Una volta avevo un blog, e i post meno popolari erano i report su Annecy. Quindi, dopo tre anni di silenzio, la cosa migliore è tornare con questi, no? Benritrovati, genti!
La crisi del cortometraggio e l’avvento dei CIAPPI
L’elemento più notevole del festival di animazione di Annecy 2017 è un concorso di cortometraggi decisamente mediocre. Niente scuse del tipo “il concorso non era male, ma mancavano i corti di grande spessore” o “luci e ombre quest’anno ad Annecy”, la media è stata decisamente bassa. Abbiamo visto una quantità spaventosa di corti di una razza che io ho battezzato CIAPPI: Corto Indipendente Artistoide Parodistico (Purtroppo Involontariamente), ovvero quei cortometraggi che sembrano le parodie delle seghe mentali artistoidi: di solito in bianco e nero, senza una trama comprensibile, spesso senza dialoghi, in tecniche a volte astruse (pittura su vetro, schermo di spilli), con musiche dissonanti (rumore bianco o violini stridenti), occasionalmente con un tema “alto” (razzismo, guerra, violenze sui bambini etc.) trattato senza avere nulla da dire di interessante. Una bella fetta dei corti visti erano di questa foggia. Ouch.
La domanda è: nel 2017 i corti animati sono così o è stata la selezione del festival a seguire questa direzione? Difficile dirlo. E’ vero che l’animazione sta vivendo un periodo di ricchezza, vista la quantità di lunghi e serie TV che vengono prodotti, ed è probabile che chi esce dalle scuole di animazione si dedichi alle ricche produzioni invece che andare sull’animazione “di qualità” dei cortometraggi e seguire un percorso artistico personale. Non si fan soldi coi cortometraggi. Il fatto che i cortometraggi di fin d’ètudes sembra che siano freschi e ricchi di idee come non mai è un indizio in questa direzione. E infatti i sospetti sulle responsabilità di Marcel Jean, direttore artistico del festival, non sono leggeri (a sinistra, il malfattore). Ha abolito il concetto di comitato di selezione, ha fatto un pastrocchio ghettizzando i corti per bambini, quelli più sperimentali e addirittura quelli delle nazioni emergenti (non ci credo ancora!), e evidentemente sta dando un’impronta molto forte sulla sua visione del cortometraggio. Ma sono solo ipotesi: probabilmente il modo migliore per dirimere la questione è andare a un festival differente e annusare che aria tira. Vedremo se ci riusciamo!
A parte i CIAPPI, comunque, non ci sono stati capolavori in concorso, ma sicuramente opere degne di essere menzionate. Il mio corto preferito è After All di Michael Cusak (a destra), che parla dei pensieri di un uomo che riordina la casa della madre morta e si confronta con lei; dal tema curiosamente simile Pépé le morse di Lucréce Andreae, in cui una famiglia rende omaggio al nonno morto che aveva la passione della spiaggia in tutte le stagioni; l’unico corto tridimensionale dell’anno, Aenigma di Antonios Ntoussias e Aris Fatourus, è un bellissimo 3d con grande profondità che esplora in animazione quadri che definirei più metafisici che surrealisti. Un gran bel lavoro. Cito infine Wednesday with Goddard di Nicolas Menard, un’assurda e inconcludente storia di ricerca di Dio ricca di gag e invenzioni visive.
Il vincitore del cristallo è un musical svedese, Min Börda, di Niki Lindroth Von Bahr, che parte bene con una scena surreale di acciughe solitarie in un albergo, ma poi si perde nelle successive cercando di dirci qualcosa ma senza riuscirci. Cosa? Non lo so! Notevole anche il fatto che pure il secondo posto (Kotu Kiz di Ayce Kartal), il terzo (L’Ogre di Laurène Braibant) e il premio speciale Xiberas (Splendida Moarte Accident di Sergiu Negulici) non sono CIAPPI. Speriamo che la giuria abbia dato un segnale per la selezione dell’anno prossimo.
Lungometraggi: la riscossa del Giappone
Nove lungometraggi in concorso non sono pochi se li si vuole vedere tutti, e io ci ho provato. Solo in uno dei nove me ne sono andato dopo mezz’ora da tanto mi faceva cagare, e, indovinate un po’? E’ stato il vincitore! Ma a parte questo, il concorso dei lunghi è stato molto variegato e interessante. Diverse cose non mi sono piaciute, ma è stato un concorso piacevole da vedere, e vale la pena menzionare tutti i film.
In this corner of the world di Sunao Katabuchi prende uno dei temi cari ai giapponesi, Hiroshima, e la mostra da un punto di vista differente, di una ragazza, giovane moglie, impegnata nella sua quotidianità a sopravvivere alle ristrettezze della guerra. E’ un film delicato, pastelloso, con una prospettiva anomala. Pur imperfetto nella sua realizzazione (un po’ troppo lungo, un finale sbagliato, disegni non sempre all’altezza) vanta una buona regia, personaggi ben costruiti, una narrazione molto ben strutturata e tanta empatia per la piccola Suzu. Mi è piaciuto molto. Secondo me lo vedremo in Italia, se vi capita dategli una chance (nota a margine: si notava come, tuttavia, i giapponesi non sembrano prendersi responsabilità per la guerra a cui hanno partecipato e del loro periodo militarista, ma solo vedersi come vittime)
Ethel and Ernest di Roger Mainwood parla della vita di una coppia, i genitori dell’autore del fumetto da cui è tratto il film, nell’Inghilterra dagli anni ’30 ai ’70, testimoniando l’ascesa della classe media nel dopoguerra. E’ moderatamente divertente, molto british, disegnato con delicatezza, ma anche veramente troppo impalpabile e tutto sommato quasi inutile.
Tehran Taboo di Ali Soozandeh (a destra) è un film in rotoscopio che parla della vita delle donne nell’Iran contemporaneo: prostituzione, soprusi dei maschi, corruzione, aborti, schiavismo. Nonostante il tema pesante, l’intreccio delle storie delle varie protagoniste è ben congegnato e privo del vittimismo e il “mugugno” in cui è facile cadere in situazioni simili. Perché farlo in animazione? Per creare un minimo di distacco. Funziona, tutto sommato.
Big Fish & Begonia di Xuan Liang e Chun Zhang è il primo kolossal di animazione cinese. E’ un miscuglio di leggende con divinità ed esseri soprannaturali a stufo, con dei ex-machina (letterali) uno dietro l’altro, in animazione a tratti in effetti spettacolare. Tuttavia, la storia confusa e poco interessante, la sceneggiatura a tratti pretestuosa e una regia poco incisiva lo rendono complessivamente un prodotto piuttosto scarso, ma è un ottimo indizio del fatto che in Cina c’è fermento anche nel’animazione.
Loving Vincent , di Dorota Kobiela e premio del pubblico, vince anche il premio masochismo. Questa rivisitazione degli ultimi giorni di Van Gogh in stile Citizen Kane è stata fatta con 35.000 dipinti ad olio fatti da uno stuolo di schiavetti, che hanno riprodotti le immagine prima filmate in uno stile che scimmiotta Van Gogh. L’effetto è identico a quello del rotoscopio, quindi con un’animazione che è molto fluida ma appare “strana” e innaturale. Sfugge il senso dell’operazione, se non quello più fine a se stesso di esperimento, e il lato visivo stanca molto rapidamente, rendendo la trama, che peraltro non brilla per incisività, difficile da seguire. Mi è piaciuto poco, ma gli animatori in sala ne sono andati matti.
A silent voice di Naoko Yakama (a sinistra) è stato il mio film preferito. Ha premesse piuttosto consuete, nel tipico mondo scolastico giapponese, ma la storia di bullismo nei confronti di una ragazza sorda prende rapidamente una piega imprevista molto interessante, mostrando il punto di vista del bullo; in particolare diversi personaggi sono ben approfonditi, lontani dai soliti stereotipi, e la trama affronta argomenti come l’incomunicabilità, la mancanza di figure genitoriali, il suicidio, il disorientamento dei ragazzi con molto acume e grazia. Un piccolo gioiello, sono convinto che verrà distribuito anche in Italia.
Lou over the wall di Masaki Yuasa è stato il vincitore. E’ la versione sfigata di Ponyo, che già non è certo il capolavoro di Miyazaki, disegnata in modo sgraziato e raccontata in un modo che mi ha irritato. Avrò sbagliato io, d’altronde è noto che NCUCDC.
Zombillénium di Arthur De Pins e Alexis Decurd (a destra) è stato il vincitore morale e lo sconfitto dell’anno. Vincitore, perché code lunghe come per questo film non si sono mai viste, e le ovazioni alla fine del film han fatto venire giù il cinema. De Pins, d’altronde, è un beniamino di Annecy, è cresciuto qui. Però il film non ha vinto niente! Questa storia di zombi e altri mostri molto inusuale ha un 3d originale, a cui serve un pochino per abituarsi ma che poi si rivela efficace, ma anche una sceneggiatura piuttosto bucherellata. 80′ a palla di cannone, molto divertimento: una produzione per me riuscita.
Infine, Animal Crackers di Tony Bancroft & c. , è un mediocre e confuso prodotto in 3d, probabilmente tra i nove in concorso l’unico privo di elementi di interesse. Fatevene una ragione, il circo fa cagare a tutti!
Fuori concorso, ci tengo a segnalare un film coreano molto particolare, I’ll just live in Bando di Yong Sun Lee (a sinistra), che parla delle vicissitudini di un padre di famiglia, insegnante precario e attore fallito, e i suoi tentativi di elevare la sua condizione sociale. Come molti film animati coreani, ritrae una società crudele e classista, in cui il più forte soverchia il più debole, ma in questo caso c’è anche molto alleggerimento. Ho visto anche Cars 3, ma l’ho già dimenticato, e dovreste farlo anche voi invece di andarlo a vedere. L’anteprima di Coco, il successivo film Pixar, di cui abbiamo visto un 20′, invece promette un film più interessante e originale.
La Annecy Experience nel 2017
Sì, ma ti sei divertito? Un casino. Non ci posso credere che alla mia prima esperienza anneciana io avessi 29 anni, più o meno come i pivelli che vedo in giro e che mi sembrano piiiiiccoli, e lo spasso non diminuisce in nessun modo, fuori e dentro le sale cinematografiche. Dopo tutti questi anni, però, ci sono alcuni segnali sul fatto che il rituale vada un po’ cambiato. La pizza a Courmayeur è stata troppo sottile e insapore, la sosta all’autogrill dopo il MonteBianco appare sempre più superflua (siamo partiti da venti minuti!), non abbiamo visto per strada le vacche savoiarde e ormai abbiamo una lista di ristoranti in cui “dobbiamo andare anche quest’anno” che è troppo lunga e finisce che sperimentiamo pochi nuovi locali. Ho sofferto un po’ la necessità morale di vedere tutti i lunghi in concorso, giacché ero già certo che alcuni non mi sarebbero piaciuti (e avevo ragione), e mi è rimasta la voglia di vedere qualche programma minore. Sulla via del ritorno abbiamo fatto una strada diversa, passando dal Moncenisio (e mettendoci un’eternità, ma questa è un’altra storia…) anche a mo’ di segnale di rottura. Annecy 2018 la dedicherò alla sperimentazione…e anche se godermi di più questa settimana mi pare impossibile, vale la pena provarci!
Ehi, ma lo sapete che è passato il decimo anniversario di questo trascurato blog? Belàn! Sapete, Suor Pier Antida usava l’espressione “belan”, e a me ha sempre fatto un po’ ridere che una suora dicesse le parolacce mascherate. Immaginate il papa che dice “porca puzzola” o “vaffanbrodo”. Non è la sua cosa. Ma io divago.
Beh, l’anniversario sarebbe stato a ottobre, ma festeggiamolo adesso. Stappo la sciampagna, mi lavo con la spuma di sciampagna, vado a fare un giro in campagna, faccio una campagna elettorale e…chissà. Magari qualcosa torna.
Forse nell’introduzione generale son stato un po’ troppo severo coi cortometraggi in concorso dell’edizione 2014 del festival di Annecy, tacciandoli di eccesso di tecnicismo e di poca voglia di intrattenere lo spettatore. In effetti a ben vedere di cose interessanti ce ne sono, come sempre: vediamone un po’.
365 di Greg McLeod, Myles McLeod
365 è uno di quei corti che nascono da un’idea dell’autore nella forma di una scommessa con se stesso, per vedere se riesce a portarla a termine. In questo caso, si tratta di fare un micro-cortometraggio della durata di un secondo al giorno per un anno, 365 secondi, 365 microcorti in totale. Alcuni prendono spunto da quel che succede, altri sono semplici ideuzze. Ovviamente non tutto è di buona qualità, ma l’impressione collettiva del lavoro è positiva. Curiosità: i filmati che indicavano come votare per il premio del pubblico usavano 365 come esempio. Chissà quanti l’hanno votato per questo!
Beauty di Rino Stefano Tagliaferro
Mi dicono che Beauty è tempo che gira su Youtube. Io non l’avevo visto, ma mi dicono anche che è da vedere sul grande schermo, quindi forse è stato meglio così. L’idea è eccellente: prendere alcuni capolavori di arte figurativa (con predilizione per i manieristi e i preraffaeliti) e animarli. Di solito l’animaizone è un braccio, una testa, poco di più, ma basta poco per aggiungere vitalità. La realizzazione è discreta (in alcuni casi più complessi si nota un po’ di distacco nelle parti animate), ma soprattutto secondo me si poteva osare qualcosa di più: animare qualche quadro di meno, ma costruirci intorno un discorso che andasse oltre il gesto tecnico.
Grace Under Water di Anthony Lawrence
Corto a pupazzi australiano molto realistico ma oltre la uncanny valley, parla di come una matrigna (una volta tanto la “buona” della situazione) riesca a costruire un rapporto con la sua figliastra mediante una gita in piscina e ciò che si prova sott’acqua. Tratto da un racconto, è uno dei pochi corti visti quest’anno che raccontano una storia dall’inizio alla fine, ed è anche prezioso per questo, ma a me ha colpito molto tecnicamente per la qualità dell’animazione e dei pupazzi utilizzati.
Hasta Santiago di Mauro Carraro
Il Cammino di Santiago è percorso per tante ragioni, e una di queste, apparentemente, è di farci un corto sopra. L’autore è italiano, ed era accanto a noi mentre mangiavo cozze al roquefort e parlavo male di questo film, quindi mi ripeterò senza paura: l’ho trovato debole e inconcludente, troppo episodico e senza mordente. Qualche bella scena e belle musiche, però (tanto che ha vinto il premio apposito)
Hipopotamy di Piotr Dumala
Tipico corto “contestuale”, cambia significato se si scopre di cosa parla leggendone o facendoselo spiegare, poiché è pessoché impossibile dedurlo solo guardandolo. Alcune donne fanno un bagnetto con i loro bambini, finché non arrivano degli uomini che le attaccano e uccidono i bambini. Solo allora queste donne si concederanno sessualmente. WTF? E’ una rappresenzazione etologica degli ippopotami, resa con gli umani. Simpaticoni, gli ippopotami!
Invocation di Robert Morgan
Ho il sospetto di aver già visto questo corto l’anno scorso nel programma dedicato a Robert Morgan, ma non ne sono certo. E’ un corto che rispetta i canoni di Morgan: stop motion, compenetrazioni di carne e altri oggetti, impatto visivo molto forte, senso di schifo. Sono visioni che lasciano il segno, anche quando lo spunto (un pupazzo da stop motion che prende vita e si vendica sul suo regista) non è così brillante.
La Petite Casserole d’Anatole di Éric Montchaud
Anatole va in giro con una piccola casseruola rossa, e tutti lo prendono in giro. Incontrerà poi una signora, anche lei fornita di casseruola, che gli insegnerà che si può vivere serenamente con la propria casseruola. Il “metaforone” è evidente, parla di disabilità nel modo che ognuno preferisce (a me è venuto in mente la dislessia, chissà perché), ma lo fa con delicatezza e senza finta pietà, con un leggero umorismo e con un design grazioso e piacevole. Un bel lavoro, e mi ha dato l’occasione di ripetere molte volte la parola “casseruola”, che fa ridere.
Le Sens du toucher di Jean-Charles Mbotti Malolo
“Jean-Charles Mbotti Malolo” è il vincitore del premio Jimmy Bobo di Annecy 2014, e solo per questo andrebbe citato, ma questo corto offre anche qualcosa di più. Narra di una storia d’amore tragicomica tra sordomuti, con lui che odia i gatti e lei che li ama e lui che si trasforma in una bestia (letteralmente) quando si parla di felini. La trama è scioccherella, ma ci sono dei momenti di intimità tra i due, con giochi di sguardi, sfiorarsi le dita, piccoli gesti, che sono proprio toccanti e ben pensati.
Moulton og meg di Torill Kove
Torill Kove ce lo ricordiamo per il delizioso The danish poet, vincitore di un premio Oscar come cortometraggio, e questo suo lavoro non si discosta molto come toni e come realizzazione, in un bello stile pulito ed elegante, anche se il tema è assai diverso. Parla di una bambina norvegese negli anni ’60, figlia di due genitori un po’ fricchettoni, e del suo desiderio di essere “normale”. Normale non lo sarà mai, ma si renderà conto di come nessun altro in fondo lo sia, anche grazie all’antenata delle orrende bici tipo Brompton oggi di moda. Molto grazioso, trovo che avrebbe meritato una menzione, ma d’altronde anche la sua opera precedente non era stata premiata. Stolti!
Pickman’s Model di Pablo Ángeles
Ogni tanto qualcuno di prova ad adattare Lovecraft in animazione o anche dal vivo, ma proprio non funziona. Questa realizzazione di un racconto di Lovecraft (peraltro neanche uno dei migliori) soffre dell’usuale difetto: gli orrori cosmici dello scrittore di Providence sono tali perché indescrivibili; tentare di visualizzarli li sminuisce, ma d’altronde non mostrarli, lasciarli solo evocati, non funziona nemmeno. Questo adattamento a pupazzi, comunque, sarebbe realizzato discretamente e ben sceneggiato, a parte quello di cui ho parlato.
Pilots on the Way Home di Olga Parn, Priit Parn
Oh, gli estoni! Hanno avuto il loro momento di gloria qualche anno fa, quando sembrava che la colorata e surreale animazione estone avrebbe salvato il mondo. Poi ci son stati i 46′ di Life without Gabriella Ferri, un po’ di ripetitività, e son stati ridimensionati. Tuttavia un corto di Parn lo si aspettava con un po’ di curiosità: diciamo che accanto all’approccio surreale sembra ci sia un po’ di fissazione sull’erotismo, a tratti anche un po’ incomprensibile. Niente di che, diciamo, ma una certa mano dietro c’è.
Sneh di Ivana Ebestova
La Ebestova aveva realizzato il bel Four, qualche anno fa, storia raccontata da quattro punti di vista. Il suo stile qua è simile e inconfondibile, chiaramente ispirato da Tamara Lepika, e ci racconta una leggenda di una ragazza che aspetta il suo bello che fa l’avventuriero in giro per il mondo. Ma è proprio così? Meno riuscito del suo lavoro precedente, è però uno di quei corti che lasciano qualche dubbio, di cui si parla per scambiarsi opinioni. E’ un buon segno.
Sangre de unicornio di Alberto Vazquez
El sangre de unicornio! Con un bell’heavy metal di sottofondo assistiamo alle trucidi imprese di orsacchiotti di pezza guerci e crudeli che vogliono impossessarsi del sangue dell’unicorno. Lo stridio tra stile un po’ lezioso, la musica e i vari elementi così accostati generano un mescolone che funziona, fa ridere ma è drammatico, è nonsense ma in qualche modo prende. Uno dei lavori migliori dell’anno, per me.
Simhall di Niki Lindroth Von Bahr
Forse il premio “machecazz…” dell’anno, Simhall è una curiosa storia svedese a base di pupazzi con animali antropomorfi, in cui una banda di giovinastri rende difficile la giornata di un inserviente di una piscina, già complicata da problemi all’impianto. La narrazione è lenta, dilatata, quasi bergmaniana, alcune azioni e qualche deviazione dalla trama principale appaiono prive di senso e il finale rimane sospeso. Eppure, superato il momento di straniamento, in qualche modo questo corto funziona. Certo, se devo scegliere un pupazzo svedese opto per Puppet Boy.
Wonder di Mirai Mizue
Mizue non inventa niente di nuovo, ma lo fa bene: il suo lavoro è un astratto con immagini di tipo “cellulare”, biomorfi non lontani dall’estetica di Mirò, con molte simmetrie e molti colori, il tutto in movimento con la musica. Esattamente come in 365, il suo lavoro è di 365″ ed è stato girato in un anno, ma non ha la pretesa di essere un diario. Funziona bene.
E ora qualcosa uscito dal concorso dei corti sperimentali:
Box di Tarik Abdel-Gawad
Un’esperimento forse più tecnico che artistico: su due braccia meccaniche sono montati due schermi. Viene dimostrato come muovere queste braccia meccaniche e contemporaneamente gestire il contenuto dei due schermi in modo da dare coerenza al tutto, simulando profondità o altri effetti. Appare evidente che si tratta di un’installazione poi filmata: in ogni caso, è grazioso ma una pura curiosità.
É in Motion No.2 di Sumito Sakakibara
Questo corto è stato proiettato muto, muto nel senso di totalmente privo di sonoro. Mi han detto che in altre proiezioni si sono scusati per la cosa, e non era pensato così…eppure funziona! Si tratta di una lunghissima (oltre 10′) panoramica con lenti movimenti di macchina da destra a sinistra, che inquadra scenari progressivamente sempre più complessi in cui, come dire, “succedono cose”: c’è una balena spiaggiata, bambini che giocano nella neve, un circo un po’ inquietante. Piccole animazioni ripetute costellano questo scenario, e la concentrazione dello spettatore è rapita dallo sforzo di cogliere tutti i particolari o farsi ipnotizzare da qualche ripetizione. La mancanza di musica aiuta, in questo senso, sembra proprio di vedere un panorama. Per qualche ragione, mi ha ricordato il classico Tango di Zbigniew Rybczynski.
Gli immacolati di Ronny Trocker
Nonostante il nome dell’autore, è un corto italianissimo, che parla del difficile rapporto tra un campo nomadi e una “tranquilla” cittadina del nord Italia, che culmina in una violenza bestiale di gruppo con le autorità impotenti o forse compiacenti. Banalotto come spunto, forse più da fiction di Rai1 che da corto sperimentale, ma ben realizzato con una narrazione pacata fuori campo fatta solo di piani sequenza di paesaggi quasi sempre vuoti e un po’ squallidi, con persone che compaiono solo nel finale.
Portrait di Donato Sansone
Questo corto è simile e complementare a Beauty, in concorso: ritratti ripresi lentamente con piccole animazioni. La differenza sta nel fatto che sembrano ritratti di Francis Bacon: distorti, con parti mancanti o fluttuanti, in generale resi brutti tramite qualche artefatto. L’effetto è curioso, probabilmente più intrigante della sua controparte “bella”, ma anche questo si esaurisce come curiosità abbastanza nel breve.
Virtuoso Virtuell di Thomas Stellmach, Maja Oschmann
Ultimo ma non meno importante, questo lavoro astratto segue uno dei grandi filoni dell’animazione astratta, ovvero la rappresentazione della musica. Invece però del solito jazz o la solita musica elettronica, è stato scelto un pezzo classico, l’ouverture dell’opera L’alchimista di Louis Spohr, animata mediante con macchie di inchiostro che si espandono progressivamente. Si ottiene un’opera in cui musica e immagini sono ben compenetrate e si sostengono e arricchiscono a vicenda: un bel lavoro.
Next: ancora qualche visione sparsa e qualche considerazione a valle del tutto
Ogni tanto mi ricordo dei miei primi tempi ad Annecy, quando c’erano quattro lunghi in concorso e due o tre anteprime, e quindi vedere un film intero era un’occasione rara. Ormai, con 9 film in concorso, 9 fuori concorso e diverse anteprime e programmi speciali, è diventato impossibile vederli dal primo all’ultimo, se non rinunciando a tutto il resto. E’ un grosso cambiamento, è indice del fatto che i lungometraggi animati sono sempre più popolari e meno costosi da produrre.
Beh, io ne ho visti nove e vi parlo di tutti. Mettetevi comodi, iniziamo da quelli in concorso.
Cheatin’ di Bill Plympton è un classico film plymptoniano: muto, disegnato tutto di persona da lui nel suo stile cartoonesco al tratto, con alcune gag di “trasformazione”, a tratti anche un po’ di schifino, è però venuto meno bene dei suoi lavori precedenti. Parla della storia di una donna e del suo marito che la tradisce (per vendetta?) e di come lei userà la tecnologia per riaverlo almeno in parte. La trama è un po’ confusa, non studiata benissimo, ma ci sono alcune sequenze memorabili (in particolare una serie di espressioni del marito da antologia e una bella gag sul cuore della donna). Plympton in persona vende disegni e memorabilia per finanziare i suoi film. Bravo ragazzo.
Lisa Limone ja Maroc Orange: tormakas armulugu (Lisa Limone e Maroc Orange: una rapida storia d’amore) di Mait Laas è affascinante soprattutto per il cortocircuito: un musical estone a pupazzi ambientato a Lampedusa, cantato in italiano e in francese, sul dramma dei migranti nei barconi. Io ho voluto vederlo solo per capire cosa poteva venir fuori, e tutto sommato, facendo la tara alla mediocrità delle canzoni, a qualche lacuna tecnica e al fatto che non si capisce come va a finire, mi son divertito e ho apprezzato. Il film è stato proiettato in 3d e la parte iniziale è in un ottimo 3d, poi han finito il budget e si torna a un lavoro standard e un po’ piatto. E’ piaciuto solo a me, devo ammettere.
Saibi (The fake) di Sang-Ho Yeon merita un discorso più articolato. Il regista è lo stesso del già apprezzato King of pigs visto qualche anno fa, e prosegue il tema già introdotto in quel film e comune a diversi film coreani: la rappresentazione di una società durissima in cui il più forte soverchia il più debole. In questo caso, lo spunto nasce da un villaggio che deve essere sommerso per la costruzione di una diga, e in cui alcuni truffatori fondano una chiesa per far donare alla gente del luogo i soldi che hanno ricevuto come compensazione. L’unico ad accorgersi di questo è un ubriacone violento e rozzo che picchia moglie e figlia, e a cui ovviamente nessuno darà ascolto. Esemplare il momento in cui quest’uomo dice a un suo conoscente, ex-amico: “Ma non sarà mica che il cattivo sono io?”: l’eroe titanico che lotta solo contro il Male è anch’egli parte del Male. La fede qua è solo superstizione, e nei rari casi in cui dona conforto è solo al prezzo di sangue e denaro. Pur essendo molto pesante, ho amato molto questo film, ma una domanda mi è sorta: perché farlo in animazione? Lo stile è perfettamente realistico, potrebbe essere girato dal vivo senza problemi. Eppure è qui la magia dell’animazione: vedere le persone come rappresentazione e non come attori rende il messaggio ancora più duro e sentito.
Giovanni no shima (L’isola di Giovanni) di Mizuho Nishukubo è un drammone storico giapponese, che parla dell’occupazione di un’isola a nord del Giappone nell’immediato dopoguerra da parte dei russi. Due bambini e la loro famiglia vivranno questo episodio storico in prima persona, conosceranno una ragazzina russa, fraternizzeranno con gli invasori, verranno deportati e così via. Di notevole l’incrocio con l’amatissima storia giapponese Notte sulla ferrovia galattica da cui prende il nome il titolo, e che attraverso i bambini interseca la trama. Graficamente piuttosto standard, è comunque un buon prodotto, a tratti anche commovente, mai noioso.
Asphalt Watches di Shayne Ehman e Seth Scriver è molto brutto, ma è un bel mistero. Visivamente molto brutto (volutamente, suppongo) narra la storia di un tizio e del suo compagno fantasma e il loro viaggio on the road attraverso il Canada. Il mistero sta nel fatto che la sala rideva molto, e io non capivo perché. Intendiamoci, esistono alcuni tipi di umorismo che non mi fan ridere (ad esempio, quasi tutto il cabaret basato sui tormentoni), ma li riconosco come tali, in questo caso invece proprio mi sfuggiva cosa ci fosse da ridere. Una gag tipica di Asphalt Watches è una musichetta tecno che parte con un piccolo tormentone, del genere “She’s gone to take the boiled hot dogs, she’s gone to take the BHD”. E parte della sala si spanciava. Son rimasto fino in fondo a cercare di capirci qualcosa, ma niente. Solo un brutto film.
Con questo concludiamo i film in concorso visti. Passiamo a quelli fuori concorso.
Koo! Kin dza-dza di Georgiy Daneliya e Tatiana Ilyina è un curioso prodotto russo, versione animata di un film da vivo del 1986 molto popolare in Russia. E’ una storia di fantascienza surreale, con qualche debito a Metal Hurlant e Moebius come atmosfere, ma chiaramente russo come spirito. E’ abbastanza divertente e si capisce come “Koo!” possa esser stato un tormentone in Russia negli anni ’80, ma si ha l’impressione (peraltro confermata da chi ha visto entrambi i film) che la versione dal vivo fosse più fresca e più divertente, anche forse per il fatto di essere dal vivo. Grazioso, comunque.
Resan Till Fjäderkungens Rike (Alla ricerca del re delle piume) di Esben Toft Jacobsen è un film danese dal regista di The Great Bear che avevo trovato discreto tre anni fa. Se consideriamo anche Disco Worms e Ronal the barbarian, altri prodotti danesi di buon livello, ho voluto vederlo per vedere i miei amici nordici cosa combinano. Cattiva idea. Ho dormito un sacco, ma ciò che ho visto era molto confuso e mal girato, e anche brutto. E’ comunque un metaforone sul concetto di accettazione della morte da parte di un bambino. Buona idea, pessima realizzazione.
Manieggs – Revenge of the hard boiled di Zoltan Miklosy è un film curioso. Estesticamente molto spartano, riesce però a trovare un suo stile interessante coi personaggi a forma di uovo con gli arti volanti rispetto al corpo, facendo anche un paio di gag su quest’ultima caratteristica. E’ una storia poliziesca, parodistica, molto citazionistica e sopra le righe, violenta, abbastanza divertente e costruito con una bella progressione. Trama molto assurda, direi volutamente, che trae spunto dal ceffo che vuole vendicarsi chi l’ha incastrato facendogli fare quindici giorni di carcere.
Infine, un film che è probabile che vedremo al cinema anche in Italia. Justin and the Knights of Valour di Manuel Sicilia è una produzione spagnola, con dietro Antonio Banderas, che però segue i canoni americani estetici e di trama. Risulta quindi piuttosto prevedibile, ma assai divertente, con qualche bel personaggio azzeccato e mai stupido. La storia è ambientata in un medioevo in cui i cavalieri sono stati banditi e hanno il potere gli avvocati, e un ragazzino vuol seguire le gesta del nonno cavaliere. Ci riuscirà? Conquisterà la sua bella? E che succederà con quel cavaliere cattivo che vuol conquistare la città? Eh già. E’ prevedibile, ma dategli una chance. Ci si diverte.
Un cenno a due film che non ho visto personalmente ma li ha visti qualcuno del mio gruppo: L’arte della felicità è un film italiano, e io degli italiani ho paura perché fanno troppo spesso gli artistoidi senza poterselo permettere. Su questo ho sentito pareri discordanti, ma un po’ son pentito di non averlo visto. Até que a Sbornia nos separe (Finché Sbornia non ci separi) non è un film sulle sbronze, ma una storia brasiliana su un paese isolato che si ricongiunge al mondo. Per concludere, poi c’è una serie di opere che non ha visto nessuno del mio entourage perché facevano paura. Qualche esempio: Minuscule – La Vallée des fourmis perdu, in ritardo vent’anni su A bug’s life o Z la formica; Last Hijack, storia di pirati somali, di moda quest’anno, pare;Truth has fallen, pittura su vetro sulle pecche del sistema giudiziario americano. Gulp.
Next: Cortometraggi in concorso e non. Non pioverà.
Ritorna questo blog dormiente per i tradizionali, odiatissimi post su Annecy.
Come sempre, luci e ombre nell’edizione del festival più amato dai Pinguini. Luci nell’evidenza di un cambio di rotta nella direzione artistica, nella cura dei programmi speciali, nell’introduzione di novità organizzative; ombre in un concorso che nei cortometraggi zoppicava un po’, nelle stesse novità organizzative che necessitano a tratti di un po’ di lubrificazione, e soprattutto nel lavoro della giuria, che ha sfiorato le vette di incompremsibilità del giudizio del 2009, malefico anno dei bambini sudanesi. Ultima ombra, seppure non imputabile all’organizzazione del festival, è stata l’ondata di caldo che ha reso Annecy una città torrida, con conseguente disagio per gli spettatori. A sinistra, il bel manifesto col caprone satanico che allietava gli schermi prima delle proiezioni.
Il più evidente cambiamento organizzativo, nel secondo anno di esilio dal Bonlieu, è stata l’eliminazione dei ticket cartacei, sostituiti da quelli elettronici, e una politica diversa per l’attribuzione dei biglietti: con meno biglietti a disposizione per la prenotazione, è più difficile conquistarli in anticipo, però mettendosi in coda prima dell’inizio delle proiezioni si entra facilmente. La conseguenza è stata che le code in ingresso erano molto lunghe, e col caldo ardue da affrontare, ma dopo il primo giorno, davvero un po’ troppo caotico perché nessuno sapeva dove mettersi in coda, son filate abbastanza lisce. Purtroppo, altra conseguenza,le proiezioni puntuali son diventate rarissime; se a questo sommiamo il tempo necessario a mettersi in coda quando si è privi di biglietto, il tempo libero tra le proiezioni è risultato decisamente ridotto.Va tuttavia ancora una volta stigmatizzato il fatto che, al momento dell’apertura delle biglietterie telematiche qualche giorno prima del festival, i server non reggano e il sito si pianti. Fatevi fare un corso di scalabilità, ragazzi!
A parte i biglietti, comunque, si son viste altre novità: due cerimonie di chiusura, una per i premi minori e una per quelli principali; poche facce note tra chi lavorava; badge con codice QR; qualche problema di troppo nelle proiezioni (addirittura un film nella sala sbagliata!). Piccole cose nel bene e nel male che testimoniano il cambiamento.
Il cambio di rotta della gestione va però ben oltre l’organizzazione: dopo un 2013 di transizione, quest’anno Serge Bromberg non si è proprio visto e Marcel Jean ha preso in mano imponendo la propria visione. Innanzitutto, finalmente si è rinunciato alla stanca formula della “nazione dell’anno”, dedicando una mole impressionante di programmi all'”animazione in volume” (stop motion, plastilina, pupazzi etc.): c’erano la bellezza di 17 programmi, che spaziavano dai capolavori (e potevo perdermi l’occasione di rivedere ancora Harvey Krumpet?) ai focus su Estonia, Messico o Croazia, a maestri come Harryhousen, Trnka o George Pal, agli inventori del genere agli albori dei cinema, alle sperimentazioni. Davvero una programmazione completa e curata.
Di fronte a questo lavoro gli altri programmi speciali sfigurano un po’: due sessioni dedicate alla prima guerra mondiale in occasione del centenario dell’inizio (ne ho visto uno, discreto) e due sull’eredità di McLaren. A destra, l’intramontabile Harvey Krumpet. Korba!
Anche il concorso dei cortometraggi, tradizionale piatto forte, vede due novità. La prima, quella più evidente, è la presenza di un sesto programma oltre i cinque tradizionali, chiamato “Off Limits Animation” e dedicato all’animazione sperimentale. Non è stato chiaro fino alla premiazione se era in concorso o meno; si è poi scoperto che è stato pensato un premio apposta. E’ stato comunque un programma discreto, il cui vincitore è stato uno dei corti meno forti, Corps étrangers di Nicolas Brault, una vi di mezzo tra un astratto e immagini al microscopio. La seconda novità è più sottile, e forse anche è difficile capire se sia una parentesi di quest’anno o un cambio di rotta definitivo, ma l’impressione è che la selezione sia stata fatta tenendo conto meno dei contenuti e più del guizzo tecnico, dell’idea realizzativa. Il risultato è stata una programmazione piuttosto pesante, con almeno due programmi su cinque faticosi al confine con l’intollerabile, e comunque con la conseguenza che si è riso molto poco. Il cartone con la gag quest’anno è stata una bestia rara.
Paradossalmente, invece, i premi sono andati in gran parte a cortometraggi in cui si provava a dare un contenuto. Forse quello che più non va nasce appunto da questo screzio tra comitato di selezione e giuria. Il vincitore, comunque, è stato Man on the Chair di Dahee Jeong, una riflessione sull’identità dell’Autore e dell’Opera, a dire il vero un po’ puerile e intellettualode. A sinistra un’immagine dal vincitore, fatevi voi un’idea. Un po’ meglio il secondo premio a Patch di Gerd Gockell, anche questo che esplora la tensione tra Opere Astratte e Non. Non gli avrei dato un premio, ma almeno è un prodotto sensato. Stupisce molto anche il terzo premio, pari merito, all’italiano La testa tra le nuvole di Roberto Catani, che è un classico corto con gessi stridenti sulla lavagna, metaforicamene e letteralmente. L’altro corto vincitore del terzo premio è stato il grazioso (finalmente!) Histoires de bus di Tali, canadese, una piccola storia divertente nella campagna canadese. Anche un po’ meglio il premio del pubblico, con La Petite Casserole d’Anatole di Éric Montchaud, tenero e toccante (a destra), Diversi altri corti, al di là dei premi, sono meritevoli di menzione e saranno menzionati in seguito, ma devo dire che non ce ne sono che mi abbiano profondamente colpito. Questo è il senso ultimo per cui, alla fine, posso dire che il programma dei corti non mi ha soddisfatto un granché.
Binari più consueti invece per i lungometraggi. Ci son state alcune anteprime anche piuttosto importanti, che però non ho visto o perché troppo difficili entrare (Princess Kaguya di Isao Takahata, l’unico che mi è proprio spiaciuto non vedere) o perché, insomma, non mi interessava più di tanto (Dragon Trainer 2, Saint Seiya). Il concorso ha avuto un vincitore a sorpresa, O meninho du mundo che, ehm, non ho visto, ma di cui potete vedere un fotogramma a sinistra. Ho prediletto un altro programma o forse ho fatto shopping…ma me ne sono pentito. Mi ispirava. Stupisce comunque che sia il secondo anno di seguito che vince un lungo brasiliano, senza che ci sia però l’evidenza di una scuola in fermento (e con un brasiliano in giuria, la cosa puzza un po’). Secondo posto, anche questo a sorpresa, per Cheating del veterano Bill Plympton, più debole rispetto ai suoi standard, e terzo per il discreto Giovanni no shima di Mizuho Nishikubo. Seguiranno dettagli su questi e tutti gli altri film, ma anticipo che il mio preferito è stato Saibi, un coreano durissimo (come sempre per i film di questa nazione).
E infine c’è stata una novità nella mia partecipazione personale ad Annecy: ho saltato le proiezioni del sabato e me ne son tornato in Italia un giorno prima. Le ragioni del cuore prevalgono su quelle dei cartoni animati. I tempi cambiano dentro e fuori il festival.
Next: Lungometraggi come se piovesse. Ha piovuto una sola volta seriamente, mentre ero in sala a vedere un programma di corti in concorso. Mai bagnato!
Ieri è morto Jimmy Fontana. Non credo di conoscere una sua canzone oltre “Il mondo”, ma io a Jimmy Fontana ci volevo bene perché una volta è stato ospite da Maurizio Nichetti a “Pista!”. Era una puntata speciale in cui erano state invitate al quiz le famiglie delle celebrità, e nel 1987 o giù di lì Jimmy Fontana, evidentemente, era classificato come “celebrità”. Nichetti gli chiese “Come hai scelto il nome d’arte che porti?” e lui rispose “A quei tempi andavano di moda i nomi in inglese, e Tony e Bobby erano già presi, quindi ripiegai su Jimmy. Per il cognome…aprii l’elenco telefonico e lo sfoglia finché non trovai un cognome che suonava bene. E così nacque Jimmy Fontana”.
E questo è tutto quello che ho da dire su Jimmy Fontana.