Forse nell’introduzione generale son stato un po’ troppo severo coi cortometraggi in concorso dell’edizione 2014 del festival di Annecy, tacciandoli di eccesso di tecnicismo e di poca voglia di intrattenere lo spettatore. In effetti a ben vedere di cose interessanti ce ne sono, come sempre: vediamone un po’.
365 di Greg McLeod, Myles McLeod
365 è uno di quei corti che nascono da un’idea dell’autore nella forma di una scommessa con se stesso, per vedere se riesce a portarla a termine. In questo caso, si tratta di fare un micro-cortometraggio della durata di un secondo al giorno per un anno, 365 secondi, 365 microcorti in totale. Alcuni prendono spunto da quel che succede, altri sono semplici ideuzze. Ovviamente non tutto è di buona qualità, ma l’impressione collettiva del lavoro è positiva. Curiosità: i filmati che indicavano come votare per il premio del pubblico usavano 365 come esempio. Chissà quanti l’hanno votato per questo!
Beauty di Rino Stefano Tagliaferro
Mi dicono che Beauty è tempo che gira su Youtube. Io non l’avevo visto, ma mi dicono anche che è da vedere sul grande schermo, quindi forse è stato meglio così. L’idea è eccellente: prendere alcuni capolavori di arte figurativa (con predilizione per i manieristi e i preraffaeliti) e animarli. Di solito l’animaizone è un braccio, una testa, poco di più, ma basta poco per aggiungere vitalità. La realizzazione è discreta (in alcuni casi più complessi si nota un po’ di distacco nelle parti animate), ma soprattutto secondo me si poteva osare qualcosa di più: animare qualche quadro di meno, ma costruirci intorno un discorso che andasse oltre il gesto tecnico.
Grace Under Water di Anthony Lawrence
Corto a pupazzi australiano molto realistico ma oltre la uncanny valley, parla di come una matrigna (una volta tanto la “buona” della situazione) riesca a costruire un rapporto con la sua figliastra mediante una gita in piscina e ciò che si prova sott’acqua. Tratto da un racconto, è uno dei pochi corti visti quest’anno che raccontano una storia dall’inizio alla fine, ed è anche prezioso per questo, ma a me ha colpito molto tecnicamente per la qualità dell’animazione e dei pupazzi utilizzati.
Hasta Santiago di Mauro Carraro
Il Cammino di Santiago è percorso per tante ragioni, e una di queste, apparentemente, è di farci un corto sopra. L’autore è italiano, ed era accanto a noi mentre mangiavo cozze al roquefort e parlavo male di questo film, quindi mi ripeterò senza paura: l’ho trovato debole e inconcludente, troppo episodico e senza mordente. Qualche bella scena e belle musiche, però (tanto che ha vinto il premio apposito)
Hipopotamy di Piotr Dumala
Tipico corto “contestuale”, cambia significato se si scopre di cosa parla leggendone o facendoselo spiegare, poiché è pessoché impossibile dedurlo solo guardandolo. Alcune donne fanno un bagnetto con i loro bambini, finché non arrivano degli uomini che le attaccano e uccidono i bambini. Solo allora queste donne si concederanno sessualmente. WTF? E’ una rappresenzazione etologica degli ippopotami, resa con gli umani. Simpaticoni, gli ippopotami!
Invocation di Robert Morgan
Ho il sospetto di aver già visto questo corto l’anno scorso nel programma dedicato a Robert Morgan, ma non ne sono certo. E’ un corto che rispetta i canoni di Morgan: stop motion, compenetrazioni di carne e altri oggetti, impatto visivo molto forte, senso di schifo. Sono visioni che lasciano il segno, anche quando lo spunto (un pupazzo da stop motion che prende vita e si vendica sul suo regista) non è così brillante.
La Petite Casserole d’Anatole di Éric Montchaud
Anatole va in giro con una piccola casseruola rossa, e tutti lo prendono in giro. Incontrerà poi una signora, anche lei fornita di casseruola, che gli insegnerà che si può vivere serenamente con la propria casseruola. Il “metaforone” è evidente, parla di disabilità nel modo che ognuno preferisce (a me è venuto in mente la dislessia, chissà perché), ma lo fa con delicatezza e senza finta pietà, con un leggero umorismo e con un design grazioso e piacevole. Un bel lavoro, e mi ha dato l’occasione di ripetere molte volte la parola “casseruola”, che fa ridere.
Le Sens du toucher di Jean-Charles Mbotti Malolo
“Jean-Charles Mbotti Malolo” è il vincitore del premio Jimmy Bobo di Annecy 2014, e solo per questo andrebbe citato, ma questo corto offre anche qualcosa di più. Narra di una storia d’amore tragicomica tra sordomuti, con lui che odia i gatti e lei che li ama e lui che si trasforma in una bestia (letteralmente) quando si parla di felini. La trama è scioccherella, ma ci sono dei momenti di intimità tra i due, con giochi di sguardi, sfiorarsi le dita, piccoli gesti, che sono proprio toccanti e ben pensati.
Moulton og meg di Torill Kove
Torill Kove ce lo ricordiamo per il delizioso The danish poet, vincitore di un premio Oscar come cortometraggio, e questo suo lavoro non si discosta molto come toni e come realizzazione, in un bello stile pulito ed elegante, anche se il tema è assai diverso. Parla di una bambina norvegese negli anni ’60, figlia di due genitori un po’ fricchettoni, e del suo desiderio di essere “normale”. Normale non lo sarà mai, ma si renderà conto di come nessun altro in fondo lo sia, anche grazie all’antenata delle orrende bici tipo Brompton oggi di moda. Molto grazioso, trovo che avrebbe meritato una menzione, ma d’altronde anche la sua opera precedente non era stata premiata. Stolti!
Pickman’s Model di Pablo Ángeles
Ogni tanto qualcuno di prova ad adattare Lovecraft in animazione o anche dal vivo, ma proprio non funziona. Questa realizzazione di un racconto di Lovecraft (peraltro neanche uno dei migliori) soffre dell’usuale difetto: gli orrori cosmici dello scrittore di Providence sono tali perché indescrivibili; tentare di visualizzarli li sminuisce, ma d’altronde non mostrarli, lasciarli solo evocati, non funziona nemmeno. Questo adattamento a pupazzi, comunque, sarebbe realizzato discretamente e ben sceneggiato, a parte quello di cui ho parlato.
Pilots on the Way Home di Olga Parn, Priit Parn
Oh, gli estoni! Hanno avuto il loro momento di gloria qualche anno fa, quando sembrava che la colorata e surreale animazione estone avrebbe salvato il mondo. Poi ci son stati i 46′ di Life without Gabriella Ferri, un po’ di ripetitività, e son stati ridimensionati. Tuttavia un corto di Parn lo si aspettava con un po’ di curiosità: diciamo che accanto all’approccio surreale sembra ci sia un po’ di fissazione sull’erotismo, a tratti anche un po’ incomprensibile. Niente di che, diciamo, ma una certa mano dietro c’è.
Sneh di Ivana Ebestova
La Ebestova aveva realizzato il bel Four, qualche anno fa, storia raccontata da quattro punti di vista. Il suo stile qua è simile e inconfondibile, chiaramente ispirato da Tamara Lepika, e ci racconta una leggenda di una ragazza che aspetta il suo bello che fa l’avventuriero in giro per il mondo. Ma è proprio così? Meno riuscito del suo lavoro precedente, è però uno di quei corti che lasciano qualche dubbio, di cui si parla per scambiarsi opinioni. E’ un buon segno.
Sangre de unicornio di Alberto Vazquez
El sangre de unicornio! Con un bell’heavy metal di sottofondo assistiamo alle trucidi imprese di orsacchiotti di pezza guerci e crudeli che vogliono impossessarsi del sangue dell’unicorno. Lo stridio tra stile un po’ lezioso, la musica e i vari elementi così accostati generano un mescolone che funziona, fa ridere ma è drammatico, è nonsense ma in qualche modo prende. Uno dei lavori migliori dell’anno, per me.
Simhall di Niki Lindroth Von Bahr
Forse il premio “machecazz…” dell’anno, Simhall è una curiosa storia svedese a base di pupazzi con animali antropomorfi, in cui una banda di giovinastri rende difficile la giornata di un inserviente di una piscina, già complicata da problemi all’impianto. La narrazione è lenta, dilatata, quasi bergmaniana, alcune azioni e qualche deviazione dalla trama principale appaiono prive di senso e il finale rimane sospeso. Eppure, superato il momento di straniamento, in qualche modo questo corto funziona. Certo, se devo scegliere un pupazzo svedese opto per Puppet Boy.
Wonder di Mirai Mizue
Mizue non inventa niente di nuovo, ma lo fa bene: il suo lavoro è un astratto con immagini di tipo “cellulare”, biomorfi non lontani dall’estetica di Mirò, con molte simmetrie e molti colori, il tutto in movimento con la musica. Esattamente come in 365, il suo lavoro è di 365″ ed è stato girato in un anno, ma non ha la pretesa di essere un diario. Funziona bene.
E ora qualcosa uscito dal concorso dei corti sperimentali:
Box di Tarik Abdel-Gawad
Un’esperimento forse più tecnico che artistico: su due braccia meccaniche sono montati due schermi. Viene dimostrato come muovere queste braccia meccaniche e contemporaneamente gestire il contenuto dei due schermi in modo da dare coerenza al tutto, simulando profondità o altri effetti. Appare evidente che si tratta di un’installazione poi filmata: in ogni caso, è grazioso ma una pura curiosità.
É in Motion No.2 di Sumito Sakakibara
Questo corto è stato proiettato muto, muto nel senso di totalmente privo di sonoro. Mi han detto che in altre proiezioni si sono scusati per la cosa, e non era pensato così…eppure funziona! Si tratta di una lunghissima (oltre 10′) panoramica con lenti movimenti di macchina da destra a sinistra, che inquadra scenari progressivamente sempre più complessi in cui, come dire, “succedono cose”: c’è una balena spiaggiata, bambini che giocano nella neve, un circo un po’ inquietante. Piccole animazioni ripetute costellano questo scenario, e la concentrazione dello spettatore è rapita dallo sforzo di cogliere tutti i particolari o farsi ipnotizzare da qualche ripetizione. La mancanza di musica aiuta, in questo senso, sembra proprio di vedere un panorama. Per qualche ragione, mi ha ricordato il classico Tango di Zbigniew Rybczynski.
Gli immacolati di Ronny Trocker
Nonostante il nome dell’autore, è un corto italianissimo, che parla del difficile rapporto tra un campo nomadi e una “tranquilla” cittadina del nord Italia, che culmina in una violenza bestiale di gruppo con le autorità impotenti o forse compiacenti. Banalotto come spunto, forse più da fiction di Rai1 che da corto sperimentale, ma ben realizzato con una narrazione pacata fuori campo fatta solo di piani sequenza di paesaggi quasi sempre vuoti e un po’ squallidi, con persone che compaiono solo nel finale.
Portrait di Donato Sansone
Questo corto è simile e complementare a Beauty, in concorso: ritratti ripresi lentamente con piccole animazioni. La differenza sta nel fatto che sembrano ritratti di Francis Bacon: distorti, con parti mancanti o fluttuanti, in generale resi brutti tramite qualche artefatto. L’effetto è curioso, probabilmente più intrigante della sua controparte “bella”, ma anche questo si esaurisce come curiosità abbastanza nel breve.
Virtuoso Virtuell di Thomas Stellmach, Maja Oschmann
Ultimo ma non meno importante, questo lavoro astratto segue uno dei grandi filoni dell’animazione astratta, ovvero la rappresentazione della musica. Invece però del solito jazz o la solita musica elettronica, è stato scelto un pezzo classico, l’ouverture dell’opera L’alchimista di Louis Spohr, animata mediante con macchie di inchiostro che si espandono progressivamente. Si ottiene un’opera in cui musica e immagini sono ben compenetrate e si sostengono e arricchiscono a vicenda: un bel lavoro.
Next: ancora qualche visione sparsa e qualche considerazione a valle del tutto
Ogni tanto mi ricordo dei miei primi tempi ad Annecy, quando c’erano quattro lunghi in concorso e due o tre anteprime, e quindi vedere un film intero era un’occasione rara. Ormai, con 9 film in concorso, 9 fuori concorso e diverse anteprime e programmi speciali, è diventato impossibile vederli dal primo all’ultimo, se non rinunciando a tutto il resto. E’ un grosso cambiamento, è indice del fatto che i lungometraggi animati sono sempre più popolari e meno costosi da produrre.
Beh, io ne ho visti nove e vi parlo di tutti. Mettetevi comodi, iniziamo da quelli in concorso.
Cheatin’ di Bill Plympton è un classico film plymptoniano: muto, disegnato tutto di persona da lui nel suo stile cartoonesco al tratto, con alcune gag di “trasformazione”, a tratti anche un po’ di schifino, è però venuto meno bene dei suoi lavori precedenti. Parla della storia di una donna e del suo marito che la tradisce (per vendetta?) e di come lei userà la tecnologia per riaverlo almeno in parte. La trama è un po’ confusa, non studiata benissimo, ma ci sono alcune sequenze memorabili (in particolare una serie di espressioni del marito da antologia e una bella gag sul cuore della donna). Plympton in persona vende disegni e memorabilia per finanziare i suoi film. Bravo ragazzo.
Lisa Limone ja Maroc Orange: tormakas armulugu (Lisa Limone e Maroc Orange: una rapida storia d’amore) di Mait Laas è affascinante soprattutto per il cortocircuito: un musical estone a pupazzi ambientato a Lampedusa, cantato in italiano e in francese, sul dramma dei migranti nei barconi. Io ho voluto vederlo solo per capire cosa poteva venir fuori, e tutto sommato, facendo la tara alla mediocrità delle canzoni, a qualche lacuna tecnica e al fatto che non si capisce come va a finire, mi son divertito e ho apprezzato. Il film è stato proiettato in 3d e la parte iniziale è in un ottimo 3d, poi han finito il budget e si torna a un lavoro standard e un po’ piatto. E’ piaciuto solo a me, devo ammettere.
Saibi (The fake) di Sang-Ho Yeon merita un discorso più articolato. Il regista è lo stesso del già apprezzato King of pigs visto qualche anno fa, e prosegue il tema già introdotto in quel film e comune a diversi film coreani: la rappresentazione di una società durissima in cui il più forte soverchia il più debole. In questo caso, lo spunto nasce da un villaggio che deve essere sommerso per la costruzione di una diga, e in cui alcuni truffatori fondano una chiesa per far donare alla gente del luogo i soldi che hanno ricevuto come compensazione. L’unico ad accorgersi di questo è un ubriacone violento e rozzo che picchia moglie e figlia, e a cui ovviamente nessuno darà ascolto. Esemplare il momento in cui quest’uomo dice a un suo conoscente, ex-amico: “Ma non sarà mica che il cattivo sono io?”: l’eroe titanico che lotta solo contro il Male è anch’egli parte del Male. La fede qua è solo superstizione, e nei rari casi in cui dona conforto è solo al prezzo di sangue e denaro. Pur essendo molto pesante, ho amato molto questo film, ma una domanda mi è sorta: perché farlo in animazione? Lo stile è perfettamente realistico, potrebbe essere girato dal vivo senza problemi. Eppure è qui la magia dell’animazione: vedere le persone come rappresentazione e non come attori rende il messaggio ancora più duro e sentito.
Giovanni no shima (L’isola di Giovanni) di Mizuho Nishukubo è un drammone storico giapponese, che parla dell’occupazione di un’isola a nord del Giappone nell’immediato dopoguerra da parte dei russi. Due bambini e la loro famiglia vivranno questo episodio storico in prima persona, conosceranno una ragazzina russa, fraternizzeranno con gli invasori, verranno deportati e così via. Di notevole l’incrocio con l’amatissima storia giapponese Notte sulla ferrovia galattica da cui prende il nome il titolo, e che attraverso i bambini interseca la trama. Graficamente piuttosto standard, è comunque un buon prodotto, a tratti anche commovente, mai noioso.
Asphalt Watches di Shayne Ehman e Seth Scriver è molto brutto, ma è un bel mistero. Visivamente molto brutto (volutamente, suppongo) narra la storia di un tizio e del suo compagno fantasma e il loro viaggio on the road attraverso il Canada. Il mistero sta nel fatto che la sala rideva molto, e io non capivo perché. Intendiamoci, esistono alcuni tipi di umorismo che non mi fan ridere (ad esempio, quasi tutto il cabaret basato sui tormentoni), ma li riconosco come tali, in questo caso invece proprio mi sfuggiva cosa ci fosse da ridere. Una gag tipica di Asphalt Watches è una musichetta tecno che parte con un piccolo tormentone, del genere “She’s gone to take the boiled hot dogs, she’s gone to take the BHD”. E parte della sala si spanciava. Son rimasto fino in fondo a cercare di capirci qualcosa, ma niente. Solo un brutto film.
Con questo concludiamo i film in concorso visti. Passiamo a quelli fuori concorso.
Koo! Kin dza-dza di Georgiy Daneliya e Tatiana Ilyina è un curioso prodotto russo, versione animata di un film da vivo del 1986 molto popolare in Russia. E’ una storia di fantascienza surreale, con qualche debito a Metal Hurlant e Moebius come atmosfere, ma chiaramente russo come spirito. E’ abbastanza divertente e si capisce come “Koo!” possa esser stato un tormentone in Russia negli anni ’80, ma si ha l’impressione (peraltro confermata da chi ha visto entrambi i film) che la versione dal vivo fosse più fresca e più divertente, anche forse per il fatto di essere dal vivo. Grazioso, comunque.
Resan Till Fjäderkungens Rike (Alla ricerca del re delle piume) di Esben Toft Jacobsen è un film danese dal regista di The Great Bear che avevo trovato discreto tre anni fa. Se consideriamo anche Disco Worms e Ronal the barbarian, altri prodotti danesi di buon livello, ho voluto vederlo per vedere i miei amici nordici cosa combinano. Cattiva idea. Ho dormito un sacco, ma ciò che ho visto era molto confuso e mal girato, e anche brutto. E’ comunque un metaforone sul concetto di accettazione della morte da parte di un bambino. Buona idea, pessima realizzazione.
Manieggs – Revenge of the hard boiled di Zoltan Miklosy è un film curioso. Estesticamente molto spartano, riesce però a trovare un suo stile interessante coi personaggi a forma di uovo con gli arti volanti rispetto al corpo, facendo anche un paio di gag su quest’ultima caratteristica. E’ una storia poliziesca, parodistica, molto citazionistica e sopra le righe, violenta, abbastanza divertente e costruito con una bella progressione. Trama molto assurda, direi volutamente, che trae spunto dal ceffo che vuole vendicarsi chi l’ha incastrato facendogli fare quindici giorni di carcere.
Infine, un film che è probabile che vedremo al cinema anche in Italia. Justin and the Knights of Valour di Manuel Sicilia è una produzione spagnola, con dietro Antonio Banderas, che però segue i canoni americani estetici e di trama. Risulta quindi piuttosto prevedibile, ma assai divertente, con qualche bel personaggio azzeccato e mai stupido. La storia è ambientata in un medioevo in cui i cavalieri sono stati banditi e hanno il potere gli avvocati, e un ragazzino vuol seguire le gesta del nonno cavaliere. Ci riuscirà? Conquisterà la sua bella? E che succederà con quel cavaliere cattivo che vuol conquistare la città? Eh già. E’ prevedibile, ma dategli una chance. Ci si diverte.
Un cenno a due film che non ho visto personalmente ma li ha visti qualcuno del mio gruppo: L’arte della felicità è un film italiano, e io degli italiani ho paura perché fanno troppo spesso gli artistoidi senza poterselo permettere. Su questo ho sentito pareri discordanti, ma un po’ son pentito di non averlo visto. Até que a Sbornia nos separe (Finché Sbornia non ci separi) non è un film sulle sbronze, ma una storia brasiliana su un paese isolato che si ricongiunge al mondo. Per concludere, poi c’è una serie di opere che non ha visto nessuno del mio entourage perché facevano paura. Qualche esempio: Minuscule – La Vallée des fourmis perdu, in ritardo vent’anni su A bug’s life o Z la formica; Last Hijack, storia di pirati somali, di moda quest’anno, pare;Truth has fallen, pittura su vetro sulle pecche del sistema giudiziario americano. Gulp.
Next: Cortometraggi in concorso e non. Non pioverà.
Ritorna questo blog dormiente per i tradizionali, odiatissimi post su Annecy.
Come sempre, luci e ombre nell’edizione del festival più amato dai Pinguini. Luci nell’evidenza di un cambio di rotta nella direzione artistica, nella cura dei programmi speciali, nell’introduzione di novità organizzative; ombre in un concorso che nei cortometraggi zoppicava un po’, nelle stesse novità organizzative che necessitano a tratti di un po’ di lubrificazione, e soprattutto nel lavoro della giuria, che ha sfiorato le vette di incompremsibilità del giudizio del 2009, malefico anno dei bambini sudanesi. Ultima ombra, seppure non imputabile all’organizzazione del festival, è stata l’ondata di caldo che ha reso Annecy una città torrida, con conseguente disagio per gli spettatori. A sinistra, il bel manifesto col caprone satanico che allietava gli schermi prima delle proiezioni.
Il più evidente cambiamento organizzativo, nel secondo anno di esilio dal Bonlieu, è stata l’eliminazione dei ticket cartacei, sostituiti da quelli elettronici, e una politica diversa per l’attribuzione dei biglietti: con meno biglietti a disposizione per la prenotazione, è più difficile conquistarli in anticipo, però mettendosi in coda prima dell’inizio delle proiezioni si entra facilmente. La conseguenza è stata che le code in ingresso erano molto lunghe, e col caldo ardue da affrontare, ma dopo il primo giorno, davvero un po’ troppo caotico perché nessuno sapeva dove mettersi in coda, son filate abbastanza lisce. Purtroppo, altra conseguenza,le proiezioni puntuali son diventate rarissime; se a questo sommiamo il tempo necessario a mettersi in coda quando si è privi di biglietto, il tempo libero tra le proiezioni è risultato decisamente ridotto.Va tuttavia ancora una volta stigmatizzato il fatto che, al momento dell’apertura delle biglietterie telematiche qualche giorno prima del festival, i server non reggano e il sito si pianti. Fatevi fare un corso di scalabilità, ragazzi!
A parte i biglietti, comunque, si son viste altre novità: due cerimonie di chiusura, una per i premi minori e una per quelli principali; poche facce note tra chi lavorava; badge con codice QR; qualche problema di troppo nelle proiezioni (addirittura un film nella sala sbagliata!). Piccole cose nel bene e nel male che testimoniano il cambiamento.
Il cambio di rotta della gestione va però ben oltre l’organizzazione: dopo un 2013 di transizione, quest’anno Serge Bromberg non si è proprio visto e Marcel Jean ha preso in mano imponendo la propria visione. Innanzitutto, finalmente si è rinunciato alla stanca formula della “nazione dell’anno”, dedicando una mole impressionante di programmi all'”animazione in volume” (stop motion, plastilina, pupazzi etc.): c’erano la bellezza di 17 programmi, che spaziavano dai capolavori (e potevo perdermi l’occasione di rivedere ancora Harvey Krumpet?) ai focus su Estonia, Messico o Croazia, a maestri come Harryhousen, Trnka o George Pal, agli inventori del genere agli albori dei cinema, alle sperimentazioni. Davvero una programmazione completa e curata.
Di fronte a questo lavoro gli altri programmi speciali sfigurano un po’: due sessioni dedicate alla prima guerra mondiale in occasione del centenario dell’inizio (ne ho visto uno, discreto) e due sull’eredità di McLaren. A destra, l’intramontabile Harvey Krumpet. Korba!
Anche il concorso dei cortometraggi, tradizionale piatto forte, vede due novità. La prima, quella più evidente, è la presenza di un sesto programma oltre i cinque tradizionali, chiamato “Off Limits Animation” e dedicato all’animazione sperimentale. Non è stato chiaro fino alla premiazione se era in concorso o meno; si è poi scoperto che è stato pensato un premio apposta. E’ stato comunque un programma discreto, il cui vincitore è stato uno dei corti meno forti, Corps étrangers di Nicolas Brault, una vi di mezzo tra un astratto e immagini al microscopio. La seconda novità è più sottile, e forse anche è difficile capire se sia una parentesi di quest’anno o un cambio di rotta definitivo, ma l’impressione è che la selezione sia stata fatta tenendo conto meno dei contenuti e più del guizzo tecnico, dell’idea realizzativa. Il risultato è stata una programmazione piuttosto pesante, con almeno due programmi su cinque faticosi al confine con l’intollerabile, e comunque con la conseguenza che si è riso molto poco. Il cartone con la gag quest’anno è stata una bestia rara.
Paradossalmente, invece, i premi sono andati in gran parte a cortometraggi in cui si provava a dare un contenuto. Forse quello che più non va nasce appunto da questo screzio tra comitato di selezione e giuria. Il vincitore, comunque, è stato Man on the Chair di Dahee Jeong, una riflessione sull’identità dell’Autore e dell’Opera, a dire il vero un po’ puerile e intellettualode. A sinistra un’immagine dal vincitore, fatevi voi un’idea. Un po’ meglio il secondo premio a Patch di Gerd Gockell, anche questo che esplora la tensione tra Opere Astratte e Non. Non gli avrei dato un premio, ma almeno è un prodotto sensato. Stupisce molto anche il terzo premio, pari merito, all’italiano La testa tra le nuvole di Roberto Catani, che è un classico corto con gessi stridenti sulla lavagna, metaforicamene e letteralmente. L’altro corto vincitore del terzo premio è stato il grazioso (finalmente!) Histoires de bus di Tali, canadese, una piccola storia divertente nella campagna canadese. Anche un po’ meglio il premio del pubblico, con La Petite Casserole d’Anatole di Éric Montchaud, tenero e toccante (a destra), Diversi altri corti, al di là dei premi, sono meritevoli di menzione e saranno menzionati in seguito, ma devo dire che non ce ne sono che mi abbiano profondamente colpito. Questo è il senso ultimo per cui, alla fine, posso dire che il programma dei corti non mi ha soddisfatto un granché.
Binari più consueti invece per i lungometraggi. Ci son state alcune anteprime anche piuttosto importanti, che però non ho visto o perché troppo difficili entrare (Princess Kaguya di Isao Takahata, l’unico che mi è proprio spiaciuto non vedere) o perché, insomma, non mi interessava più di tanto (Dragon Trainer 2, Saint Seiya). Il concorso ha avuto un vincitore a sorpresa, O meninho du mundo che, ehm, non ho visto, ma di cui potete vedere un fotogramma a sinistra. Ho prediletto un altro programma o forse ho fatto shopping…ma me ne sono pentito. Mi ispirava. Stupisce comunque che sia il secondo anno di seguito che vince un lungo brasiliano, senza che ci sia però l’evidenza di una scuola in fermento (e con un brasiliano in giuria, la cosa puzza un po’). Secondo posto, anche questo a sorpresa, per Cheating del veterano Bill Plympton, più debole rispetto ai suoi standard, e terzo per il discreto Giovanni no shima di Mizuho Nishikubo. Seguiranno dettagli su questi e tutti gli altri film, ma anticipo che il mio preferito è stato Saibi, un coreano durissimo (come sempre per i film di questa nazione).
E infine c’è stata una novità nella mia partecipazione personale ad Annecy: ho saltato le proiezioni del sabato e me ne son tornato in Italia un giorno prima. Le ragioni del cuore prevalgono su quelle dei cartoni animati. I tempi cambiano dentro e fuori il festival.
Next: Lungometraggi come se piovesse. Ha piovuto una sola volta seriamente, mentre ero in sala a vedere un programma di corti in concorso. Mai bagnato!
Di solito, quando è il momento di tracciare una panoramica dei corti di un festival, si parte dai vincitori dei vari premi. Tuttavia, ho già riferito di non aver condiviso molto i premi della giuria: non è stato un disastro come nel 2009 e i bambini sudanesi, ma non credo ci sia stato un film che ho applaudito con entusiasmo durante la premiazione. Quindi, la selezione dei corti di cui parlerò verterà su quelli che mi son piaciuti e che mi hanno colpito in un modo o nell’altro, e non su quelli premiati. Se poi le cose coincidono…tanto meglio!
Il mio vincitore personale è stato Futon di Yoriko Mizushiri (a sinistra). Con una dolce canzone in sottofondo, una donna stilizzata si avvolge pigramente in un futon; compare poi del sushi, una torta, delle bocche sensuali, altri elementi vagamente erotici: tutto lento, pigro, morbido, al calduccio. Quello che ho amato di questo corto è come sia riuscito a trasmettere a un po’ tutti i sensi con dolcezza e complicità. Guardatene il trailer e vedete se non ve ne innamorate un po’ anche voi.
Ho apprezzato poi moltissimo il più difficile Trespass di Paul Wenninger (a destra). Si tratta di una serie di foto del regista in giro per il mondo, giustapposte in modo che lui sia quasi fermo mentre tutto intorno va velocissimo, in una sorta di pixilation. Mi ha comunicato una grande sensazione di solitudine e di smarrimento.
Due corti, entrambi di buon livello, trattano un tema simile: A Monster in the reservoir di Sung-Gang Lee e The big beast di Pierre-Luc Granjon. Il primo parla di un mostro in un laghetto che parla in prima persona ma non si vede mai, forse non c’è, e segue tutta la vita di una bambina. Il secondo (a destra) di un mostro che mangia le persone, non si vede mai, forse non c’è, finché non viene creato veramente da chi ne ha paura.
Dal lato più vivace, assai apprezzabile Kick-Heart di Maasaki Yuasa, una sorta di revamp dell’Uomo Tigre con strizzate d’occhio allo spettatore. Si ride molto.
Spaziando tra le tecniche, Boles di Spela Cadez (a sinistra) è un film a pupazzi che parla di uno scrittore squattrinato alla ricerca della sua musa, in questo caso una vicina grottesca. La trama è un po’ ritrita (qualcuno dica agli scrittori che, se non sanno cosa scrivere, scrivere del fatto che non sanno cosa scrivere non va bene!) ma la tecnica di animazione, la cura nelle espressioni dei personaggi e anche il modo in cui si fanno amare è notevole.
Un solo film è stato trasmesso in 3d, e si tratta di Gloria Victoria di Theodore Ushev, una specie di riassunto del novecento artistico. E’ un corto molto potente anche in 2d, ma io, sebbene profondo detrattore di quella sciocca baracconata che è la terza dimensione, devo ammettere che in questo caso è stato usato bene e con efficacia, e aggiunge in effetti qualcosa. Nel campo artistico merita una menzione anche Mademoiselle Kiki et le Montparnos di Amèlie Harrault, una rilettura della celebre modella/artista/cantante Kiki e la sua vita in mezzo agli artisti nel leggendario periodo della Parigi del primo ‘900 (a destra). Interessante il variare dello stile a seconda degli artisti con cui la nostra interagiva.
Tutto sommato il vincitore del Cristallo mi è piaciuto, ma non l’ho trovato così forte da essere un vero premio: Subconscious password, di Chris Landreth, racconta quello che avviene nel subconscio quando non ci ricordiamo il nome di una persona incontrata. Landreth ha molta classe, sia tecnicamente nelle sue soluzioni visive sempre al confine con la ripresa dal vivo, sia nell’originalità delle invenzioni che propone (il subconscio come un gioco a quiz degli anni ’60 con il grande Chtulu come ospite?!?), ma, ripeto, non mi è sembrato andasse oltre il livello di una bella gag. E parlando di ritorni di autori amati nel passato, non può mancare una citazione per Lonely Bones di Rosto. Dopo il semi-fallimentare Nix di due anni fa, Rosto torna al suo immaginario di mostri, distorsioni, follie, scenari assurdi e contaminazioni di piani narrativi. Il suo gioiello Jona/Tomberry l’ho apprezzato sempre di più a ogni visione, e ho il sospetto che anche per questo film potrebbe capitare lo stesso.
Qualche altro rapido cenno: Double Fikret di Haiyang Wang è un curioso corto su contaminazioni tra uomini e animali, una sorta di parata di chimere in continua trasformazione. I più però lo ricordano come “le tette a gallina” (a destra). L’esteticamente interessante Le banquet de la concubine di Hefang Wei, disegnato con grazia, ci insegna a non fare incazzare le favorite dell’imperatore, anche quando iniziano a essere in disgrazia. Droznik di Piotr Szczpanowicz, in un bel 3d, è una variazione sul tema di “perdere i treni della vita”, con un capostazione che perde l’amore della sua vita. Polacchi, che spasso! Le courant faible de la rivière di Joel Vaudriel (a sinistra) narra un aneddoto di un vecchio orribile, su quando era un giovane orribile e frequentava ragazze orribili. La storia vira sull’assurdo quando si parla di donne che uccidono i pesci col pensiero. Premio WTF dell’anno. Lettres de femmes di Augusto Zanovello merita un cenno perché misteriosamente vincitore premio del pubblico e ma anche per lo spunto interessante: le lettere ai soldati nella Prima Guerra Mondiale non solo come medicina per l’anima, ma anche per tutto il corpo. Tuttavia, non mi è parso così ben fatto. Why? Factor di Ben Falk e Jordan Wood porta il pesantissimo nome dei Monthy Python (proprio “by Monthy Python” nei titoli di coda!), ma francamente questa parodia di X-Factor non è molto divertente.
E infine, il corto molesto dell’anno per me va a Carne di Carlos Alberto Gomez Salamanca, il quale ha un endecasillabo come nome ma ha prodotto una roba incomprensibile sui sacrifici di animali in Colombia. Lunghezza reale 7 minuti, percepita 70.
C’est tout. All’anno prossimo!
Veniamo quindi ai lungometraggi, e iniziamo da quelli in concorso. Dei tre che ho visto, è apprezzabile, ha vinto una menzione speciale e non escludo si vedrà in Italia il francese Ma maman est en Amérique, elle a rencontré Buffalo Bill, che riesce a raccontare della triste scoperta della realtà di un bambino seienne con tenerezza e senza scadere nel mieloso, cosa molto difficile dato il tema. Potreste averlo già sentito perché il fumetto è uscito anche in Italiano da Bao. Interessante anche O apostolo (a sinistra), stop motion spagnola per un horror di atmosfera, molto inquietante e di grande impatto visivo, ma con la storia un po’ zoppicante. Ha vinto tuttavia il premio del pubblico. Jasmine, realizzato in plastilina, parla di una storia d’amore durante la rivoluzione iraniana, e io l’ho trovato davvero noioso e povero di idee, ma molti hanno apprezzato la cinematografia e qualcuno anche la storia.
Maggiore interesse dal lato dei lunghi fuori concorso. E’ stata proposta una bella sfilza di lunghi giapponesi di grandi studi, e ho deciso di concedere qualche chance. Io ho un rapporto di amore-odio con gli anime: se da un lato costituiscono la base del mio background animato e per un certo periodo della mia vita li ho amati alla follia, dall’altro mi fa rabbia vedere la povertà di idee degli ultimi anni e il riciclo sistematico di sempre le stesse tematiche. Vista però la ricchezza di proposte, una volta dribblate i film di Berserk e One Piece, ne ho visti ben quattro.
Sakasama no Patema – Patema inverted (a destra) di Yasuhiro Yoshihura è stata addirittura una prima mondiale, uscirà in Giappone in autunno. Si tratta di un film di fantascienza con qualche debito al Conan di Miyazaki che presenta il “metaforone” nella trama delle due popolazioni che vivono con gravità a direzioni diverse e si chiamano l’un l’altro “invertiti”; qualche piccola confusione nella trama, ma nel complesso affascinante e appassionante. Non troppo dissimile è per Gusuko-Buduri no Denki (La vita di Budori Gusuko) di Gusaburo Sugii (a sinistra), che mette insieme in un mondo di personaggi con fattezze feline una storia che si dipana curiosamente in un’ambientazione tra il medioevo giapponese, la campagna pre-rivoluzione industriale e un mondo steam-punk. Molto curiosa la morale: l’uomo ha il dovere di controllare il clima terrestre; non ho capito se si tratta di un messaggio estremamente anti-ecologico o meno. Peccato per qualche scena onirica di troppo che spezza il ritmo e non aggiunge nulla.
Il più interessante dei quattro è senza dubbio After School Midnighters di Hitoshi Takekiyo (a destra): ambientato in una scuola durante la notte, narra le peripezie di tre bambine dell’asilo in una folle storia con manichini anatomici viventi, demoni in forma di mosca, viaggi nel tempo, conigli col grilletto facile, UFO e musicisti fantasma. Il debito nei confronti di Uruseiyatsura è pesantissimo, ma l’uso di bambine prescolari invece delle solite studentesse in divisa alla marinaretta dà una ventata di freschezza. Molto divertente. Infine, il peggiore di tutti è l’insopportabile Blood C: The last dark, solita roba di demoni e corporazioni e ragazzine che combattono e che palle, quando fanno ‘ste robe senza nemmeno provarci i giapponesi li detesto. Se avessi saputo che c’erano di mezzo le CLAMP me lo sarei evitato.
Pagato il tributo al Sol Levante, giriamo un po’ il mondo. El Santos vs la Tetona Mendoza di Alejandro Lozano (a sinistra) è un assurdo film messicano, credo tratto da un fumetto, che parla di un lottatore di wrestling che combatte una tettona per il controllo degli zombi messicani, che sono gli unici che pagano le tasse in Messico. Tra tarzanelli parlanti, citazioni a raffica da Capitan Tsubasa a Dragonball a Rocky a Fuga per la vittoria, un sacco di droghe illegali, stitichezza e scontri finali con funghetti peyote, si ride un sacco, ma il tema non si sposa benissimo con la forma di lungometraggio, e dopo la prima mezzoretta El Santos si siede un po’, risollevandosi giusto per il finalone.
Tornando in Francia, ho assistito all’anteprima di Tante Hilda. Dall’immagine promozionale (a destra un esempio) e dal titolo, mi aspettavo una specie di commedia familiare, mentre invece è un pippone ecologista infinito contro gli OGM da parte del regista del desecrabile La prophecie des grenouilles, Jacques-Remy Girerd, che tra l’altro avevo accanto durante la proiezione e mi pareva brutto andarmene. C’è del buono nel design, i personaggi sono abbastanza azzeccati, e tutto sommato la trama non è congegnata male, e inoltre si cita un po’ Bozzetto il che fa guadagnare punti, ma la pesantezza con cui il messaggio è ripetuto, per di più senza giustificazioni serie se non “gli OGM sono malvagi perché non dobbiamo giocare con la natura” è davvero insopportabile.
L’America ci ha regalato due film, entrambi piccole produzioni indipendent. Confesso di non essere riuscito a vedere per intero il primo e di essermene andato a metà. Si tratta di Consuming Spirits di Cristopher Sullivan, storie di personaggi distrutti nella rust belt più depressa. Il secondo, molto più affascinante, è It’s such a beautiful day di Don Hertzfeld, già autore di cortometraggi che ci son piaciuti. Anche se ci sono dei momenti assai poetici soprattutto nel finale (davvero molto bello), Don non era secondo me pronto per un lungo per la scarsità di materiale a disposizione e la capacità di gestirlo, e il film risulta un po’ sfilacciato e a tratti noioso. Peccato.
Ultima visione della settimana è stato il curioso Persistence of vision di Kevin Schreck (a sinistra). Si tratta di un documentario sul film animato The thief and the cobbler, una produzione inglese mai terminata da parte di Richard Williams. Pur essendo un film un po’ a tesi “le multinazionali malvagie non fanno lavorare gli artisti come vorrebbero loro”, posso capire che per quanto ambizioso e spettacolare fosse il film, dopo 24 anni e budget milionari buttati via ci abbiano dato taglio, anche se male. Peccato, perché i frammenti mostrati sono davvero mozzafiato, però mai, mai, lasciare un artista a gestire un progetto. Mai!
Non ho visto il film vincitore dell’anno, Rio 2096: una historia de Amor e Furia di Luiz Bolognesi, ma non ne sento la mancanza. Rimpiango invece di essermi perso Tito on ice, un curioso film sulla salma di Tito congelata portata a spasso per l’Europa, che mi dicono essere stato originale e acuto. E pensare che l’ho perso per vedere Tante Hilda!
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Il 2013 era stato previsto come un anno di grandi cambiamenti per il Festival Internazionale del Cinema d’Animazione di Annecy. Dopo un lungo periodo, oltre un decennio, di direzione artistica di Serge Bromberg, il testimone è passato al ciccio canadese Marcel Jean, ed è il direttore artistico colui che lascia l’impronta sulla direzione che prende il festival. Non solo, il luogo principe della manifestazione, il centro Bonlieu, quest’anno è in ristrutturazione, e ci si chiedeva se la mancanza di un centro di aggregazione primario avrebbe influito sullo svolgimento. A sinistra, il manifesto dell’anno. La macchia non significa niente.
Dopo la settimana festivaliera, posso dire che non c’è stata una vera cesura col passato, ma l’impressione generale è che ci sia stata una correzione di rotta. I programmi speciali erano di meno e più curati, l’attenzione ai rapporti coi grandi studios europei, americani e giapponesi più evidente, mentre, all’opposto, è resa esplicita la ricerca della sperimentazione. Traspare anche una maggiore volontà nel coinvolgere la gente del luogo. D’altronde, alcuni schemi non cambiano: sezioni di corti, lunghi, tv e programmi speciali, e una nazione dell’anno (quest’anno la Polonia). Ciò che mi è stato trasmesso, comunque, è stata una ventata di freschezza. A Bromberg è impossibile non volere bene ma l’avvicendamento, oggettivamente, ci voleva.
Dal punto di vista logistico, invece, qualche sbavatura di troppo. Le proiezioni iniziate in ritardo son diventate quasi la norma, c’è stato qualche errore tecnico di troppo (mascherini sbagliati, suono che va via, luci che si accendono in sala…) e il primo giorno una scelta organizzativa assurda poi ritrattata ha rischiato di combinare un bel casino. La sala principale al posto del Bonlieu, la Haras, è una struttura tirata su in fretta con discreta qualità audiovisiva, ma sedie scomodissime. Oh, le mie povere chiappette! E la mancanza di un luogo di aggregazione si è un po’ sentita.
Infine, debbo dire di non essere stato molto d’accordo coi premi assegnati dalla giuria, ma vabbé, alla fine non è così importante, almeno finché non si parla di film coi bambini sudanesi.
Ma detto questo, cosa c’era da vedere? Tracciamo una rassegna generale. I lunghi in concorso non erano un granché. Maccome, tutto il pippotto sul bel festival e poi inizi così? Eeeh, così va la vita! In realtà ne ho visti solo tre, due dei quali erano anche discreti (Ma maman est en Amérique elle a rencontré Buffalo Bill – a destra-, e O apostolo) e il terzo a me non è piaciuto ma ad altri sì (Jasmine), ma il resto della selezione era, come dire, poco ispirante. Una leggenda indiana (Arjun, the warrior prince)? Un film con gli animali africani (Khumba)? Pinocchio di D’Alò?!? Il premio principale è stato vinto da Rio 2096: una historia de Amor e Furia, che non ho visto, e boh, non credo di averne intenzione.
I film fuori concorso erano in generale più interessanti. Ne parlerò in seguito in maggior dettaglio, ma cito come meritevoli di attenzione El Santos vs la tetona Mendoza (sic!), messicano folle underground, After School Midnighters, un raro esempio di film giapponese un po’ fuori dagli schemi, e Persistence of Vision, documentario su Richard Williams.
La selezione dei corti, in generale, è stata invece di buon livello. C’è stata qualche inevitabile caduta di stile, quei corti che dici “ma come è possibile che questa merda abbia passato la selezione?!?” e un programma, il quinto, con troppe opere pesanti una dietro l’altra, ma ho visto molte cose che mi son piaciute. Il vincitore del Cristallo è stato Subconscious Password di Chris Landreth (a sinistra), già premiato anni fa per Ryan; il secondo premio è andato, un po’ a sorpresa, al russo Obida (una bambina a cui sale la carogna); il terzo al solito estone surrealista Kolmnurga afäär. Ve l’ho detto che non ho condiviso molto i premi, vero? I miei preferiti (ne parlerò diffusamente in seguito) son stati Futon di Yoriko Mizushiri, sensuale e avvolgente, e Trespass di Paul Wenninger, duro e sperimentale.
Quest’anno ho deciso di non vedere corti fuori concorso e di scuola, ma ho visto parecchie rassegne. Tre erano i temi principali; il primo è quello dell‘animazione polacca che, nonostante suoni molto Corazzata Potemkin, è una scuola molto importante che tratta molti temi differenti, sebbene, dobbiamo ammetterlo, tendenzialmente un po’ deprimenti. In particolare il programma dedicato al grottesco mi è parso molto azzeccato.
Il secondo filone è stato un ciclo sull’animazione ai confini; in tempi di effetti speciali in CG che pervadono i film dall’inizio alla fine, è un po’ difficile definire cosa sia “animazione”. Qualcuno ci ha provato dichiarandola come uno “state of mind” piuttosto che una tecnica. ma il dibattito è aperto. Questa serie di programmi si occupava di esplorare i nuovi territori tracciati dall’animazione, rinfocolando appunto la domanda. La rassegna è stata un po’ impegnativa (avete paura di un corto chiamato Stroboscopic noise? Se no, dovreste), ma ricca di visioni interessanti.
All’opposto, il terzo gruppo di programmi è stato quello dei film buffi: cinque programmi, ovviamente di grandissimo successo di pubblico, con rassegne dei corti più divertenti, e relativa elezione finale de “il corto più buffo di sempre”. Se ve lo chiedeste, ha vinto il solito KJMG n.5 (a destra): visto ormai decine di volte, è incredibile come continui a far ridere. La selezione era quasi tutta già vista, ma il piacere di rivedersi qualche folle Tex Avery, o Puppet Boy, o L’homme à la Gordini è impagabile.
Infine, ho visto anche qualche programma televisivo, ma ammetto di averli pisolati un po’ troppo e le uniche segnalazioni che mi sento di fare sono Uncle Grampa di Cartoon Network, il graziossimo Tom & the bee queen e il già visto episodio della sit-com non animata Community sui videogame a 8 bit.
Un cenno anche alle anteprime: personalmente, non mi preoccupo molto di vedere cose che arriveranno in Italia dopo qualche settimana. Che me ne faccio di bullarmi di aver visto Monster University prima degli altri? Comunque, a parte il film Pixar, c’era in anteprima anche Despicable me 2 e il film di Oggy and the Cockroaches. Degno di nota anche un programma su un corto in bianco e nero di Mickey Mouse ritrovato in cui pare abbia messo mano Walt Disney in persona: Get a horse! Un anno quindi piuttosto ricco, da questo punto di vista.
Quest’anno, alla fine, ho assistito a 29 programmi in sei giorni, ma col fatto che io e il mio entourage abbiam fatto più vita sociale del solito, alla fine ero proprio stremato e alcuni programmi non li ho seguiti con la dovuta concentrazione. Che fare? Vederne di meno? Fare meno bisboccia la sera? Dormire durante le proiezioni come quest’anno? Imbottirsi di stimolanti? Beh, lo scopriremo.
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