Tutti gli altri facciano finta di non aver letto il periodo precedente, l’articolo funzionerà lo stesso egregiamente).
Io odiavo le galline. Uno dei miei compiti era quello di dare loro da mangiare la domenica e a volte anche nei giorni feriali, se ce n’era bisogno. Dar da mangiare alle galline significava infilarmi nel locale caldaie, buio e pieno di ragni, prendere le granaglie, portarle nel pollaio, schivare tutta la popò, affrontare gli sguardi inquisitori degli uccellacci e infine dare loro da mangiare. Dovevo poi prenere le uova, che spesso erano sporche di guano, e portarle in casa. Ammetto che ci sono incombenze più sgradevoli anche per un bambino, ma avevo preso proprio in antipatia questo lavoretto.
Ma io non ero l’unico a cui le galline causavano problemi: i volatili in questione erano soggetti a ricambio, nel senso che quando diventavano troppo vecchie e non facevano più uova, bisognava ammazzarle e farne buon brodo. Ma nessuno, in famiglia, conosceva le tecniche per accoppare queste bestie. Dopo alcune pantomime, tra cui quella in cui la Piera, la donna che ci dava una mano in casa, cercò di decapitarne una con l’accetta, ci si rassegnò a rivolgersi ad aiuti esterni.
“Poco male”, direte voi, “tutto questo è nulla in confronto al piacere di avere le uova freschissime quotidianamente in casa!”. Poveri illusi: mai sottovalutare il potere tragicomico di casa Ventimiglia. Ogni uovo, quando veniva raccolto, era marcato con la data, a matita sul guscio. Quando era il momento di consumarne uno, la regola prevedeva che si iniziasse da quelli più vecchi. E poiché la produzione media era di quattro uova al giorno, che non sono poche per una famiglia di quattro persone, si finiva sempre per mangiare uova più vecchie di quelle che si comprano nei negozi.
Poi, a un certo punto, anche i miei si sono rotti. Da allora, comunque, ho capito che non avrei fatto il contadino perché mi scoglionavo a dar da mangiare alle galline. Un’altra strada che mi si chiudeva.