E infine, una rassegna di roba varia che ho visto e che ritengo che valga la pena di essere citata. In alcuni casi perché, pur non avendo vinto premi, sono meritevoli di citazione, in altri casi perché è roba talmente brutta o scema che è uopo tenersene alla larga, o deriderla, o tutti e due.
Dai lungometraggi:
Piano no mori (La foresta del piano) di Masayuki Kojima: lungometraggio giapponese, un bel polpettone shoonen, è interessante per la struttura che si innesta sugli anime sportivi (gioventù, rivalità, passione, talento, impegno…) per parlare di pianisti classici. Mancano solo le mosse speciali, per il resto sarebbe quasi indistinguibile da una versione impomatata di Holly e Benji. L’ho visto il lunedì mattina, prima visione dell’annata, ed è stato un buon inizio.
Moonbeam bear and his friends di Mike Maurus (Germania): al contrario, questo l’ho visto di venerdì, quando la settimana ormai scemava e si inizia a pagare qualche errore di programmazione delle visioni. Ci si ritrova ad affrontare quindi scelte in cui il meglio è la storia di un orsetto che amava molto la luna, tanto che la ospita a casa sua e la batte a dama. Credo di aver avuto un enorme gocciolone di sudore sulla nuca per tutta la proiezione, ma in fondo si tratta di un film nella tradizione teutonica pedagogica, ed è abbastanza tenero e apprezzabile da un bambino.
Dai cortometraggi in concorso:
Far away from Ural di Katariina Lillqvist (Finlandia): signori, il vincitore del premio “Corto molesto” dell’anno! Far away from Ural è un’infinita (almeno, secondo la percezione dello spettatore) accozzaglia di sgraziate metafore visive sulla guerra civile finlandese. Pur ammettendo che l’ignoranza sull’argomento possa avere inficiato la visione (prima di questo corto ignoravo che esistesse una guerra civile finlandese!), 25 minuti di signori con una valigia nel culo sono intollerabili. Purtroppo non sono riuscito a dormire.
Štyri (Quattro) di Ivana Sebestova (Slovacchia): lo schema è già stato visto: narrare la stessa storia da quattro punti di vista differenti, facendo in modo che ogni successiva ripetizione aggiunga qualche dettaglio e getti una nuova luce sulle precedenti. Non è un’idea nuova, certo, ma è sempre affascinante, e in più Styri è costruita in uno stile grafico particolarmente efficace, non lontano da Tamara de Lempicka. Speravo molto in un premio per questo lavoro.
Chainsaw di Dennis Tupicoff (Australia): un altro candidato del pubblico (cioè, mio) ad un premio, è questo lungo lavoro principalmente in rotoscopio. Chainsaw è una storia quasi alla Hemingway, di tori e toreri, di uomini virili che abbattono alberi, di tradimenti, di belle donne e di mezzuomini. Il rotoscopio lascia sempre un po’ di amaro in bocca, è una tecnica che appare paradossalmente un po’ artificiale, ma è un corto che si segue con piacere.
Kizi Mizi di Mariusz Wilczynski (Polonia): sembra quasi un corto polacco delle barzellette. Lungo oltre 20′, è un’incomprensibile storia di un gatto e di un topo, disegnata in maniera, ehm, “rudimentale” che mostra più volte le stesse situazioni, a volte con alcune variazioni e a volte no, il tutto con una musica stridente e volutamente fastidiosa. Eppure, contriariamente ai miei compagni di visione, non me la sento di candidare Kizi Mizi al premio “Corto Molesto” perché col proseguire della visione con la ripetizione di scene inizia ad assumere un ritmo avvolgente, quasi ipnotico. Non è un lavoro privo di interesse, benché sia assai ostico.
Paradise di Jesse Rosensweet (Canada): toh, il vecchio tema del libero arbitrio e della società opprimente che ci costringe in ruoli predefiniti! Paradise sfrutta una tecnica particolare, è costruito con pupazzetti metallici agganciati ad una base (credo che ci fosse una linea di giocattoli simili, in passato) che li fa scorrere, appunto, come se fossero delle rotaie in percorsi prestabiliti. Applicando la tecnica a un’ambientazione “marito che lavora, donna a casa” la metafora è evidente. Il finale è inoltre particolarmente pessimista.
Dai corti fuori concorso:
Corte eléctrico di Maria Arteaga (Colombia): segnalo questo lavoro colombiano, anche se alla fine non ho idea se mi sia piaciuto o meno. In un bel 3d pittorico, si narra la storia di un condominio moderno visto dal tipo che lava i vetri (per qualche strana ragione, un prestante figaccione). Ci sarà poi l’immancabile serial killer a dare un tocco di brivido. Corte eléctrico è ben disegnato, la narrazione è fluida e si segue con piacere, ma lascia una sensazione di “embè?” che è proprio fastidiosa.
Kodomo no keijihogaku di Koji Yamamura (Giappone): il nuovo lavoro dell’autore del pluripremiato Atama Yama non è passato in concorso principale, ed è proprio un peccato perché l’ho trovato migliore non solo di molti corti in concorso, ma forse anche dei precedenti lavori di Yamamura. Kodomo no keijihogaku, “Metafisica del bambino”, è una raccolta di brevissime scenette, ognuna delle quali rappresenta con una metafora visiva un tipico comportamento infantile. Non tutte sono immediatamente comprensibili (magari i bambini giapponesi funzionano in modo differente!), ma il corto, anche se disegnato in modo un po’ schematico, funziona.
Majakovsky – Drei Liebesgeschichten (Majakovsky – Tre lettere d’amore) di Svetlana Filippova (Germania): grazie a questo corto, abbiamo imparato che rappresentando eventi insignificanti della vita di un poeta in un film particolarmente brutto e molesto è possibile rovinare la fama del poeta stesso. Per me, ora Majakovsky è un pessimo poeta.
Ça ne rime a rien di Claude Duty (Francia): ah, che esperimento interessante! Lo stesso filmato, quasi completamente astratto, viene mostrato quattro o cinque volte, ogni volta con una musica differente. L’accostamento tra immagini e musica genera quindi ogni volta sensazioni completamente differenti, anche se le immagini sono proprio le stesse. Arte concettuale.
E ora, qualcosa di completamente diverso (dalla TV):
Rick and Steve the happiest gay couple in the world di Q. Allan Brocka (USA): una sit-com gay costruita animando i playmobil? Ha senso? Eccome se ne ha! Rick and Steve è spassosa, ricca di belle battute, con umorismo che passa dall’auto ironia del mondo gay all’humour nero alle più becere battute pecorecce, e tutto in puro stile sit-com, con ritmo e personaggi chiaramente definiti. Una scoperta davvero interessante.
Wanted di Woonki Kim (Corea del Sud): la vita in una cittadina coreana scorre normalmente, tra piccole antipatie, personaggi pittoreschi e la voglia di tirare avanti in un modo o nell’altro, quando una strega provoca una terribile inondazione (no, non è Angelina Jolie). Appare come una specie di favola, ma proseguendo la visione è chiaro che si parla di un vero tifone arrivato in Corea, con evidenti accuse a come sono stati gestiti gli aiuti da parte delle autorità. Questa contaminazione tra fiaba e realtà getta su Wanted una luce migliore di quello che sembra inizialmente.
Bytis: Lamsi and Anthony Evans di Thomas B. Edgar (GB): non credo di aver mai visto a un festival nulla di peggio di questo programma. Inconcepibile. Un pupazzetto di agnello, mosso probabilmente a mano, interagisce con un ospite reale come accadeva nel Muppets Show, ma senza battute lontamente degne, senza animazione lontamente passabile, senza un briciolo di gusto nei dialoghi. Quasi illuminante!
Torniamo ai corti, questa volta di scuola:
Straying Little Red Riding Hood di Pecoraped (Giappone): parodie di favole ne abbiam viste tante, anzi troppe, ma quando sono fatte con un gusto per la contaminazione, con un’evidente spirito surrealista (Rabbit è il paragone più immediato), con la follia che hanno solo i giapponesi quando ci si mettono, ben vengano!
Black Dog di Dong-rack Son (Corea del Sud): triste corto coreano di un cane randagio che vaga per le strade. Potrebbe essere quasi definito come neo-realista per l’intento e per il tono con cui è narrato, e anche se non proprio originale Black Dog è a modo suo ben realizzato. Curioso, i cani in animazione funzionano meglio dei gatti.
L’amour m’anime di Chloé Mazlo (Francia) l’autrice di questo corto si mette in piazza e racconta alcuni episodi della sua vita (in particolare, quella amorosa) utilizzando una pletora di diverse tecniche di animazione. L’animazione al tempo dei blog, certamente, ma l’effetto patchwork, con la sola unità della protagonista, genera un corto di indubbio interesse.
E infine qualcosa dai programmi speciali:
Maa-aa-aa! di Chetan Sharma (India): primo corto del programma dei corti indiani, ha sbalordito un po’ tutti. Che nel 2006 si facessero ancora imitazioni del Disney classico, animando rodovetri con animaletti buffi e canterini, è una sorpresa. Che invece i risultati siano così terribili, in fondo era prevedibile.
Une autre histoire du cinema: che spettacolo! Cortometraggi muti degli albori del cinema (di animazione e non), con sua maestà Serge Bromberg che li accompagna con un pianoforte a coda! Peccato che, ehm, la combinazione è letale per le mie cellule vegliatrici (ammesso che esista qualcosa di simile, ma pazienza) e ho ronfato pesantemente per quasi tutta la proiezione…
Barry Purves: E infine, un programma speciale per intiero, quello dedicato a Barry Purves. La mia strada non si era mai incrociata con quella di questo animatore britannico, e sono andato a vedere la sua monografia un po’ dubbioso. Amo poco le monografie, di solito stancano perché gli autori capaci di dire tante cose diverse e dirle per bene sono davvero pochi. Ebbene, Purves è uno di essi: anche quando narrano trame un po’ stupidine come il Rigoletto, i suoi corti sono spettacolari, fatti con marionette espressive e ambienti sontuosi.
Sì, è finita. A chi è arrivato in fondo, in omaggio una suoneria con un animaletto buffo che scorreggia.