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– L’unica cosa che si può mangiare con le mani è la focaccia.
Era uno degli insegnamenti che zia Adelina ripeteva più spesso. Al che io, timoroso, quando si trattava di mangiare la pizza che è molto più buona se gustata sporcandosi le dita, attendevo che il suo volto severo si voltasse altrove prima di afferrarla e sbafarla così.
Ma non si trattava solo di lei: per buona parte dei grandi della mia famiglia pareva che fosse una cosa assolutamente indispensabile che stessi coi gomiti stretti, che non mangiassi con la bocca aperta, che sapessi apparecchiare una tavola mettendo le stoviglie al posto giusto, che stessi composto e tutte quelle piccole altre scocciature che tutti i bambini detestano.

Tuttavia, era (ed è) nel mio carattere chiedermi sempre il perché delle cose. In una prima fase, intuendo che in "società" fosse corretto rispettare alcune regole, mi chiedevo però la necessità di essere così rigidi nell’intimità della propria famiglia. Escogitai una risposta che proposi a mia nonna Luisa. Io adoravo mia nonna, ma lei era una che ci teneva veramente tanto alle buone maniere. Quando apparecchiavo una tavola a cui si sarebbe seduta lei, ero terrorizzato dallo sbagliare la collocazione delle posate sulla tavola. Non riuscivo mai a ricordarmi se il coltello andava a sinistra o a destra, e la conseguente posizione della forchetta. Avevo quindi ideato un trucco: mettevo tutti i coltelli dallo stesso casuale lato dei piatti, con l’eccezion del posto di mia nonna che era apparecchiato in verso opposto. In tal modo, quando lei si sedeva, se il suo coltello era dal lato giusto non faceva caso agli altri, se invece era sbagliato invocavo il fatto che tutti gli altri erano corretti, e si era trattato quindi di una banale svista. Bella cazzata, direte voi. Bella cazzata, dico anch’io. Tanto bella che in effetti ho il dubbio di avere solo pensato una roba del genere e di non averla mai messa in pratica.

Ma torniamo a noi: la risposta ai miei dubbi che avevo trovato era che il buon comportamento quando si stava a casa fosse una sorta di allenamento per quando si era in pubblico.
Proprio così, bravo, fu il commento di mia nonna.
Il mio vulcanico cervellino allora iniziò a escogitare compromessi in cui si dimostrava, una volta per tutte o al massimo periodicamente, di essere in grado di sostenere una cena in società, in cambio della libertà di mangiare in pace coi gomiti larghi senza la minaccia di dover pranzare coi libri sotto l’ascella (minaccia costante di Zia Adelina). Nel frattempo però, rendendomi conto che tutto sommato non potevo farci niente, iniziai a chiedermi il perché di tutte quelle regole. E ancora oggi, ogni volta che sento parlare di galateo a tavola, cerco una ragione pratica (tralasciando l’etichetta in altri campi, ché almeno quella mi è stata risparmiata). A volte la trovo e mi pare sensata. A volte la trovo ma la giudico desueta, retaggio di un tempo passato. A volte, invece, proprio non riesco a trovarla, e allora mi rendo conto che si tratta di tradizioni che si perdono solo nel passato e che, in quanto tali, è giusto contribuire a smembrare.

Al primo tipo appartengono alcune regole come la posizione della forchetta e del coltello: la maggior parte delle persone è destrorsa, quindi userà il coltello, posata che richiede forza, con la destra. È quindi comodo metterlo nella posizione più consona all’uso (ma in presenza di un commensale notoriamente mancino, non si dovrebbe invertire?). Similmente, non è bello osservare il bolo altrui, quindi masticare a bocca chiusa può avere un senso.

Più rare sono le regole del secondo tipo. Mangiare coi gomiti chiusi ha senso quando si è molto vicini a qualcun altro, ma se questo accade si è inevitabilmente in un contesto informale, quindi c’è una contraddizione insanabile. Il bicchiere piccolo per il vino è stato superato da quando si è scoperto che esistono forme e dimensioni che esaltano maggiormente l’aroma dei vini, ma quasi ovunque si continua ad usarli. Il divieto di fare "scarpetta" col pezzetto di pane (uno dei grandi piaceri della vita!) e il consiglio di lasciare sempre qualcosa nel piatto deriva da un tempo in cui bisognava dimostrare di essere ricchi e quindi di non aver necessità di curarsi tanto dell’aspetto economico della nutrizione. Persino zia Adelina, nel suo fervore nel risolvere la fame nel mondo, aveva superato questa regola, ma essa rimane ed è comunemente osservata, anche se ormai per fortuna procurarsi il cibo non è un problema primario per quasi tutti i membri della nostra società.

E poi ci sono le regole incomprensibili. Un esempio è costituito dal tovagliolo appoggiato sulle gambe quando è molto più facile sbrodolarsi sul petto che far cadere pezzi di cibo sul grembo. Molto meglio legarselo al collo come Poldo Sbaffini!
Anche l’inibizione ad usare le mani mi è ardua da capire: so che la regola di zia Adelina era un po’ stretta (credo che alcune vivande, come le quaglie, i crostacei e forse il pollo, si possano mangiare con le mani), ma la frutta deve essere rigorosamente sbucciata con coltello e forchetta. Perché? È così complicato e scomodo sbucciare una pera con coltello e forchetta! Cos’hanno di male le mani?

Pian piano l’uso sta modificando queste regole, ma certe tradizioni sono veramente dure a morire. Sarà mio scopo della vita poter mettere il coltello a sinistra, legarmi il tovagliolo al collo e sputacchiare addosso ai commensali. Le rivoluzioni non sono mai piacevoli.

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