Di solito, quando è il momento di tracciare una panoramica dei corti di un festival, si parte dai vincitori dei vari premi. Tuttavia, ho già riferito di non aver condiviso molto i premi della giuria: non è stato un disastro come nel 2009 e i bambini sudanesi, ma non credo ci sia stato un film che ho applaudito con entusiasmo durante la premiazione. Quindi, la selezione dei corti di cui parlerò verterà su quelli che mi son piaciuti e che mi hanno colpito in un modo o nell’altro, e non su quelli premiati. Se poi le cose coincidono…tanto meglio!
Il mio vincitore personale è stato Futon di Yoriko Mizushiri (a sinistra). Con una dolce canzone in sottofondo, una donna stilizzata si avvolge pigramente in un futon; compare poi del sushi, una torta, delle bocche sensuali, altri elementi vagamente erotici: tutto lento, pigro, morbido, al calduccio. Quello che ho amato di questo corto è come sia riuscito a trasmettere a un po’ tutti i sensi con dolcezza e complicità. Guardatene il trailer e vedete se non ve ne innamorate un po’ anche voi.
Ho apprezzato poi moltissimo il più difficile Trespass di Paul Wenninger (a destra). Si tratta di una serie di foto del regista in giro per il mondo, giustapposte in modo che lui sia quasi fermo mentre tutto intorno va velocissimo, in una sorta di pixilation. Mi ha comunicato una grande sensazione di solitudine e di smarrimento.
Due corti, entrambi di buon livello, trattano un tema simile: A Monster in the reservoir di Sung-Gang Lee e The big beast di Pierre-Luc Granjon. Il primo parla di un mostro in un laghetto che parla in prima persona ma non si vede mai, forse non c’è, e segue tutta la vita di una bambina. Il secondo (a destra) di un mostro che mangia le persone, non si vede mai, forse non c’è, finché non viene creato veramente da chi ne ha paura.
Dal lato più vivace, assai apprezzabile Kick-Heart di Maasaki Yuasa, una sorta di revamp dell’Uomo Tigre con strizzate d’occhio allo spettatore. Si ride molto.
Spaziando tra le tecniche, Boles di Spela Cadez (a sinistra) è un film a pupazzi che parla di uno scrittore squattrinato alla ricerca della sua musa, in questo caso una vicina grottesca. La trama è un po’ ritrita (qualcuno dica agli scrittori che, se non sanno cosa scrivere, scrivere del fatto che non sanno cosa scrivere non va bene!) ma la tecnica di animazione, la cura nelle espressioni dei personaggi e anche il modo in cui si fanno amare è notevole.
Un solo film è stato trasmesso in 3d, e si tratta di Gloria Victoria di Theodore Ushev, una specie di riassunto del novecento artistico. E’ un corto molto potente anche in 2d, ma io, sebbene profondo detrattore di quella sciocca baracconata che è la terza dimensione, devo ammettere che in questo caso è stato usato bene e con efficacia, e aggiunge in effetti qualcosa. Nel campo artistico merita una menzione anche Mademoiselle Kiki et le Montparnos di Amèlie Harrault, una rilettura della celebre modella/artista/cantante Kiki e la sua vita in mezzo agli artisti nel leggendario periodo della Parigi del primo ‘900 (a destra). Interessante il variare dello stile a seconda degli artisti con cui la nostra interagiva.
Tutto sommato il vincitore del Cristallo mi è piaciuto, ma non l’ho trovato così forte da essere un vero premio: Subconscious password, di Chris Landreth, racconta quello che avviene nel subconscio quando non ci ricordiamo il nome di una persona incontrata. Landreth ha molta classe, sia tecnicamente nelle sue soluzioni visive sempre al confine con la ripresa dal vivo, sia nell’originalità delle invenzioni che propone (il subconscio come un gioco a quiz degli anni ’60 con il grande Chtulu come ospite?!?), ma, ripeto, non mi è sembrato andasse oltre il livello di una bella gag. E parlando di ritorni di autori amati nel passato, non può mancare una citazione per Lonely Bones di Rosto. Dopo il semi-fallimentare Nix di due anni fa, Rosto torna al suo immaginario di mostri, distorsioni, follie, scenari assurdi e contaminazioni di piani narrativi. Il suo gioiello Jona/Tomberry l’ho apprezzato sempre di più a ogni visione, e ho il sospetto che anche per questo film potrebbe capitare lo stesso.
Qualche altro rapido cenno: Double Fikret di Haiyang Wang è un curioso corto su contaminazioni tra uomini e animali, una sorta di parata di chimere in continua trasformazione. I più però lo ricordano come “le tette a gallina” (a destra). L’esteticamente interessante Le banquet de la concubine di Hefang Wei, disegnato con grazia, ci insegna a non fare incazzare le favorite dell’imperatore, anche quando iniziano a essere in disgrazia. Droznik di Piotr Szczpanowicz, in un bel 3d, è una variazione sul tema di “perdere i treni della vita”, con un capostazione che perde l’amore della sua vita. Polacchi, che spasso! Le courant faible de la rivière di Joel Vaudriel (a sinistra) narra un aneddoto di un vecchio orribile, su quando era un giovane orribile e frequentava ragazze orribili. La storia vira sull’assurdo quando si parla di donne che uccidono i pesci col pensiero. Premio WTF dell’anno. Lettres de femmes di Augusto Zanovello merita un cenno perché misteriosamente vincitore premio del pubblico e ma anche per lo spunto interessante: le lettere ai soldati nella Prima Guerra Mondiale non solo come medicina per l’anima, ma anche per tutto il corpo. Tuttavia, non mi è parso così ben fatto. Why? Factor di Ben Falk e Jordan Wood porta il pesantissimo nome dei Monthy Python (proprio “by Monthy Python” nei titoli di coda!), ma francamente questa parodia di X-Factor non è molto divertente.
E infine, il corto molesto dell’anno per me va a Carne di Carlos Alberto Gomez Salamanca, il quale ha un endecasillabo come nome ma ha prodotto una roba incomprensibile sui sacrifici di animali in Colombia. Lunghezza reale 7 minuti, percepita 70.
C’est tout. All’anno prossimo!
Veniamo quindi ai lungometraggi, e iniziamo da quelli in concorso. Dei tre che ho visto, è apprezzabile, ha vinto una menzione speciale e non escludo si vedrà in Italia il francese Ma maman est en Amérique, elle a rencontré Buffalo Bill, che riesce a raccontare della triste scoperta della realtà di un bambino seienne con tenerezza e senza scadere nel mieloso, cosa molto difficile dato il tema. Potreste averlo già sentito perché il fumetto è uscito anche in Italiano da Bao. Interessante anche O apostolo (a sinistra), stop motion spagnola per un horror di atmosfera, molto inquietante e di grande impatto visivo, ma con la storia un po’ zoppicante. Ha vinto tuttavia il premio del pubblico. Jasmine, realizzato in plastilina, parla di una storia d’amore durante la rivoluzione iraniana, e io l’ho trovato davvero noioso e povero di idee, ma molti hanno apprezzato la cinematografia e qualcuno anche la storia.
Maggiore interesse dal lato dei lunghi fuori concorso. E’ stata proposta una bella sfilza di lunghi giapponesi di grandi studi, e ho deciso di concedere qualche chance. Io ho un rapporto di amore-odio con gli anime: se da un lato costituiscono la base del mio background animato e per un certo periodo della mia vita li ho amati alla follia, dall’altro mi fa rabbia vedere la povertà di idee degli ultimi anni e il riciclo sistematico di sempre le stesse tematiche. Vista però la ricchezza di proposte, una volta dribblate i film di Berserk e One Piece, ne ho visti ben quattro.
Sakasama no Patema – Patema inverted (a destra) di Yasuhiro Yoshihura è stata addirittura una prima mondiale, uscirà in Giappone in autunno. Si tratta di un film di fantascienza con qualche debito al Conan di Miyazaki che presenta il “metaforone” nella trama delle due popolazioni che vivono con gravità a direzioni diverse e si chiamano l’un l’altro “invertiti”; qualche piccola confusione nella trama, ma nel complesso affascinante e appassionante. Non troppo dissimile è per Gusuko-Buduri no Denki (La vita di Budori Gusuko) di Gusaburo Sugii (a sinistra), che mette insieme in un mondo di personaggi con fattezze feline una storia che si dipana curiosamente in un’ambientazione tra il medioevo giapponese, la campagna pre-rivoluzione industriale e un mondo steam-punk. Molto curiosa la morale: l’uomo ha il dovere di controllare il clima terrestre; non ho capito se si tratta di un messaggio estremamente anti-ecologico o meno. Peccato per qualche scena onirica di troppo che spezza il ritmo e non aggiunge nulla.
Il più interessante dei quattro è senza dubbio After School Midnighters di Hitoshi Takekiyo (a destra): ambientato in una scuola durante la notte, narra le peripezie di tre bambine dell’asilo in una folle storia con manichini anatomici viventi, demoni in forma di mosca, viaggi nel tempo, conigli col grilletto facile, UFO e musicisti fantasma. Il debito nei confronti di Uruseiyatsura è pesantissimo, ma l’uso di bambine prescolari invece delle solite studentesse in divisa alla marinaretta dà una ventata di freschezza. Molto divertente. Infine, il peggiore di tutti è l’insopportabile Blood C: The last dark, solita roba di demoni e corporazioni e ragazzine che combattono e che palle, quando fanno ‘ste robe senza nemmeno provarci i giapponesi li detesto. Se avessi saputo che c’erano di mezzo le CLAMP me lo sarei evitato.
Pagato il tributo al Sol Levante, giriamo un po’ il mondo. El Santos vs la Tetona Mendoza di Alejandro Lozano (a sinistra) è un assurdo film messicano, credo tratto da un fumetto, che parla di un lottatore di wrestling che combatte una tettona per il controllo degli zombi messicani, che sono gli unici che pagano le tasse in Messico. Tra tarzanelli parlanti, citazioni a raffica da Capitan Tsubasa a Dragonball a Rocky a Fuga per la vittoria, un sacco di droghe illegali, stitichezza e scontri finali con funghetti peyote, si ride un sacco, ma il tema non si sposa benissimo con la forma di lungometraggio, e dopo la prima mezzoretta El Santos si siede un po’, risollevandosi giusto per il finalone.
Tornando in Francia, ho assistito all’anteprima di Tante Hilda. Dall’immagine promozionale (a destra un esempio) e dal titolo, mi aspettavo una specie di commedia familiare, mentre invece è un pippone ecologista infinito contro gli OGM da parte del regista del desecrabile La prophecie des grenouilles, Jacques-Remy Girerd, che tra l’altro avevo accanto durante la proiezione e mi pareva brutto andarmene. C’è del buono nel design, i personaggi sono abbastanza azzeccati, e tutto sommato la trama non è congegnata male, e inoltre si cita un po’ Bozzetto il che fa guadagnare punti, ma la pesantezza con cui il messaggio è ripetuto, per di più senza giustificazioni serie se non “gli OGM sono malvagi perché non dobbiamo giocare con la natura” è davvero insopportabile.
L’America ci ha regalato due film, entrambi piccole produzioni indipendent. Confesso di non essere riuscito a vedere per intero il primo e di essermene andato a metà. Si tratta di Consuming Spirits di Cristopher Sullivan, storie di personaggi distrutti nella rust belt più depressa. Il secondo, molto più affascinante, è It’s such a beautiful day di Don Hertzfeld, già autore di cortometraggi che ci son piaciuti. Anche se ci sono dei momenti assai poetici soprattutto nel finale (davvero molto bello), Don non era secondo me pronto per un lungo per la scarsità di materiale a disposizione e la capacità di gestirlo, e il film risulta un po’ sfilacciato e a tratti noioso. Peccato.
Ultima visione della settimana è stato il curioso Persistence of vision di Kevin Schreck (a sinistra). Si tratta di un documentario sul film animato The thief and the cobbler, una produzione inglese mai terminata da parte di Richard Williams. Pur essendo un film un po’ a tesi “le multinazionali malvagie non fanno lavorare gli artisti come vorrebbero loro”, posso capire che per quanto ambizioso e spettacolare fosse il film, dopo 24 anni e budget milionari buttati via ci abbiano dato taglio, anche se male. Peccato, perché i frammenti mostrati sono davvero mozzafiato, però mai, mai, lasciare un artista a gestire un progetto. Mai!
Non ho visto il film vincitore dell’anno, Rio 2096: una historia de Amor e Furia di Luiz Bolognesi, ma non ne sento la mancanza. Rimpiango invece di essermi perso Tito on ice, un curioso film sulla salma di Tito congelata portata a spasso per l’Europa, che mi dicono essere stato originale e acuto. E pensare che l’ho perso per vedere Tante Hilda!
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Il 2013 era stato previsto come un anno di grandi cambiamenti per il Festival Internazionale del Cinema d’Animazione di Annecy. Dopo un lungo periodo, oltre un decennio, di direzione artistica di Serge Bromberg, il testimone è passato al ciccio canadese Marcel Jean, ed è il direttore artistico colui che lascia l’impronta sulla direzione che prende il festival. Non solo, il luogo principe della manifestazione, il centro Bonlieu, quest’anno è in ristrutturazione, e ci si chiedeva se la mancanza di un centro di aggregazione primario avrebbe influito sullo svolgimento. A sinistra, il manifesto dell’anno. La macchia non significa niente.
Dopo la settimana festivaliera, posso dire che non c’è stata una vera cesura col passato, ma l’impressione generale è che ci sia stata una correzione di rotta. I programmi speciali erano di meno e più curati, l’attenzione ai rapporti coi grandi studios europei, americani e giapponesi più evidente, mentre, all’opposto, è resa esplicita la ricerca della sperimentazione. Traspare anche una maggiore volontà nel coinvolgere la gente del luogo. D’altronde, alcuni schemi non cambiano: sezioni di corti, lunghi, tv e programmi speciali, e una nazione dell’anno (quest’anno la Polonia). Ciò che mi è stato trasmesso, comunque, è stata una ventata di freschezza. A Bromberg è impossibile non volere bene ma l’avvicendamento, oggettivamente, ci voleva.
Dal punto di vista logistico, invece, qualche sbavatura di troppo. Le proiezioni iniziate in ritardo son diventate quasi la norma, c’è stato qualche errore tecnico di troppo (mascherini sbagliati, suono che va via, luci che si accendono in sala…) e il primo giorno una scelta organizzativa assurda poi ritrattata ha rischiato di combinare un bel casino. La sala principale al posto del Bonlieu, la Haras, è una struttura tirata su in fretta con discreta qualità audiovisiva, ma sedie scomodissime. Oh, le mie povere chiappette! E la mancanza di un luogo di aggregazione si è un po’ sentita.
Infine, debbo dire di non essere stato molto d’accordo coi premi assegnati dalla giuria, ma vabbé, alla fine non è così importante, almeno finché non si parla di film coi bambini sudanesi.
Ma detto questo, cosa c’era da vedere? Tracciamo una rassegna generale. I lunghi in concorso non erano un granché. Maccome, tutto il pippotto sul bel festival e poi inizi così? Eeeh, così va la vita! In realtà ne ho visti solo tre, due dei quali erano anche discreti (Ma maman est en Amérique elle a rencontré Buffalo Bill – a destra-, e O apostolo) e il terzo a me non è piaciuto ma ad altri sì (Jasmine), ma il resto della selezione era, come dire, poco ispirante. Una leggenda indiana (Arjun, the warrior prince)? Un film con gli animali africani (Khumba)? Pinocchio di D’Alò?!? Il premio principale è stato vinto da Rio 2096: una historia de Amor e Furia, che non ho visto, e boh, non credo di averne intenzione.
I film fuori concorso erano in generale più interessanti. Ne parlerò in seguito in maggior dettaglio, ma cito come meritevoli di attenzione El Santos vs la tetona Mendoza (sic!), messicano folle underground, After School Midnighters, un raro esempio di film giapponese un po’ fuori dagli schemi, e Persistence of Vision, documentario su Richard Williams.
La selezione dei corti, in generale, è stata invece di buon livello. C’è stata qualche inevitabile caduta di stile, quei corti che dici “ma come è possibile che questa merda abbia passato la selezione?!?” e un programma, il quinto, con troppe opere pesanti una dietro l’altra, ma ho visto molte cose che mi son piaciute. Il vincitore del Cristallo è stato Subconscious Password di Chris Landreth (a sinistra), già premiato anni fa per Ryan; il secondo premio è andato, un po’ a sorpresa, al russo Obida (una bambina a cui sale la carogna); il terzo al solito estone surrealista Kolmnurga afäär. Ve l’ho detto che non ho condiviso molto i premi, vero? I miei preferiti (ne parlerò diffusamente in seguito) son stati Futon di Yoriko Mizushiri, sensuale e avvolgente, e Trespass di Paul Wenninger, duro e sperimentale.
Quest’anno ho deciso di non vedere corti fuori concorso e di scuola, ma ho visto parecchie rassegne. Tre erano i temi principali; il primo è quello dell‘animazione polacca che, nonostante suoni molto Corazzata Potemkin, è una scuola molto importante che tratta molti temi differenti, sebbene, dobbiamo ammetterlo, tendenzialmente un po’ deprimenti. In particolare il programma dedicato al grottesco mi è parso molto azzeccato.
Il secondo filone è stato un ciclo sull’animazione ai confini; in tempi di effetti speciali in CG che pervadono i film dall’inizio alla fine, è un po’ difficile definire cosa sia “animazione”. Qualcuno ci ha provato dichiarandola come uno “state of mind” piuttosto che una tecnica. ma il dibattito è aperto. Questa serie di programmi si occupava di esplorare i nuovi territori tracciati dall’animazione, rinfocolando appunto la domanda. La rassegna è stata un po’ impegnativa (avete paura di un corto chiamato Stroboscopic noise? Se no, dovreste), ma ricca di visioni interessanti.
All’opposto, il terzo gruppo di programmi è stato quello dei film buffi: cinque programmi, ovviamente di grandissimo successo di pubblico, con rassegne dei corti più divertenti, e relativa elezione finale de “il corto più buffo di sempre”. Se ve lo chiedeste, ha vinto il solito KJMG n.5 (a destra): visto ormai decine di volte, è incredibile come continui a far ridere. La selezione era quasi tutta già vista, ma il piacere di rivedersi qualche folle Tex Avery, o Puppet Boy, o L’homme à la Gordini è impagabile.
Infine, ho visto anche qualche programma televisivo, ma ammetto di averli pisolati un po’ troppo e le uniche segnalazioni che mi sento di fare sono Uncle Grampa di Cartoon Network, il graziossimo Tom & the bee queen e il già visto episodio della sit-com non animata Community sui videogame a 8 bit.
Un cenno anche alle anteprime: personalmente, non mi preoccupo molto di vedere cose che arriveranno in Italia dopo qualche settimana. Che me ne faccio di bullarmi di aver visto Monster University prima degli altri? Comunque, a parte il film Pixar, c’era in anteprima anche Despicable me 2 e il film di Oggy and the Cockroaches. Degno di nota anche un programma su un corto in bianco e nero di Mickey Mouse ritrovato in cui pare abbia messo mano Walt Disney in persona: Get a horse! Un anno quindi piuttosto ricco, da questo punto di vista.
Quest’anno, alla fine, ho assistito a 29 programmi in sei giorni, ma col fatto che io e il mio entourage abbiam fatto più vita sociale del solito, alla fine ero proprio stremato e alcuni programmi non li ho seguiti con la dovuta concentrazione. Che fare? Vederne di meno? Fare meno bisboccia la sera? Dormire durante le proiezioni come quest’anno? Imbottirsi di stimolanti? Beh, lo scopriremo.
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