Ispirato dal freddo culo di questi giorni, non posso non ricordare il Natale 1986, quando zia Mavi mi regalò un piumotto invernale. Cioè, in effetti posso non ricordarlo, ma così l’inizio dell’articolo, legandosi all’attualità, è più incisivo. Vabbé, niente, voi non mi date soddisfazione. Riniziamo.
In occasione del Natale 1986 zia Mavi mi regalò un piumotto invernale, una giacca imbottita da sci. Io, ancorché dodicenne, speravo in qualcosa di più divertente di un capo di vestiario, ma vabbé, mi accontentai. Sapevo quel si dice della dentatura degli equini, ma quello che ancora non sapevo è che quel dono mi avrebbe salvato le chiappe durante il terribile periodo dei Paninari.
Una premessa: nel 1986, non solo vivevo in un paese di provincia, dove le mode arrivavano in ritardo, ma soprattutto a casa mia non c’era ricezione per Italia 1. La mancanza di questa rete giovanilistica e, in particolare, del Drive In, aveva come conseguenza che ignoravo il fatto che l’esecrabile movimento fosse in atto. Che ci volete fare, mi divertivo di più a giocare coi Lego.
Avrete comunque probabilmente già indovinato che quel famoso giumbotto era un Monclair. Di ritorno dalle vacanze di natale, indossando quel caldo giaccone, notai che la gente mi fissava. Ciò che la gente mormorava, in sostanza, era”Ma perché quel babbo di minchia di Ventimiglia ha un Monclair?”. Più di una persona espresse il dubbio che quel Monclair fosse finto, cioè che fosse un normale giaccone sul quale avevo appiccicato lo stemma col galletto. I più scafati, però, sapevano che per sgamare i tarocchi bisogna osservare le zip, che portavano parimenti lo stemma: e quelle non mentivano, il mio era un Monclair vero! Così, nella scuola media Margherita Morteo Ollandini eravamo in due ad avere un Monclair: io, col mio affare color grigio topo, e un Vero Paninaro, che ne aveva uno arancione sgargiante e lo indossava senza maniche come i Galli Di Dio Che Cuccano Le Sfitinzie. Non possedetti mai null’altro di simile, nemmeno una cintura El Charro o un jeans firmato, ma in qualche modo passai quel periodo in qualche modo immune. Beh, forse sarebbe stato lo stesso anche senza, ma è meno divertente pensarlo.
Sono un semi-fiero possessore di una Ford Ka nera, acquistata nel gennaio 2001. Semi-fiero perché ne amol’estetica, le dimensioni, il colore, anche l’affidabilità tutto sommato, però consuma una quantità paurosa di benzina (siamo sui 10 km/l!), si fulminano le lampadine degli anabbaglianti con una frequenza fastidiosissima, e, ovviamente, ha la Botta della Ka.
Tutti i fini osservatori sanno cos’è la Botta della Ka. La maggior parte delle Ka (anzi, quasi tutte) presenta lo stesso infortunio: un urto in corrispondenza del lato anteriore del parafango della ruota posteriore destra. La mia non fa eccezione: mi è successo nell’estate 2001 (macchina ancora quasi nuova, quindi!), mentre entravo in un garage, e sono stato troppo pigro e troppo tirchio per farla mettere a posto da allora.
La mia domanda è: c’è qualche errore di progettazione per la Ka perché un incidente simile sia così comune, o c’è una comune incapacità di entrare nei garage da parte dei possessori di Kakavolo?
Warning 1: parlando di Goldrake, userò i nomi del doppiaggio italiano storico. I puristi se ne facciano una ragione, è solo per facilitare la lettura ad un pubblico più ampio.
Warning 2: spoiler senza pietà.
Ho iniziato a rivedere le vecchie serie animate giapponesi già da una decina d’anni, quindi non sono certo un novellino nel vedere le “storiche” serie senza aspettarmi chissà che. Eppure, per una serie di coincidenze, non ho mai affrontato quella che è considerata la più “mitica delle serie mitiche”: Atlas Ufo Robot. Con pazienza, quindi, ogni mattina, all’ora di colazione, mi son visto un episodietto di Goldrake. Ecco qui qualche considerazione a ruota libera su questa visione postmoderna.
Trent’anni dopo la sua prima messa in onda in Italia, Goldrake fa ancora parlare di sé. Al di là di tutto quello che rappresenta (l’invasione dei cartoni giapponesi, il simbolo di una generazione etc.), però, ci sono anche delle motivazioni legate al prodotto stesso: Goldrake è curiosamente sia immerso nel suo tempo che moderno, e come tale può funzionare da collante tra gli anni ’70 e oggi. Da un lato è palesemente basato sulla moda dei dischi volanti che ha funestato gli anni ’70 ancora più delle Brigate Rosse, ma dall’altro mostra un’anima ecologica che in animazione non si era ancora mai vista. Viene mostrato come il peggio che fanno i cattivi non sia tanto uccidere, conquistare, tiranneggiare, ma piuttosto devastare i mondi inquinandoli e prosciugandone le risorse. L’unica altra serie classica che mi pare affronti il tema in modo simile è, ovviamente, Conan ragazzo del futuro, che infatti è ancora modernissima. Al di là di questo, visivamente Goldrake è una serie ancora molto piacevole da vedere. Altri prodotti coevi all’occhio moderno risultano più difficili da apprezzare: per fare un esempio, Il Grande Mazinga, precedente di un solo anno, appare molto più invecchiato.
Altro elemento puramente anni ’70 è la struttura della trama. Sono ancora lontani i tempi in cui il meccanismo de “il mostro della settimana” verrà superato, ma nemmeno gli episodi sono totalmente intercambiabili come se fossero I Flintstones. Arrivano nuovi mezzi, cambiano i nemici, i protagonisti cambiano ruolo: ci sono parecchi piccoli cambiamenti che danno il senso di passaggio del tempo. Gli episodi memorabili, va detto, non sono molti, e quasi tutti nella parte finale della serie. Ciò però non significa che ci si annoi e le puntate siano prevedibili: la struttura dell’episodio sfugge alla normale logica delle serie robotiche di “scene di vita quotidiana dei protagonisti – piano dei nemici – uscita del robot – combattimento – finale al tramonto”, ma spesso sono più articolate, tanto che le scene riciclate (il classico “Actarus che si butta nel condotto della lavanderia“) non sono usate di frequente, e spesso sono tagliate. La seconda parte della serie poi quasi dimentica alcuni personaggi “terrestri” che erano protagonisti della prima e che costituivano parte dell’ambientazione non-bellica: Banta scompare completamente, Rigel assume una dimensione minore, la vita alla fattoria rimane sullo sfondo. Diverse puntate addirittura sono focalizzate sui cattivi, dedicando un tempo smisurato ai loro intrighi, e passando l’azione ai buoni solo al momento del combattimento. Non poche, inoltre, sono le puntate in cui si opera un primitivo approfondimento psicologico dei personaggi. In particolare, c’è un leit-motiv che ricorre spesso: il ritorno dei demoni del passato, nella forma di persone o di oggetti che parevano lasciati alle spalle, ma che tornano ad esigere il loro tributo al presente, sia dei buoni che dei cattivi. A questo proposito, il cast di personaggi merita una piccola analisi a parte.
Iniziamo dai “buoni”. Actarus è davvero un figo. Non è una cosa da poco, perché tradizionalmente il pilota del robot deve offrire identificazione nello spettatore. Invece Actarus non solo è bello ed eroico, ma è anche freddo, altero e scostante. Impossibile non ammirarlo, impossibile identificarsi. Questa scelta, a mio parere, nasce da un altro aspetto di Goldrake: la sua ricerca di un pubblico femminile. Non solo il tratto è più morbido e accessibile rispetto ai disegni grezzi ed efficaci di moda negli anni ’70 (e che purtroppo non si sono mai più visti da allora), ma si propone un maschietto di cui innamorarsi e ben due personaggi “forti” femminili, Venusia e Maria. Il loro ruolo è molto più marcato delle “pilotesse di robot femminili spara-tette”, che in sostanza erano una sorta di spalla pseudo-erotica del protagonista. Al contrario Alcor, la cui posizione nella serie nasce palesemente dalla necessità di fornire continuità alla saga nagaiana (per chi non lo sapesse: Alcor in realtà è il pilota di Mazinga Z, chiamato Rio Kabuto in Mazinga Z, Koji Kabuto -il suo nome vero- ne Il Grande Mazinga, dove compare nelle ultime puntate, e appunto Alcor in Goldrake), è invece retrocesso a spalla dalla personalità impetuosa e anche un po’ infantile, dimenticandosi della maturità con cui, nelle ultime puntate de Il Grande Mazinga, aveva dato una lezione a Tetsuya.
Non mancano invece altri personaggi ricorrenti, tipici delle vecchie produzioni nipponiche: il bambino (Mizar), la figura paterna (il professor Procton) e la spalla comica, Rigel. Quest’ultimo è un personaggio totalmente al di fuori dello spirito della serie, tanto che la sua efficacia nel suo ruolo comico ne risulta moltiplicata. Un cowboy giapponese nano, pelato, ubriacone e fanatico degli UFO. Geniale, nella sua demenza.
Passando dall’altro lato della barricata, quello che rende affascinanti i cattivi in Goldrake è la loro bassezza morale. Tradizionalmente, nei cartoni animati ma non solo, i cattivi vengono rappresentati come personaggi che hanno scopi diversi rispetto all’eroe, magari ideologie sbagliate e una certa malvagità, ma comunque non privi di un loro valore e un loro senso dell’onore: in questo modo, la loro sconfitta tributa maggiori onori al vincitore. Per la quasi totalità della serie di Goldrake, invece, i vegani tradiscono, si insinuano, utilizzano stratagemi repellenti e vigliacchi per sconfiggere gli umani. E non solo: si pugnalano alle spalle tra di loro, sono invidiosi, arrivisti, crudeli. In una puntata, la conquista della terra fallisce solamente perché il Ministro Zuril e il Comandante Gandal, solitamente rivali, si alleano per far fuori un loro possibile rivale nella lotta per assicurarsi i favori di Re Vega, giunto ad un passo dalla vittoria contro Goldrake. Uccidendolo a tradimento, mantengono lo status quo. Solo nella parte finale, quando da tiranni spaziali i vegani si trasformano in esseri disperati che lottano per la sopravvivenza, assumono una statura morale superiore. Dimostrano allora di avere una famiglia, degli affetti, persino un certo rudimentale senso dell’onore. A tratti, addirittura, Goldrake appare come una punizione divina immeritata.
In mezzo a queste personalità spiccate e nel complesso azzeccate, spicca in negativo il vero protagonista della serie, il robot Goldrake: pare paradossale, ma lo trovo la cosa meno riuscita della serie. E’ un robot privo di personalità, troppo lucido e perfetto. Al di là del fatto che è Goldrake, e della trovata un po’ imbecille di ficcarlo in un disco volante, è anonimo. Non viene distrutto ad ogni puntata come Il Grande Mazinga, né è lento e imponente come Mazinga Z, né grezzo ed efficace come Getter Robot e tantomento ironico come Daitarn III. E’ Goldrake, punto. Lo scarso successo che ha avuto in patria probabilmente nasce anche dalla scarsa incisività del robottone.
Parlando di altri robot, viene spontaneo pensare alle questioni morali, che sono spesso una chiave portante delle serie nagaiane. Anch’esse scompaiono, anzi, sono a malapena accennate. Non c’è traccia del tema dominante di Mazinga, l’ambiguità dell uso del potere derivata dal libero arbitrio (“Alla guida di questo robot potrai essere un dio o un demone, è solo una tua scelta”), aumentando così lo scarto tra i buoni e i cattivi. L’unica puntata in cui si accenna a qualcosa di simile è una delle migliori, quella in cui Actarus scopre che i mostri spaziali che lui combatte sono costruiti utilizzando il cervello degli abitanti di Fleed, in particolare del fratello di una sua amica. L’eroe, nella stessa puntata, viene anche accusato di avere abbandonato il suo pianeta per salvarsi. Purtroppo il dilemma non solo non viene risolto con soddisfazione, ma viene anche ignorato nel resto della serie.
Nel complesso, quindi si tratta di una serie che affianca ad alcuni punti di innegabile interesse numerose banalità e occasioni perdute. Non è un cattivo prodotto, ma è chiaro che la popolarità di cui gode in Italia, ora come trent’anni fa, deriva solo dal fatto di essere il primo robottone giunto da queste parti, e null’altro.
E infine, per concludere questa inconcludente rassegna e per premiare (punire?) chi mi ha letto finora, una curiosità che mi ha tormentato per tutta la visione: Actarus è della seconda o della quarta? Fa Actarus-Actari o Actarus-Actarus?
L’estate scorsa, in occasione del quindicesimo anniversario della maturità, ho partecipato a una cena di classe coi compagni del liceo. E’ stata una cena divertente, e tra un aneddoto e l’altro alcuni commensali, parlando del presente blog che avevano scovato, mi hanno chiesto: “Ma perché non parli mai del liceo? Ci sono un mucchio di cose divertenti da raccontare! In fondo ormai è passato tanto tempo, dovresti avere un certo effetto-nostalgia anche per quel periodo”. E in effetti, riguardando gli aneddoti inconcludenti coi quali ammorbo i miei lettori, mi son reso conto che ormai da tempo ho sconfinato dai primitivi limiti temporali autoimposti e ho narrato diverse storielle dal periodo universitario e a tratti anche alcune piuttosto recenti; tuttavia, per quanto riguarda il liceo, continuo a dire molto poco.
Pensandoci sopra e cercando di capire cosa c’è che non mi stimola in questo periodo, sono giusto ad un paio di conclusioni. Una delle motivazioni nasce dalle conversazioni del genere “Mi ricordo che durante le superiori…”. Avete mai provato a parlare degli anni del liceo con interlocutori sparsi, ad esempio alla macchinetta del caffè in ufficio? Ebbene, la tendenza generale è di bullarsi per quanto casino si è fatto o di quanto poco si è studiato o di chi ha avuto i professori peggiori. E’ spesso una gara al rialzo a chi ha fatto più scioperi inutili, a chi ha trattato peggio i propri insegnanti, a chi se l’è cavata meglio senza nulla fare. E’ un’abitudine che trovo profondamente irritante: sembra quasi di sentire coloro che ricordano di quando hanno fatto il militare! Diamine, perché bisogna proporsi come un esempio negativo per sentirsi importante?
E’ probabile che esista una chiave di lettura in tutto questo: la normalità è poco interessante, ciò che richiama l’attenzione è l’eccezione. E l’eccezione in un ambiente che, quasi per definizione, è legato allo studio, all’insegnamento e alla disciplina, è appunto il non-studio, il non-insegnamento e la non-disciplina. Risulterebbe quindi molto più memorabile narrare di quella volta che ho litigato con quel fidipù del professore di disegno invece che di quell’anno che ho studiato sodo latino e, dal 5 in pagella che avevo nel primo quadrimestre, sono passato al 7. Ma, a questo punto, mi sembrerebbe di allinearmi a quella fenomenologia che ho precedentemente disprezzato. Non che la coerenza per me sia un valore così importante, ma non ne vedo proprio la necessità.
In realtà credo ci sia dell’altro: la mia vita dai 14 ai 19 anni non è stata solo la scuola, sebbene in qualche modo la mia esistenza ruotasse attorno ad essa; potrei quindi anche scrivere aneddoti riferiti alla mia vita extra-scolastica. Tuttavia non mi sento più legato al me stesso come adolescente, una personalità che non sento più mia, a differenza invece del me stesso da bambino che invece percepisco come parte di me. A causa di questo distacco scrivere di quel periodo mi risulta difficile, un po’ come se parlassi di un estraneo.
Quindi, Massimiliano ed Emanuela: fatevene una ragione, comparirete molto raramente nei miei racconti!
(Questo articolo è venuto troppo serio. Fate una puzzetta e ridete per bilanciare)
Alla faccia di chi mi dice che ho una memoria elefantiaca, deve esserci qualcosa che ho rimosso dal profondo. I supermercati mi inquietano sempre parecchio, e quando sono affollati divento assai spaventato. Addirittura in qualche caso ho sfiorato un attacco di panico e son dovuto uscire in tutta fretta. Eppure, da quel che ricordo, non mi è mai successo niente di male in un supermarket, cioè, nulla di peggio di comprare per errore dei fazzoletti di carta profumati alla vaniglia (non ho il coraggio di buttarli via, ma mi danno la nausea ogni volta che mi soffio il naso). E nemmeno riesco a immaginare nulla di grave che potrebbe accadere in un luogo simile, a parte magari essere assediato dagli zombi.
‘Nsomma, cosa diamine ho coi supermercati?
(Ok, non mi aspetto una risposta sensata. Ma se volete fare delle ipotesi, o se qualcuno ricorda qualche evento che io ho eliminato dalla memoria…)
Oggi, in occasione del ritorno da un’ottima Lucca Comics, parliamo dei cosplayer, cioè di coloro che alle fiere di fumetti si travestono da personaggi dei fumetti e dei cartoni. Per anni ho detestato il cosplay, Sapete, c’è una corrente, tra gli appassionati di comics, che sostiene che i cosplayer siano malvagi perché sporcano l’integrità culturale del fumetto. Secondo questo partito, vestirsi come “gli eroi del fumetto” contribuisce a fare in modo che quel mezzo di espressione venga ancora considerato un intrattenimento infantile e un po’ ridicolo. Una corrente minoritaria, inoltre, asserisce che tutti i cosplayer puzzino, senza eccezioni (davvero!).
C’è della verità in tutto questo (a parte la storia della puzza, vabbè, quella è diffusa solo tra coloro che si vestono da personaggi impellicciati), ma col passare degli anni la mia posizione è diventata molto più morbida: trovo il cosplay un gioco divertente che si sposa benissimo all’atmosfera della fiere di fumetto, per non parlare del fatto che permette di vedere belle ragazze in vestiti discinti. Io non lo farei mai, ma non ho ragioni serie per non tollerare questo tipo di attività; fa più male al mondo del fumetto mettersi in coda per farsi firmare la fotocopia dai disegnatori Bonelli.
Tuttavia, mi mandano in bestia quelli che prendono questo gioco troppo sul serio, e non c’è nessuno che lo faccia in modo peggiore degli Imbecilli di Star Wars. Si tratta di un gruppo di fessi che, in base a qualche gerarchia che sanno solo loro, si vestono da personaggi di Guerre Stellari, comprando costumi commerciali. I più sfigati si vestono da Storm Troopers, altri da ufficiali, i più “ganzi” fanno Darth Vader o l’Imperatore. Questi poveri ritardati si calano talmente nel loro ruolo che, passando per le affollatissime strade di Lucca, si fanno largo minacciando la gente “Largo! Passa l’Imperatore, toglietevi!”. Io, da rompipalle che sono, mi son messo in mezzo e ho detto a muso duro a un “ufficiale”: “E se non mi tolgo che succede?”. Il mentecatto è rimasto talmente sconvolto dall’incontro con uno che non ha rispetto per l’Imperatore che ha borbottato qualcosa e se ne è andato. Bravo, Luca.
Giusto per non dire che ce l’ho coi fan di quella orrenda esalogia dal nome di Star Wars, per la prima volta nella mia carriera mi son fatto fare una foto con un cosplayer. Signori, ecco qua me insieme ad Ale Katsura, chitarriere dei Bishoonen, alle prese col miglior cosplay di Darth Vader che abbia mai visto. E’ questo lo spirito che mi piace, e saluto quel bambino.
Un grazie a OperationOne per la foto.