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Per i ritardatari
Mi do da fare
Sono alla moda e tuitto
Vasco, ovvero due generazioni di cantanti trasgressivi a confronto

Oggi, nel magico mondo di Odia gli stupidi (che ormai da tempo non parla più di sigle di cartoni, ma credo che chiunque non sia un forumista di SigleTV se ne farà una ragione) tratteremo la canzone Vasco di Jovanotti. Gulp. Un minimo di contesto per chi non c’era: Jovanotti, in arte Lorenzo Cherubini, che ormai da una quindicina d’anni si spaccia per una persona seria, ha esordito nel 1988 con un album e qualche singolo di pseudo-rap. Cantava in inglese pezzi del calibro di Gimme Five, Gimme Five 2  e Go Jovanotti Go. L’anno successivo, come tappa obbligata di ogni cantante come si deve, si propose a Sanremo con un brano ambiguamente chiamato Vasco. Nella serata d’esordio scivolò sui fiori e comunque non vinse, arrivando quinto: di fronte alla corrazzata Oxa/Leali, a Toto Cutugno e ad Albano e Romina non c’era niente da fare. Se volete scandalizzarvi, sappiate che quell’anno c’era Mia Martini con Almeno tu nell’universo che arrivò nona. Arricchivano il cast anche Renato Carosone che arrivò quattordicesimo con ‘Na canzuncella doce doce, Raf con Cosa resterà di questi anni ’80? (*) che finì quindicesimo e financo Francesco Salvi e la sua Esatto che giunse settimo. Che edizione coi fiocchi! Beh, tutto chiaro? Partiamo!

(*) Il commento pressoché uniforme di tutti i giornalisti e critici al pezzo di Raf era “Di sicuro non questa canzone!”. Il brano fa cagare, ma invece lo ricordano ancora tutti. Tiè!

Vai così, è una figata perché una storia così non c’è mai stata
che ci ammazziamo, ci divertiamo, facciamo i scemi
e qualche volta pensiamo

Nel 1989 ogni tanto leggevo Oggi, rivista perbene filosabauda comprata da mia nonna.  Le settimane prima di Sanremo, che per il pubblico oggesco era un appuntamento di gran rilievo, venivano analizzati i testi delle canzoni, in attesa di poter finalmente ascoltare i pregevoli brani. Una sorta di Odia gli stupidi in nuce, se volete. Il giornalista, su Vasco, ebbe da dire: “E’ incomprensibile come la commissione censura di Sanremo abbia lasciato passare termini come figata e sputtanare (nei versi seguenti NdXX)”. In effetti sono un po’ turbato da questa parola che non voglio ripetere per decenza, ma sono ancora più turbato da quel “noi”. Mi spiego: intorno a Jovanotti era stato creato da Cecchetto una sorta di movimento markettaro-festaiolo, una granfaloon come ce ne sono pochi: è questo ciò a cui si riferisce L.C. con “figata” e “storia”. Il denominatore comune a quel “noi” era “divertirsi”, che nel senso del Jovanottismo era andare in discoteca, o come dice lui “ammazzarsi, divertirsi, fare i scemi e qualche volta penzare” (sic). Mi ha sempre disturbato l’ipocrisia di quest’ultimo verbo, e non solo per la z al posto della s nella pronuncia di Jovanotti: in realtà non si riferisce tanto a”filosofeggiare” o chissà che, ma più prosaicamente a “non esagerare con lo sballo”. Seguono maggiori dettagli sul concetto.

non c’è problema, no, è tutto OK
Numero Uno, faccio quello che farei
E quando torni facciamo festa senza nessuno che ci lasci la testa

Il “penziamo” di prima suona ancora più stonato con i due versi successivi: va tutto bene, io faccio quello che mi pare. Ma! Attenzione! Arriva il tema della canzone: senza nessuno che ci lasci la testa. Cioè: va bene divertirsi, ma facciamo i bravi, “penziamo”, cioè; non viene mai detto esplicitamente, ma Vasco è una canzone contro la droga. L’unica possibile spiegazione di questa reticenza (se vogliamo escludere un intento artistico, cosa che mi sento di fare) la possiamo trovare nel ritornello e nella sua contestualizzazione.

No, Vasco ! No, Vasco, io non ci casco
per quelli che alla notte ritornano alle tre
No, Vasco ! No, Vasco, io non ci casco
per quelli come te, per quelli come me

Vasco. A chi pensate quanto sentite questo nome, soprattutto nel contesto della musica italiana? Vasco de Gama? Vasco Gonçalves? Vasco Pratolini? Magari sì, so che siete un po’ scemi, ma mi permetto di credere che più probabilmente vi  verrà in mente Vasco Rossi, noto cantante e noto tossicomane. E’ quindi iperevidente che il succo della canzone è: “Io voglio divertirmi e riconosco Vasco Rossi come uno dei miei miti, ma non voglio djrogarmi perché questo è male”. Tutto facile,no? No! Jovanotti e il suo entourage negavano con insistenza e pazienza che la canzone fosse riferita a Rossi. Probabilmente era una questione legale, per evitare querele da parte del tossicodipendente in questione (anche se, tra tutti i suoi difetti – che sono tanti! -, non mi pare abbia quello di fare causa a destra e a manca), ma allora si poteva nasconderela cosa un po’ meglio magari cambiando nome (anche se poi non faceva rima con “casco”, sono problemi…). Quindi, ufficialmente Vasco non parla di Vasco Rossi.
Se la trasgressione più grande, quella della djroga, è vietata ai giovani d’oggi (cioè, di vent’anni fa…), Jovanotti però ne fa di altre più blande ma più adatte a un pubblico sanremasco-italiaunoesco (Jovanotti è un prodotto di Deejay Television, ai tempi su Italia 1): oltre a dire le parolacce come la già citata “figata” del primo verso, qua i giovani vengono presentati come zuzzurelloni perché tornano alle tre, seconda Blanda Trasgressione. Che poi al giorno d’oggi è l’ora in cui si entra in discoteca, e già solo tre anni dopo gli 883 gorgheggiavano: “quando torni a casa alle sei, s’inkazza” (ancora più trasgressivo perché usa la “k”. Ma agli 883 arriveremo un’altra volta…).


Oh, mamma stasera esco prendo la moto, sì, ma senza casco
Andiamo in centro, viene anche Vasco
torno tardissimo, fuori fa fresco
sì che sto attento, io son mica matto, è tutto a posto, vai !
Tu vai a letto, tu e le tue amiche m’avete rotto
Siete voi, siete voi che avete capito tutto

Secondo verso, una serie di Blande Trasgressioni da paura: il giovane d’oggi va in moto e per di più senza casco (nel 1989 era facoltativo per i maggiorenni. Bravi fessi, credo sia meno rischiosa l’eroina!); il giovane d’oggi va in centro, luogo di perdizione; il giovane d’oggi torna tardi e se ne frega persino delle condizioni atmosferiche; il giovane d’oggi, infine, nella più grande delle Blande Trasgressioni, non ha rispetto per gli anziani, ed è persino sarcastico nei confronti dei genitori. Ma che fine faremo. Contemporaneamente, però, viene ribadito il fatto che la trasgressione è “sicura”…il che, non è difficile intuirlo, è una contraddizione in termini. Infatti la mamma è preoccupata, ci ha proprio ragione!
Mi piace però, nonostante tutto, il riferimento “viene anche Vasco”, che secondo me non significa tanto che Vasco è uno del gruppo, ma piuttosto che  i giovani d’oggi se lo portano dietro come una sorta di bagaglio culturale sottinteso.


No, Vasco ! No, Vasco ! …
E invece Vasco questa sera non c’è
chissà perché fratello ce l’hai con me
Oh, dimmi con chi sei, da un po’ non ci sei mai
Vasco, tu sei noi, non ci sputtanare, dai !

Dopo il secondo ritornello, Cherubini Lorenzo si rivolge a due interlocutori immaginari: gli organizzatori di Sanremo e Vasco stesso. La prima è un po’ imbarazzante: non è che a Sanremo non vogliono Vasco Rossi perché sono troppo bacchettoni per ospitare un drogato, tantopiù che sicuramente ce ne sono tantissimi altri meno plateali del cantautore emiliano, ma perché a quest’ultimo non conviene andare a Sanremo. Che ci va a fare uno che riempie gli stadi, perché dovrebbe mettersi in gioco? E la cosa peggiora se estendiamo il concetto di “Vasco” a “i giovani d’oggi che sono rappresentati da Vasco Rossi in quanto eroe”: razza di fesso, sei lì, perché dici che non ci sei?!? E se ce l’abbiamo con te (scusate, mi sono immedesimato nel manager sanremese) avremo anche le nostre buone ragioni!
L’apostrofe a Vasco ripete il concetto già ben chiarito: Vasco è uno di noi, ma ha preso una brutta strada e in quanto tale getta fango su tutto il movimento dei giovani d’oggi. Tutto questo è intollerabile! Bisogna per forza dire una parolaccia!

No, Vasco ! No, Vasco, io non ci casco
Perché io non mi fido di chi non suda mai
No, Vasco ! No, Vasco che mica ci facciamo tradire dai guai…
Sudi o no? Sudi o no?

Il concetto di “sudare” dovrebbe dividere i giovani d’oggi dai matusa: suppongo che la contrapposizione immaginaria sia tra un tipo che si scatena in discoteca e un signore in giacca e cravatta che lo guarda con disprezzo. Quello però che Jovanotti non dice è che in discoteca se non sudi è meglio perché aumenti le probabilità di rimorchiare, e che coi vestiti formali si suda un sacco.

E chi se ne frega

Confesso un piccolo scheletro nell’armadio: Marco Masini mi è sempre stato simpatico. Per carità, non credo che ci sia una sua canzone che mi piace, e il facile senzazionalismo di Vaffanculo e Bella stronza è stata una strategia mediatica deplorevole, però ci ha qualcosa che mi fa venire voglia di dargli un buffetto sulla guancia e offrirgli una biretta. “Ehilà, Marco, che si dice di bello? Ci vediamo al Mister Minchietta?”

Ho sempre saputo che Masini, qualche anno fa, si era esibito in una cover del lentaccio strappalacrime dei Metallica Nothing else matters, ma non l’avevo mai ascoltata. Anzi, non l’ho mai ascoltata, ma gli dei dispettosi mi hanno messo sottomano il testo. Parliamone.

Lo so che il tempo lo sa
che siamo nascosti qua,
in fuga dalla realtà,
e chi se ne frega.

Fin qui, tutto bene. Bravo, Marco. Un’altra biretta?

L’iguana dei passi tuoi,
il tuo inguine di viva orchidea,
dove annegano gli occhi miei
e il tempo si ambigua. [E il tempo si ambigua…]

Uh…l’iguana? Beh, dimmi di più.

Io da qui non mi muovo più, [Io da qui non mi muovo più,]
abbracciato a una cruce, tu, [abbracciato a una cruce, tu,]
mentre il sole riallaga il blu, [mentre il sole riallaga il blu,]
e chi se ne frega. [e chi se ne frega.]

Voglio quello che vuoi tu, [Voglio quello che vuoi tu,]
voglio il tempo che non ho [voglio il tempo che non ho]
e l’avrò! [e l’avrò!]

…riallaga il blu?!?…Cruce? (dai, qui può essere un errore di trascrizione) Però nel dubbio, Marcolino, ridammi un po’ quella biretta, va’…

Il tempo ai cani e la polizia,
sbaranzia e dietrologia,
fa che insegua la nostra scia,
e chi se ne frega. [E chi se ne frega…]

Tempo ai cani?!? SBARANZIA?!? Ora, cerchiamo di immaginare cosa potrebbe essere la sbaranzia. Qualche idea:

a) C’entra con Sbranzo, sarebbe Sbranzìa ma essendo difficile da pronunziare diventa sbaranzia. Lode a Sbranzo.

b) E’ la traduzione in italiano dell’espressione ligure “desbarasu”, che indica le vendite promozionali che fanno i negozi mettendo le merci al di fuori del negozio stesso.

c)  Similmente, indica l’atto di uscire da un bar, cioè di “sbararsi”.

d) Oppure, Masini, hai una zia che si chiama Sbaran?

e) O magari indica l’atto di osservare controluce un bicchiere per vedere se è stato lavato per bene.

Io da qui non mi muovo più, [Io da qui non mi muovo più,]
neanche se te ne andassi tu, [neanche se te ne andassi tu,]
su quest’erba che guarda in su [su quest’erba che guarda in su]
e sembra che prega. [e sembra che prega.]

…che preghi! Che cazzo, il congiuntivo! Anche se non fa rima con “frega”! Ridammi anche la bira di prima!

Voglio quello che tu vuoi, [Voglio quello che tu vuoi,]
voglio quello che vorrai, [voglio quello che vorrai,]
voglio vivere di più, [voglio vivere di più,]
voglio il tempo che non ho [voglio il tempo che non ho]
e l’avrò, sì! [e l’avrò, sì!]

Eeeeeh…l’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del re! Comunque lascia stare e parlaci ancora della sbaranzia…

Lo so che il tempo lo sa
che siamo nascosti qua
e se vuoi ci raggiungerà,
ma chi se ne frega!

Noooo…è finita! E non c’è più sbaranzia! Ora sono triste.

Una strana famiglia

Warning: anche se uso il tag Odia gli stupidi in modo improprio, è roba molto volgare (ci chiamiamo “I budini molli”).

C’è una gaia canzoncina che mi ha sempre colpito. Cantatela tutti in coro sull’aria di La donna è mobile, dal Rigoletto:

La donna immobile
sul letto stava
col dito mignolo
se la grattava.
Arriva Pippo,
marito pazzo,
ci leva il dito
ci mette il cazzo.
Arrivo io,
che son suo zio,
ci levo il suo,
ci metto il mio.

Dai, via quella faccia scandalizzata, la conoscevate tutti, magari nella variante col dito indice al posto del dito mignolo. Purtroppo gli autori di capolavori come questo (o altri simili,  come il già esaminato dramma equatoriale) rimangono sconosciuti, perché ci sono un po’ di cose che vorrei capire. Focalizziamo. C’è mio nipote Giuseppe, detto Pippo, che ha una moglie sessualmente insoddisfatta. Sono cose che capitano, piccoli problemi quotidiani. Come faccia a stare immobile e contemporaneamente darsi da fare, è un piccolo mistero, ma in fondo possiamo prenderlo per buono, supponendo sia una sorta di iperbole. Quello che più mi turba è il fatto che Pippo, giunto sul luogo del misfatto forse per caso o forse no, venga ritenuto pazzo perché, vedendo sua moglie ricorrere all’autoerotismo, decida di compiere il proprio dovere coniugale.
A meno che, e questo è il dubbio che mi tormenta, non sia che
a) Pippo è pazzo indipendentemente dal fatto di togliere il dito e mettere il cazzo.
b) Pippo è marito di una donna che non è quella immobile sul letto.
…o tutti e due, ovviamente. In tal caso la graziosa canzoncina apre scenari più inquietanti di adulterio se non di stupro da parte di un malato di mente.

Ma la storia non è finita. La canzone è in crescendo: la prima strofa riguarda l’atto sessuale di una sola persona, la seconda di due. E’ inevitabile che nella terza si svolga un menage à trois, e come in quelle opere sperimentali in cui l’autore o il lettore all’improvviso entrano nella storia, ecco che arrivo io, in qualità di zio di Pippo (di Pippo, non della donna immobile, poiché subito dopo c’è un altro riferimento inequivocabile:”ci levo il suo”). E non trovo di meglio da fare che afferrare il batacchio di mio nipote, tutto intento a fare del dolce su e giù, e prendere il suo posto. Son cose che possono piacere, non lo metto in dubbio, ognuno ha i suoi gusti, e anche se vengo coinvolto mio malgrado non citerò in giudizio l’autore della canzone. Suppongo che alla fine, comunque, io e Pippo ci daremo il cinque.

Odia gli stupidi: Willy il Principe di Bel Air

Lo so, è un po’ come sparare sulla Croce Rossa, ma la sigla di Willy, il Principe di Bel Air è talmente gustosa e idiota che non resisto alla tentazione di dedicarle un piccolo commentario. Classifico questo articolo come “Odia gli stupidi” giusto per rinfocolare un po’ l’argomento, ma in effetti non è una sigla classica, né per periodo temporale né per spirito. Sono certo che i bonari utenti di questo sito sapranno perdonarmi.

Una delle caratteristiche principali della sigla di Willy è la reinvenzione del linguaggio giovanile. E’ ben noto che non esiste una cosa come il  linguaggio dei giovani, ma piuttosto esistono un sacco di micro-linguaggi che cambiano in continuazione, si ispirano spesso alla tv e alle canzoni e si contaminano a vicenda. La sigla di Willy, opera di due tizi chiamati Rossella Izzo ed Edoardo Nevola (il quale canta e doppia persino il protagonista) orecchia alcune parole che dovrebbero suonare strane e originali; alcune sono desuete, altre azzeccate, altre ancora infine palesemente inventate. Per indicare queste espressioni ne conierò anch’io una, giovanilisticata, a sua volta una versione corrotta del matusa giovanilismo.

Non solo: ho scovato il testo originale della canzone e l’ho messo a confronto con quello tradotto. Come si poteva immaginare, gran parte del testo è tradotto quasi letteralmente, con l’eccezione delle giovanilisticate, ma qualche sorpresa comunque viene riservata.

Nel testo, nel seguito, ho indicato in rosso le parole giovanilistiche.

Questa è la maxi-storia di come la mia vita
è cambiata, capovolta, sottosopra sia finita
seduto su due piedi qui con te
ti parlerò di Willy, superfico di Bel Air

Now this is the story all about how
My life got flipped, turned upside down
And Id like to take a minute just sit right there
Ill tell you how I became the prince of a town called bel-air

maxi-storia: nessun giovane posteriore al 1950 ha mai usato “maxi” come prefisso trasgressivo. E’ roba da pubblicitari, da detersivo! E anzi, suona persino un po’ Jar-jar Binks, cosa che non augurerei al mio peggior nemico.
Superfico:  un po’ logoro, forse, ma nel complesso regge ancora.

Ho il legittimo dubbio che “seduto su due piedi” non sia un sagace calembour, ma proprio una stupidata. Se sei seduto, non sei due piedi! Cioè, magari poggi i piedi a terra, ma sei seduto sulle chiappe, perbacco! Al di là di questo la prima strofa mi piace. E’ sintetica e introduce l’argomento senza girarci troppo intorno.

La traduzione, come potete vedere, è quasi letterale, a parte i due piedi e le due giovanisticate.

Giocando a basket con gli amici sono cresciuto
me la sono spassata, wow che fissa ogni minuto
le mie toste giornate filavano così
tra un megatiro a canestro e un film di Spike Lee

In West Philadelfia born and raised
On the playground where I spent most of my days
Chilling out, maxing, relaxing all cool
And all shooting some b-ball outside of the school

Spassata: ok, “spassarsela” è talmente vecchio e radicato che probabilmente non è oggettivamente una giovanilisticata, ma ritengo che lo fosse nelle intenzioni dell’autore. Questo basta.
Fissa: qualcuno forse la usa (ma è da capire se per imitare questa sigla o meno), ma è rara e suona male.
Megatiro: di nuovo, il prefisso “mega”, sebbene non così pernacchiabile come “maxi”, suona male in bocca a chi dovrebbe essere all’avanguardia nell’uso delle parole.

La parte di Spike Lee forse è la mia preferita dell’intiera sigla, e come potete vedere non ce n’è traccia nella sigla originale.
-Ehi ragazzi, ci facciamo una bella partitina e poi ripassiamo “Fa’ la cosa giusta!”
-Oh, no, questa settimana l’abbiamo già visto quattro volte!
-Zitti! Siamo negri, abitiamo in un quartieraccio quindi dobbiamo vedere Spike Lee.

Nel testo in inglese, al di là della mancanza di Spike Lee, c’è qualche parola di slang (cosa significhi “to max” lo ignoro) e soprattutto si aggiunge l’indicazione del luogo dell’azione: West Philadelphia, che, da una rapida ricerca, non risulta essere un quartiere così terribile come viene dipinto nella sigla (e nella serie!).

Poi la mia palla lanciata un po’ più in su
andò proprio sulla testa di quei vichinghi laggiù
il più duro si imballò, fece una trottola di me
e la mia mamma preoccupata disse “Vattene a Bel Air”

When a couple of guys said were up in no good
Started making trouble in my neighbourhood
I got in one little fight and my mom got scared
And said youre moving with your aunte and uncle in bel-air

Vichinghi: questo è discreto. E’ inventatissimo, ma suona gradevolmente ironico chiamare “vichinghi” degli omaccioni di pelle scura.
Imballò: invece questa forse è la peggiore giovalinisticata della sigla. “Imballarsi” nel senso di arrabbiarsi non ha alcun senso. Nemmeno Teddy Bob approverebbe.

La traduzione perde una sfumatura: non si tratta semplicemente di una palla finita sulla zucca di certi vichinghi, ma piuttosto di un casus belli di una situzione già preoccupante di per sè per la presenza di normanni che non combinavano nulla di buono (e mangiavano cinghiale alla crema). In questo senso la reazione della mamma è un po’ più sensata.

L’ho pregata, scongiurata ma dallo zio vuole che vada
lei mi ha fatto le valigie e ha detto “Va’ per la tua strada”
dopo avermi dato un bacio e un biglietto per partire
con lo stereo nelle orecchie ho detto “Qua meglio sgommare

I begged and pleaded with her the other day
But she packed my suitcase and sent me on my way
She gave me a kissin and she gave me my ticket
I put my walkman on and said I might as well kick it

Da qui in poi le giovalinisticate scemano. Assistiamo solamente a parole usurate ed entrate nel lessico comune: sgommare, sballo, gasato, svitato. Sembra quasi che lo stesore del testo si sia arreso e abbia deciso di proseguire senza sforzarsi troppo. Curiosamente, anche la versione inglese, almeno in questa strofa, segue gli stessi binari, e non solo viene tradotta quasi letteralmente, ma anche il tono di “kick it” rispetto a “sgommare” è molto simile.

Non è però ben chiaro qua perché Willy non voglia andare a Bel Air. E’ vero che durante le sue toste giornate è stata una fissa ogni minuto, ma è anche stato reso una trottola da un vichingo (cioè, ha preso un sacco di botte!).  La risposta può essere una sola: attaccamento alle sue radici. Beh, vedremo che le cose cambieranno…

Prima classe, ma è uno sballo
spremute d’arancia in bicchieri di cristallo
se questa è la vita che fanno a Bel Air
per me, mh-mh, poi tanto male non è

First class, yo this is bad,
Drinking orange juice out of a champagne glass
Is this what the people of bel-air livin like,
Hmm this might be alright!

E poi Willy scopre che i ricchi vivono meglio dei poveri. Dice il Bardo: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Willy, di quante ne sognino i tuoi film di Spike Lee”. Gradevole il versetto nell’ultima frase per completare la metrica: d’altronde erano gli anni di “Trottolino amoroso dudu dadada”, forse era quasi una moda… arrivata persino in America, visto che il testo originale usa lo stesso stratagemma!

Le spremute d’arancia nel testo non sono state inventate in Italia, ma perché uno in prima classe dovrebbe bere qualcosa di sostanzialmente umile come una spremuta d’arancia? Forse per rimarcare il contrasto tra chi è cresciuto in un luogo umile e un ambiente ricco? Ma suvvia! Il topos è che l’arricchito accaparra tutte le cose costose senza badare al gusto.

Ho chiamato un taxi giallo col mio fischio collaudato
come in formula 1 mi sentivo gasato
una vita tutta nuova sta esplodendo per me
avanti a tutta forza portami a Bel Air

I whistled for a cab and when it came near the
Licensplate said fresh and had a dice in the mirror
If anything I could say that this cab was rare
But I thought now forget it, yo home to bel-air

Quindi Willy, anche se viveva in un quartieraccio, si spostava così spesso in taxi da avere un suo fischio collaudato. Scopriamo inoltre che i taxi gialli a Bel Air guidano come in Formula Uno, e che riempono di gas i propri clienti.

L’alzarsi del livello di stupidate di questa strofe coincide con la prima divergenza dal testo originale, totalmente primo di formule uno e fischi collaudati. In quest’ultimo si noti l’audace enjambement (“o inarcatura”) tra il primo e il secondo verso. Mi sfugge invece il significato dei dadi che pendono giù dallo specchietto: solo una nota di colore o significa qualcosa di preciso?

Oh che sventola di casa, mi sento già straricco
la vita di prima mi puzza di vecchio
guardate adesso gente in pista chi c’è
il principe Willy lo svitato di Bel Air.

I pulled up to a house about seven or eight
And I yelled to the cabby yo, home smell you later
Looked at my kingdom I was finally there
To settle my throne as the prince of bel-air

Willy è uno che ci tiene alle proprie radici. E’ bastata una spremuta d’arancio (benché in bicchiere di cristallo), una gita in taxi a 300 all’ora e la visione di una casa per tradire le sue origini e tutto ciò che rappresentano. Almeno, secondo i traduttori italiani: hanno avuto bisogno di creare una corrispondenza visiva a “smell you later” e quindi hanno deciso per la puzza di vecchio. Ma non preoccupatevi, l’autoproclamato principe Willy (ma principe de che?) rimane un outsider (“svitato”), e quindi ne combinerà di cotte e di crude regalandoci matte risate. Tutti i giorni, su Italia 1 alle 19, dopo Studio Aperto!

Odia gli stupidi: L’Ape Maia in concerto

 Titolo: L’Ape Maia in concerto
Sigla della serie:
L’Ape Maia (Mitsubachi Maya no Boken, 1973)
Parole:
Enrico Vanzina
Musica:
Marcello Marrocchi e Vittorio Tariciotti
Cantata da:
Katia Svizzero
Produzione:
Cetra
Anno: 1980

 

 

 

 
L’Ape Maia è probabilmente una di quelle serie che hanno avuto più popolarità in Italia che in Giappone, per il suo spirito educativo a valori quasi occidentali che piace tanto ai genitori. Non stupisce quindi che ben tre sigle siano state dedicata al simpatico e biondo insetto; una in particolare, la sigla di coda della seconda serie, ha attirato l’attenzione di noi Odiatori degli Stupidi. Si tratta del tragico Concerto dell’Ape Maia.

 

Vola vola a casa l’ape Maia,
  dopo un viaggio nel Perù,
  ha comprato un flauto e una chitarra
  per il bruco e la farfalla blu.

La canzone ha un impianto surreale, e quindi in parte alcune immagini ardite e alcuni passaggi semantici audaci potrebbero essere perdonati. Ma la tentazione di ridicolizzare è davvero troppo forte, e noi siamo troppo deboli per resistere. E allora: l’Ape Maia è un’ape in un prato fiorito, presumibilmente giapponese o tedesco (giacché la serie è tratta da una serie di racconti dei mangiacrauti). Eppure quest’ape va nel Perù. A far cosa? Lavoro? Turismo? A trovare dei parenti? Si ficca in un aereo come clandestina o viaggia volando oltreoceano? Possiamo inoltre immaginare la nostra amica mentre, nei pressi di Machu Picchu, si reca in un negozio di souvenir per comprare oggetti tipici delle Ande, appunto strumenti musicali quali flauti e chitarre. Naturalmente, nella serie nessuno suona mai strumenti simili!

Ha portato un etto di torrone,
  per la pace con il calabrone,
  sotto l’albero della festa,
  questa sera ci sarà una orchestra!

Se nella quartina precedente si poteva fare lo sforzo di immaginare che a Machu Picchu ci fosse una bottega che vendesse strumenti di dimensioni apesche, il primo verso della seconda non lascia spazio a dubbi: un etto di torrone.

Ora, possiamo figurarci un’ape che pesa meno di un decimo di grammo che ne trasporta cento in dolciumi, oppure possiamo immaginare che si sia affidata ad un corriere peruviano per trasportare il prelibato dolciume in Giappone, oppure più semplicemente possiamo insultare senza pietà l’autore della canzone. Curioso lo scopo di tale petit cadeau: far pace con un certo calabrone. Invero non risulta, nella serie, che i calabroni recitino un ruolo di cattivi a differenza dei ragni, delle vespe o degli uomini. Si tratterà di una storia dell’Ape Maia mai raccontata.

Come conseguenza, quindi, sotto l’albero della festa (immagine che ricorda molto i finali degli albi di Asterix) ci sarà una meravigliosa orchestra costituita da un flauto ed una chitarra. Faranno Stairway to Heaven tutta la sera. Da mangiare, torrone per tutti, se il calabrone è abbastanza generoso.

L’ape Maia danzerà nel cielo,
  ed il grillo canterà dal melo,
  la lumaca ballerà con il ragno peloso,
  un tango curioso e la mosca riderà

Ed eccoci al ritornello che è la descrizione della festa. Tornando al paragone col festino di Asterix, si può immaginare che il grillo sia l’Assurancetourix del caso, visto che, poverino, è stato isolato su un melo (che probabilmente non coincide con l’albero della festa) e da lì continua a cantare!

La mosca ha poco da fare la furba a deridere il ragno per le sue abilita’ danzerecce e la scelta del partner: prima o poi verrà presa nella tela, ed allora vedremo chi ride!

La formica suonerà un tamburo,
  con il ritmo, al passo del canguro,
  ed il lombrico ballerà con il millepiedi,
  pestandogli i piedi e la mosca riderà

Qui scopriamo che l’orchestra non si limita ai due strumenti citati, ma c’è anche un tamburo. Ok, Stairway to Heaven continua ad essere il miglior candidato, e si può anche fare la parte più rock verso la fine. Incomprensibile il secondo verso: "con il ritmo, al passo del canguro" non significa nulla, né sintatticamente né semanticamente. L’ascoltatore, ancora tramortito da queste vette, viene poi finito dall’immagine del lombrico che pesta i piedi ai millepiedi, e dalla solita mosca gaia (che non sa che, nel frattempo, il ragno sta studiando i suoi movimenti per tessere la tela nel luogo e nel momento giusto).

ha ha ha ha ha ha ha

Ridi, ridi, che la mamma ha fatto i gnocchi (di cacca). Il ragno riderà per ultimo, e riderà bene.

Vola vola a casa l’ape Maia,
  di ritorno dal Perù,
  compra un piffero sull’Himalaya
  ed il miele a Cefalù

Sempre nell’ipotesi che il Prato Fiorito sia in Giappone, abbiamo quindi che il percorso di ritorno dal Perù passa dall’Himalaya, terra di grandi pifferi, e da Cefalù, in Sicilia. Solo gli stolti potrebbero pensare che la scelta sia caduta su toponimi che fanno rima. Wikipedia potrà dimostrare (se si corregge la voce apposita) che le api migratrici dal Perù al Giappone non si limitano ad attraversare il Pacifico, ma varcano l’Atlantico, si fermano in Trinacria e proseguono per l’Asia evitando accuratamente le ampie pianure per passare dalle parti dell’Everest. Tutto questo è perfettamente ragionevole, e la situazione non cambia molto se posizioniamo la nostra pecchia in terra crucca.

Ma soprattutto, maledetto insetto sfaticato, il miele fattelo tu, e non comprarlo in giro per il  mondo! E se sei una bottinatrice, porta il polline a chi di dovere!

Sotto il riflettore della luna,
  senza nuvole, ma che fortuna,
  le ranocchie ad una ad una,
  fanno salti di felicità

Qualcosina di buono ci sarebbe in questa strofa. L’immagine della luna come riflettore per una festa di insetti è abbastanza efficace, e sarebbe discreta è anche quella delle rane che saltano per la felicità. Il problema per quest’ultima è che l’unica ragione per cui le ranocchie possono essere felici è  l’abbondanza di cibo (gli insetti, appunto) radunato tutto insieme. Due stupidate poetiche, inoltre, sono il "senza nuvole" riferito alla luna, un po’ troppo azzardato, e "ad una ad una" riferito alle ranocchie. L’immagine delle ranocchie che saltano una per una, in una sorta di danza sincronizzata, è incompatibile con i salti di gioia sono per definizione spontanei e quindi non organizzati.

[Ripete il ritornello]


  pestandogli i piedi e la mosca riderà …
  ha ha ha ha ha ha ha

Ridi, ridi…

Poche canzoni che non abbiano partecipato a Sanremo hanno dimostrato una tale demenza e una simile mancanza di rispetto per l’intelligenza dell’ascoltatore. C’e’ da essere fieri di poter conoscere l’Ape Maia in concerto.

Odia gli stupidi: Candy Candy

Titolo: Candy Candy
Sigla della serie: Candy Candy (id., 1976)
Parole: Lucio Macchiarella
Musica: Douglas Meakin e Mike Fraser, Bruno Tibaldi (Kobra)
Cantata da: Rocking Horse
Produzione: RCA
Anno: 1980

 

Il più venduto 45 giri nella storia delle sigle anni Settanta, Candy Candy è considerata una delle migliori creazioni dei celebri Rocking Horse, il gruppo fondato dal cantante, musicista e compositore britannico Douglas "Dougie" Meakin. In effetti è quanto di più simile al concetto, spesso sottolineato da Meakin nelle interviste, di sigla-canzone, ovvero di brano musicale nato come sigla, ma pensato con tutti i crismi di una vera canzone, anziché strutturato come un semplice jingle o una musichina infantile. Candy Candy, che in origine doveva essere la sigla di Lassie, e venne poi ridiretto dalla RCA sulla famosissima serie animata per bambine (unendovi una parte già composta da Bruno Tibaldi, in arte Kobra), è un pezzo country molto convincente, con parti di chitarra sofisticate e per nulla banali, eseguite dal chitarrista Dave Sumner (gli altri Rocking Horse erano qui Mike Fraser alle tastiere, Michael Brill al basso e Derek Wilson alla batteria; all’incisione parteciparono anche i Fratelli Balestra e un giovane Marcello Cirillo).
I testi sono invece firmati da Lucio Macchiarella, frequente collaboratore del gruppo e uno dei migliori parolieri dell’ambiente (Conan il ragazzo del futuro, L’isola del tesoro, Ken il guerriero). Vediamo come se l’è cavata in questa occasione, in una delle sue prime prove.

 

1

Candy è poesia
Candy Candy è l’armonia
Candy è la magia
Candy Candy è simpatia

La sigla non perde tempo a introdurre il personaggio di Candy, sciorinando una serie di paragoni che pervadono l’intera canzone. Alcuni di essi sono appropriati, altri meno, ma in generale solo alcuni aspetti del personaggio e della sua storia vengono colti. Quindi se la generosità, la simpatia e la dolcezza che sfiora la zuccherosità sono caratteristiche giustamente trattate, viene tuttavia clamorosamente mancato il concetto di "sfiga" (o, se preferite, di "risolutezza nei confronti delle avversità") che per molti è il vero sinonimo di Candy Candy, forse non a torto.
Tutto ciò riflette naturalmente il fatto che questa sigla, come capitava spesso ai tempi, venne partorita avendo visto solo la sigla originale della serie: le disavventure della nostra bionda eroina sono quindi rimaste del tutto ignote agli autori della versione italiana.
Nel dettaglio di questa prima strofa, c’è da segnalare che se "poesia" e "simpatia" sono un’ottima sintesi dei due aspetti del personaggio, "armonia" e "magia" sono più oscuri, se non interpretandoli come metafore molto forzate, e comunque troppo generiche per risultare efficaci.

 

2

È zucchero filato
È curiosità
È un mondo di pensieri e libertà

È un fiore delicato
È felicità
Che a spasso col suo gatto se ne va

 

Al variare della melodia il soggetto viene dato per acquisito, e si procede per ellissi a narrare le virtù di Candy.
Lo "zucchero filato" e il "fiore delicato", seppure stereotipati, sono sostanzialmente corretti. La curiosità non spicca invece particolarmente tra le caratteristiche di "tutte lentiggini", ma la si può accettare. Sono invece il "mondo di pensieri e libertà" e la "felicità" che appaiono totalmente fuori luogo: il pensiero non è una delle doti della ragazza, che è infatti dipinta come un’istintiva; libertà ne ha ben poca, in generale, essendo costretta dalle circostanze a fare quello che deve fare; per non parlare della felicità, di per sé assurda in senso soggettivo (essendo noto che la tristezza la fa da padrona nelle vicende di Candy, i cui stessi comprimari vedono funestata la propria vita da lutti e disgrazie per la mera presenza della biondina[1]), ha ben poca giustificazione anche in senso oggettivo: guardare la serie potrà certo recare piacere ai suoi spettatori, ma credo che nemmeno i suoi fan più accesi possano sinceramente asserire che la visione di Candy rechi "felicità".

L’ultimo verso appare particolarmente assurdo. Il "che" relativo nelle intenzioni dell’autore era probabilmente da riferirsi a Candy. Tuttavia, a livello sintattico, esso sembra legarsi alla "felicità" del verso precedente, significando quindi che "Candy Candy è felicità che se ne va a spasso col suo gatto" (espressione che suona peraltro un po’ troppo colloquiale). Ora, è semplicemente grottesco che un sentimento astratto si intrattenga a passeggio con un qualsivoglia animale da compagnia, ma si può ancora fare uno sforzo riferendo il relativo a Candy. Rimane però falso che quest’ultima se ne vada a spasso col suo gatto, perché il povero Clean è in realtà un orsetto lavatore: notorio è tuttavia l’episodio in cui Meakin, interrogandosi sulla natura dell’animale che intravedeva sullo schermo, riceveva in risposta lo sbrigativo "Sarà un gatto". Purtroppo la lotteria zoologica andò male.

 

3

Candy, oh Candy, nella vita sola non sei
Anche nella neve più bianca, più alta che mai

Candy, oh Candy, che sorrisi grandi che fai
Che sapore dolce, che occhi puliti che hai

Giunge il ritornello, e come capita spesso, dopo aver elencato le virtù della protagonista nelle prime strofe, la canzone cambia registro e si rivolge direttamente all’eroina.

Inizia con un incoraggiamento: "Candy, nella vita sola non sei". Il che, per qualcuno che aveva visto solo la sigla, è una bella botta di fortuna, perché ha colto un altro aspetto importante della vicenda di Candy: il fatto che anche nelle peggiori avversità potesse contare su qualcuno. La metafora della neve è invece tremenda: se da un lato può evocare l’idea di essere immobilizzati e non potersi muovere (come a volte capita nelle difficoltà), dall’altro la neve è sinonimo di candore, di purezza, cosa che non ha nulla a che fare col discorso. In più, l’autore ha pensato bene di ricordarci che la neve è "più bianca che mai" per condurre la metafora nel senso sbagliato.

Anche la seconda parte ha qualcosa di sbagliato: vadano i "sorrisi" (anche se la "grandezza" di un sorriso mi pare un parametro grottesco, da Lupo Cattivo), vadano anche gli "occhi puliti", sinonimo di sincerità (dubitabile, però: vedi oltre), ma il "sapore dolce" è assai fuori luogo. Anche accantonando l’immagine puramente antropofaga che potrebbe venire in mente a un ascoltatore malizioso (ritorna il Lupo Cattivo!) e interpretandolo come una sorta di sinestesia, è comunque caricato di una connotazione sensuale, quasi erotica, che, parlando di Candy Candy, dà i brividi.

 

4

Candy è fantasia
se racconta una bugia
Candy è l’allegria
che ci tiene compagnia

La terza strofa, come da tradizione, è quella che non si sente nei passaggi televisivi, e a cui quindi è associata una minore importanza.
Viene ripreso lo schema del primo verso, ma invece di ripetere il soggetto le frasi diventano leggermente più articolate, occupando la bellezza di due versi ciascuna.
La relazione tra fantasia e bugia viene affrontata in modo ancora più contorto in Pinocchio, perché no?. Una bugia è anche fantasia, è vero, ma l’unico modo che ha Candy per diventare "fantasia" è mentire? Questo implica forse che ogni forma di immaginazione è falsità? In ogni caso, non si ricorda una sola occasione in tutta la serie in cui Candy menta esplicitamente, quindi il discorso è irrilevante.

 

5

È un sogno colorato
È l’ingenuità
È un desiderio che si avvererà

È un cucciolo smarrito
nell’immensità
nel bosco e tra le case di città

Continua il panegirico della bionda ragazzina, e continuano le perplessità di chi legge il testo con attenzione: perché Candy sarebbe un "desiderio che si avvererà"? La metafora qui ha fatto un passo avanti: Candy è stata paragonata a numerose entità astratte tutto sommato piacevoli (simpatia, felicità, allegria, eccetera); il "desiderio che si avvererà" sembra anch’esso un epiteto attribuito a Candy, benché ciò non abbia alcun senso.

Merita infine attenzione l’ultimo verso: apprezzabile il paragone con un cucciolo smarrito, anche se "l’immensità" pare un po’ eccessivo come luogo in cui perdersi. Sorprendente è poi scoprire dove si trovi quest’immensità: "nel bosco e tra le case di città". Probabilmente si è persa in Central Park, l’unico luogo noto che sia un bosco e, contemporaneamente, sia situato in un grande centro urbano (ed è anche ampio, anche se definirlo "immenso" rimane eccessivo).

 

[Ripete 3]

 

6

Ah, Candy Candy, ah…
Ah, Candy Candy…

[Ripete 3, sfumando]

 

Nel complesso, quindi, si tratta di un testo piuttosto monocorde e non privo di stupidate. Tuttavia, dimostra di aver compreso (ancorché forse casualmente) parte dei temi salienti della storia, e diverse immagini risultano abbastanza azzeccate, a coronamento di una scrittura musicale di prim’ordine e anch’essa molto intonata al romanticismo dolceamaro della serie.


[1] Questa a dire il vero è una mezza leggenda, perché il bilancio finale di Candy Candy è di soli due morti e un mutilato: praticamente trenta secondi di Ken il guerriero, anche se, sulla decina scarsa di amici di Candy, diventa statisticamente rilevante.

 

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