Titolo: Lupin
Sigla della serie: Le nuove avventure di Lupin III (Rupan Sansei part 2, 1979)
Parole: Franco Migliacci
Musica: Franco Micalizzi
Cantata da: Orchestra Castellina Pasi
Anno: 1982
Forse uno dei personaggi televisivi più popolari in Italia, Lupin ha avuto la ventura di avere ben tre serie animate, a ciascuna delle quali è stata associata una diversa sigla. La prima sigla, legata alla prima serie “giacca verde” del 1971, è forse una delle più belle canzoni associate ad una serie e non c’entra nulla col personaggio: Planet O. La terza, in piena era mediasettiana post-tv private, è associata alla mediocre terza serie “giacca rosa” del 1983, ed è nota come Lupin l’incorreggibile Lupin. La seconda, che tratteremo in questa sede, è il celebre valzer di Lupin, cantato dall’orchestra Castellina Pasi, ed è famosa come “Lupin fisarmonica”, e accompagna la seconda serie “giacca rossa” del 1978.
“Castellina Pasi”, contrariamente a quanto molti credono, non è il nome di una signora ma di un gruppo di liscio fondato negli anni ’60 da Roberto Giraldi, in arte Castellina, e da Giovanni Pasi. Tale orchestra si è trovata in competizione coi Cavalieri del Re per la sigla di un cartone animato che probabilmente è diventato assai più popolare del previsto, e fortunatamente ha vinto.
La musica è di Franco Micalizzi, autore di altre sigle tra le quali Gordian, Trider G7 o Ufo Diapolon, mentre i testi sono del celebre Franco Migliacci, le cui virtù abbiamo già narrato parlando di Heidi.
Che la sigla di Lupin sia assai anomala è chiaro a tutti, e forse proprio per questo è una delle più ricordate se non una delle più amate. In parte ciò è dovuto alla sezione musicale, alla scelta coraggiosa di mettere una musica “da vecchi” in una sigla di un programma destinato ai bambini, ma non è da trascurare anche l’apporto delle liriche.
La canzone di Lupin infatti pone in prima persona la cantante (la voce è di Irene Vioni) che racconta il suo rapporto col ladro gentiluomo. Nel fare questo canterà in qualche modo le lodi del personaggio, ma con un languore e con un filo di ironia che sono rarissimi se non inediti nelle usuali marcette agiografiche.
Ciò non toglie che la sigla abbia altri motivi di interesse, nel bene e nel male. Vediamola nel dettaglio.
1
Chi lo sa che faccia ha, chissa chi è,
tutti sanno che si chiama Lupin,
era qui un momento fa, chissa dov’è,
dappertutto hanno visto Lupin.
C’è la tentazione a rimarcare le piccole contraddizioni con cui inizia la sigla. Come chi è, è Lupin, lo hai appena detto! Come sarebbe a dire che non sai che faccia ha, era qui un momento fa! E se l’hanno visto dappertutto, evidentemente si sa che è Lupin e ha una certa faccia, anche sotto l’eventuale maschera. Ovviamente un’interpretazione così stretta non rende giustizia ai versi che invece sono piuttosto efficaci nel dare l’idea del ladro sfuggente, abile nei travestimenti e quindi inacciuffabile.
2
Ogni porta si aprirà, chissa perché,
se l’accarezza Lupin,
sto tremando qui dentro di me, chi lo sa,
stanotte tocca a me,
Se gioielli e denari e tesori non ho,
a Lupin il mio cuore darò.
Ancora: come sarebbe a dire “chissà perché”? Perché Lupin è un ladro assai bravo e, in quanto tale, è ferrato nell’arte dello scassinamento. Però arriva la parte interessante: una misteriosa narratrice femminile da un lato è terrorizzata dalla visita del ladro (quel tremando è un sintomo tanto di timore che di attesa spasmodica) ma contemporaneamente è attratta dal fascino del ladro gentiluomo. E sa che, in mancanza di gioielli e denari e tesori (bella concordanza) c’è un altro oggetto di interesse per il malandrino in giacca rossa. Il cuore? Beh, più o meno. Ci siamo capiti, suvvia.
3
Scivolando come un gatto se ne va,
sopra i tetti sotto i ponti, Lupin,
quanti cani poliziotti ha dietro a sé,
ma sarà un osso duro, Lupin.
Molto buoni questi quattro versi, nei quali riprende il panegirico dell’eroe in questione.
Prima Lupin viene paragonato ad un gatto per il modo in cui si muove (cosa più che corretta). Associato alla metafora felina inoltre c’è la sensazione di movimento libero e felpato, sopra i tetti e sotto i ponti. Perché proprio i ponti? Non saprei, ma suona molto bene.
Come contrasto compaiono i “cani poliziotti”: probabilmente da non intendere in senso letterale ma come una piccola metafora per Zenigata e i suoi colleghi. Lupin è un “osso duro”: si va leggermente oltre il significato comune per la vicinanza semantica e fisica alla metafora canina precedente.
4
Ruba i soldi solo a chi ce ne ha di più,
per darli a chi non ne ha,
sembra giusto però non si fa, neanche un po’,
a me però però,
è simpatico e non saprei dire di no,
a Lupin il mio cuore darò…
Le uniche blande stupidate della sigla sono in questi versi. Il rapporto di Lupin coi soldi è sempre stato un po’ ambiguo, nel senso che a tratti appare che il suo interesse verta maggiormente nei confronti delle donne, dell’avventura e del divertimento, ma alla fine fine cerca pur sempre di rubare. E, questo è poco ma sicuro, non si sogna mai di rubare ai ricchi per donare ai poveri. Questa piccola romanticheria, tuttavia, sta bene nell’atmosfera della sigla: non è difficile immaginare la nostra Signora del Mistero che si dipinge Lupin come un novello, scimmiesco Robin Hood. Stride leggermente il giudizio morale che ricorda che è riprovevole rubare sempre e comunque (cosa che, in ogni caso, non è così semplice), mentre successiva è una stupidata poetica, quel “a me però però” che non ha altra funzione che completare il verso. Ricorda vagamente come quel “trottolino amoroso dudu dadada” che tutti ricordiamo con un sentimento misto di affetto e di ribrezzo. Certo, la stupidità del sanremese verso è a un livello che nessuna sigla ha mai raggiunto, per fortuna.
Questi dubbi, comunque, conducono alla conclusione prevista: a Lupin la Signora Misteriosa darà il suo cuore. Avevamo dei dubbi?
[Ripete 4]
Come abbiamo visto, quindi, il fatto che questa sigla sia così memorabile ed amata deriva solo in parte dall’unicità della parte musicale. Anche il testo, sottile e sornione, ha la sua parte: tralasciando qualche piccola caduta di stile, è probabilmente uno dei più efficaci e validi che il Periodo d’Oro delle sigle dei cartoni abbia generato. delle sigle dei cartoni abbia generato.
Siamo nel 1986, e lo scenario dei cartoni in tv è diverso rispetto a pochi anni prima. Il tempo dei network e delle micro-tv locali è passato, e la triade berlusconiana di Canale 5- Italia 1 – Rete 4 si è imposta come monopolista di fatto dei cartoni animati giapponesi in televisione. E parlando di sigle, si assiste ad una piatta uniformità di canzoni cantate da Cristina D’Avena, con parole di Alessandra Valeri Manera e musicate da una serie di autori un po’ anonimi. E poi spunta un cartone animato anomalo: con target diretto ai maschietti (da tempo in balia di maghette e privati dei robottoni e delle tette di Fujiko) parla di calcio, che è un argomento quasi inedito per l’animazione giapponese: il precedente Arrivano i superboys non è mai stato molto noto. Allora probabilmente si decide di variare un po’ gli schemi. La musica è scritta da un autore di qualità come Augusto Martelli, già compositore di Bambino Pinocchio e La regina dei mille anni, per citare solo due tra i pezzi migliori, mentre la voce viene affidata ad un certo Paolo. Probabilmente la scelta di tralasciare per una volta Cristina D’Aven si rivela vincente, visto il target e l’aura di zuccherosità che la star di Bim Bum Bam ha sempre avuto.
Paolo Picutti è un bambino che per vie traverse conosce Martelli e che in seguito farà parte del coro dei Piccoli cantori di Milano. È abbastanza intonato, ha una voce infantile: questo basta. Il problema primario e principale stupidata della sigla di Holly e Benji nasce dalla convinzione errata che la serie parli delle avventure calcistiche di due ragazzi. Questo distorce profondamente la trama, giacché il protagonista è uno solo ed è Oliver Hutton (detto anche Ozora Tsubasa). Benjamin Price (per gli amici, Genzo Wakabayashi) è semplicemente un comprimario, tra l’altro di minore importanza rispetto a Mark Lenders, a Bruce Harper, forse anche a Roberto Sedino. Da dove nasce l’incomprensione? Probabilmente da due fattori:
a) L’importanza non trascurabile data a Benji nella prima parte della prima serie, in cui in effetti risulta l’avversario principale di Holly. Tradizionalmente, chi si occupa di scrivere i testi guarda la prima puntata o al massimo legge un breve riassunto dell’inizio della storia.
b) L’autrice dei testi è Alessandra Valeri Manera, come in quasi la totalità delle sigle di Mediaset. Questa signora riteneva (a torto o a ragione, non è questo il luogo per discuterne) che le serie animate dovessero rigorosamente avere un contenuto educativo e, in minor misura, che non dovessero avere un contenuto diseducativo. L’imposizione del doppio protagonista cerca quindi di smorzare il tipico individualismo delle serie giapponesi e, contemporaneamente, di proporre una sana, dialettica rivalità/amicizia. Un caso simile avviene per Mila e Shiro due cuori nella pallavolo. Ma esaminiamo il testo.
Due sportivi, due ragazzi, per il calcio sono pazzi,
son portiere e attaccante, Holly e Benji due speranze,
loro vogliono sfondare e campioni diventare
per poter così giocare nella squadra nazionale [ nella squadra nazionale ]
Tutta la sigla è in terza persona, contrariamente alla consuetudine che prevede che i protagonisti vengano indirizzati direttamente almeno una volta in seconda persona. Questo distacco sintattico tuttavia non coincide con il tono del contenuto della sigla.
Significativo l’incipit: Holly e Benji prima ancora di essere ragazzi sono sportivi: forse si tratta di un caso, ma la definizione calza lo spirito della narrazione, in cui le vicende personali dei due sono lasciate in secondo piano rispetto allo sport, che domina le loro vite. Per Holly ci sarà un blando amorazzo con Patty, per Benji assolutamente niente. Non sappiamo nemmeno quale sia il loro rendimento scolastico.
Il loro scopo è quindi giocare, anche con un’ambizione che ai due raramente è attribuita (i calciatori in questo mondo amano il gioco del calcio di per sé, non il successo che esso porta). L’obiettivo finale è anche qui azzeccato: giocare nella squadra nazionale giapponese è il massimo degli onori, anche se non paga. Addirittura, nel fumetto alcuni calciatori rinunciano alla carriera nei club e la pecunia che ne deriva per potersi dedicare a tempo pieno alla nazionale. Potrebbe essere un’interessante proposta anche per Vieri, Del Piero & c. Chissà come reagirebbero. Interessante il chiasmo logico nel secondo verso, (i ruoli sono invertiti rispetto al normale “Holly e Benji”), anche se puramente formale, dovuto alla falsa rima attaccante-speranze.
Rit:
Holly si allena tirando i rigori,
Benji si allena parando i rigori,
sembran partite gli allenamenti
tanta è la classe dei due contendenti,
Holly rincorre ogni pallone,
Benji lo segue con attenzione,
e questa sfida senza vincenti
fa i due ragazzi felici e contenti
Il ritornello è decisamente assurdo e ricco di quelle che potrebbero essere viste come stupidate tecniche.
Innanzitutto, un allenamento a base di rigori, calciati e parati, è quasi inutile. Può testimoniarlo Nino e il suo calcio di rigore, ma la cosa è lampante. Che razza di calciatori sono due che sanno solo tirare calci da fermo o pararli di conseguenza? Si potrebbe ribattere che non si dice che l’allenamento è costituito solo dai rigori, ma è comunque un aspetto così marginale che non si capisce perché tributargli attenzione.
Ma non basta: fanno allenamenti che sembrano partite. La partita è una cosa, l’allenamento è un’altra (seppur finalizzato alla prima). Dove si imparano i fondamentali di dribbling, di tiro, di stop se si fanno solo partite? Le partitelle di allenamento, per quanto infuse di energia ed agonismo da sembrare scontri ufficiali, devono rimanere tali, anche per non rischiare di infortunare i giocatori e per permettere di correggere gli errori dei ragazzi che, pur bravi, rimangono dei discenti.
E ancora: che attaccante è uno che rincorre ogni pallone? Ogni minima tattica elementare prevede il concetto di “posizione”; la tecnica di “tutti dietro al pallone” è degna dell’oratorio o di calciatori per i quali “gli schemi sono saltati” come eufemisticamente dicono certi commentatori. Salviamo per lo meno Benji che segue con attenzione il pallone, anche se un’occhiatina lontano da essa per vedere dove sono gli attaccanti avversari ogni tanto dovrebbe darla. L’interpretazione del verso in senso agonistico, asserendo che Holly non si arrenda mai, è meno grave dal punto di vista tecnico ma semplicemente falsa, perché il ruolo di Hutton non prevede che vada dietro ai palloni che sfilano verso fondo campo.
Infine, stupidata più blanda è che la sfida sia senza vincenti, perché nel mondo di Holly e Benji il pareggio quasi non esiste (un solo pareggio in oltre 150 puntate). E tra i due, comunque, vince Holly perché è il protagonista.
Due ragazzi, due sportivi, con due candidi sorrisi,
una palla come un lampo attraversa tutto il campo,
Holly corre, scatta e calcia, Benji salta, ferma e para,
ma che grinta, ma che classe, son due veri fuoriclasse [ son due veri fuoriclasse ]
Il primo verso della seconda strofa (quella che non conosce nessuno, ahimé) inverte la definizione dei due ragazzi, tentando un vago effetto poetico e abbozzando una goffa rima col verso successivo. Questo testimonia che la forza dell’incipit è probabilmente casuale, e per di più la rima è riuscita proprio male. A parte questo, Holly vive un rapporto sereno col calcio, e quindi lo vediamo sorridere relativamente spesso, mentre il fiero cipiglio di Benji lascia ben poco spazio ai sorrisi. Possiamo quindi classificarla come una piccola, quasi perdonabile, stupidata.
Il verso successivo lascia basiti. E’ vero che il Tiro del Falco di Holly e il Tiro da Tigre di Mark Lenders attraversano tutto il campo, e l’immagine è anche efficace. Il problema è però sintattico: in precedenza viene introdotto un soggetto (i soliti Holly e Benji) che poi viene tralasciato senza alcuna pietà. Si potrebbe obiettare che in poesia le regole sintattiche sono molto più lasche, ma lo stridìo mi pare veramente eccessivo.
Buono il terzo verso che offre un elenco delle attività dei due campioncini con un effetto incalzante, mentre la strofa si conclude con l’ennesima rima raffazzonata, costruita mediante quella che il pratica è la stessa parola, “classe”, il che può essere classificata come una stupidata poetica.
[Ripete il ritornello due o tre volte]
Dall’esame della sigla quindi si può rilevare come si tratti di un testo probabilmente scritto molto in fretta e senza preoccuparsi di avere coerenza con il contenuto della serie e di trovare elementi sintattici e poetici efficaci al di là della prima stesura di getto. D’altra parte, pur nella sua ingenuità, a tratti si percepisce l’entusiasmo di chi ama giocare a calcio, e questo non è un merito trascurabile.
Titolo: Ufo Robot Goldrake (opening)
Sigla della serie: Ufo Robot Goldrake (Ufo Robot Grendizer, 1975)
Parole: Luigi Albertelli
Musica: Vince Tempera e Ares Tavolazzi
Cantata da: Michel Tadini, Ares Tavolazzi, Massimo Luca, Fabio Concato (sotto lo pseudonimo complessivo di "Actarus")
Produzione: Rai
Anno: 1978
Subito dopo Heidi, sarà l’incredibile e inimmaginabile successo tutto italiano del Goldrake di Go Nagai[1] a fare da traino nel nostro Paese, anche sul fronte discografico, a tutto ciò che di giapponese sarebbe venuto dopo.
A scrivere la partitura musicale e l’arrangiamento delle due sigle troviamo uno dei più celebri musicisti in forza alla Rai di allora, Vince Tempera, autore di innumerevoli brani per programmi televisivi, ma anche per il cinema di genere anni Settanta e Ottanta, e in seguito produttore musicale. Insieme a fidati collaboratori che sarebbero poi diventati richiesti musicisti sulla scena italiana, come il chitarrista Massimo Luca, il bassista Ares Tavolazzi e il batterista Ellade Bandini (mentre fra i coristi si rintraccia un giovane Fabio Concato), Tempera tira fuori un brano accattivante e orecchiabile, ma che tradisce tutto il mestiere del suo autore, ricordando molto per orchestrazione e scelte sonore (archi, trombe) le sigle dei varietà televisivi, pur rilette in chiave marziale e altisonante.
Il vero pomo della discordia dell’opening di Ufo Robot Goldrake (meno, come vedremo, nella sigla di coda) è il testo di Luigi Albertelli, scrittore prolifico che firmerà anche sigle di maggior pregio testuale, come Anna dai capelli rossi. Nel caso di Goldrake, però, quello che ottiene, forse a causa di un background personale assolutamente inadatto, è un concentrato di ignoranza, tanto del soggetto quando della fantascienza e in generale delle tematiche scientifiche. Una vera e propria sequela imbattuta di stupidate.
Al di là di questo, come prima sigla di una serie di robot giganti, pone uno stilema ripreso da quasi tutti i successori: a differenza delle sigle di altri generi, l’intero testo è strutturato come un esaltato canto di lode del robot protagonista della serie, ad opera di un non ben identificato sostenitore. In generale, c’è la tendenza a trattare questi robot, in realtà quasi tutti privi di intelligenza artificiale, meri veicoli corazzati di forma antropomorfa, come fossero esseri viventi. La cosa, se pure a rigore assolutamente sbagliata, si può accettare considerandola uno stratagemma retorico del testo, e mettendolo in relazione con il fatto che questa tendenza esiste anche nelle stesse animazioni, dove i robot, pur non essendo senzienti, proiettano su di sé emozioni e sensazioni del pilota, in modo assolutamente non-scientifico né motivabile.
1
Ufo Robot, Ufo Robot!
Ufo Robot, Ufo Robot!
L’incipit del brano scandisce la sola apposizione del robot protagonista, che non viene mai nominato direttamente per tutta la canzone, forse perché all’epoca in cui questa veniva composta non ne era ancora stata decisa la versione italiana.
Si può notare a margine come il termine "Ufo Robot" (definizione presente anche nell’originale) non abbia molto senso, e risenta delle facilonerie che negli anni Settanta riempivano la cultura popolare riguardo a tematiche ancora percepite come "nuove": in realtà, infatti, un "Ufo" (Unidentified Flying Object, oggetto volante non identificato) è tale soltanto fino a quando non sia stato, appunto, identificato. Il termine proprio del gergo aeronautico degli avvistamenti viene qui, come altrove, erroneamente usato come sinonimo di "extraterrestre". Un primo indizio del pressapochismo scientifico su cui è costruito il testo (come anche, va detto, gran parte della serie, e della fantascienza giapponese di quegli anni).
2
Si trasforma in un razzo missile
Con circuiti di mille valvole
Tra le stelle sprinta e va
Da qui in avanti, ogni verso contiene stupidate di qualche tipo.
"Si trasforma in un razzo missile": al di là del fatto che Goldrake non "si trasforma" affatto[2], l’espressione "razzo missile", costruita mettendo insieme due parole neanche tanto esotiche nel tentativo di rafforzare un unico concetto (la capacità di Goldrake di sfrecciare nello spazio), è una delle più ridicole di tutta la storia delle serie animate. Il verso, come molti altri del testo, non risulta avere alcun significato.
Inoltre, il riferimento ai "circuiti di mille valvole", oltre a citare tecnologie già largamente obsolete, lo fa senza criterio: mille valvole sono una miseria, con così pochi elementi non si costruisce nemmeno una calcolatrice tascabile!
Questo, come si notava, richiama la diffusa ignoranza scientifica popolare di un’epoca, gli anni Settanta, in cui l’elettronica si stava affermando ed era di moda, ma rimaneva un argomento ancora elitario e misterioso, e la televisione non forniva molto approfondimento in merito.
Si noti anche il brutto neologismo "sprinta", e l’uso banalissimo della chiusura in "va", ripetuto pari pari nella strofa successiva.
3
Mangia libri di cibernetica
Insalate di matematica
E a giocar su Marte va
Goldrake, essendo un robot, "mangia libri di cibernetica" e "insalate di matematica". Questo, che è forse uno dei versi più derisi di tutto il testo, nasconde una triplice chiave: l’umanizzazione del robot (confronta anche, più sotto, "Lui respira nell’aria cosmica"); la scienza usata in modo approssimativo, per sentito dire; infine, cosa più interessante ancora, un tono favolistico che rivela la ricerca di un linguaggio comprensibile ai più piccoli. Si tratta a ben guardare di una metafora un po’ goffa, che non intende proporre un concetto reale (è come dire "io sono cresciuto a pane e cinema"), benché il suo esito estetico sia certamente risibile, nel surrealismo comico evocato dall’immagine di un robot che, in quanto ritrovato scientifico, mangia libri di scienza. È un curioso surrealismo infantile, derivato dal racconto fiabesco: cercavano di trasformare un eroe grossomodo tecnologico (si parla di robot, fantascienza, viaggi interstellari, eccetera) in qualcosa che fosse più vicino alla tradizione della fiaba per bambini, in cui la logica delle cose è sospesa.
Il terzo verso ne è la conferma: "a giocar su Marte va" sembra riferirsi al tenero personaggio di un piccolo alieno bambino, qualcosa che potesse stare in linea con l’età presunta degli spettatori, e non con una fredda macchina da guerra che combatte invasori alieni per difendere la libertà della Terra. È anche possibile che Albertelli non avesse una chiara idea del soggetto di cui stava scrivendo.
4
Lui respira nell’aria cosmica
È un miracolo di elettronica
Ma un cuore umano ha
Di nuovo si gioca, in maniera totalmente indebita, con un presupposto dualismo di Goldrake, per metà "miracolo di elettronica" (tema comunque ben poco sviscerato anche da Nagai, che non perde troppo tempo nel descrivere il funzionamento di Goldrake), e per metà essere vivente e respirante. "L’aria cosmica" è naturalmente una stupidata scientifica, o al massimo un’altra metafora goffa. Il "cuore umano" dovrebbe alludere al pilota, anche se la natura vivente del robot è già stata definita in modo inequivocabile.
5
Ma chi è?
Ma chi è?
Ufo Robot, Ufo Robot!
L’interrogativo che funge da fraseggio centrale (non c’è un vero ritornello) lascia piuttosto perplessi: come sarebbe chi è, ne stai tessendo le lodi da mezz’ora, è il difensore della Terra, lo sanno tutti chi è! (Anche se si potrebbe sospettare un gustoso in-joke, se veramente la produzione italiana non avesse ancora deciso il nome del personaggio nel momento in cui la canzone fu incisa).
Inoltre, è misera e stridente l’apertura del verso con l’avversativa "ma", esattamente come nel verso immediatamente precedente ("Ma un cuore umano ha").
6
Raggi laser che sembran fulmini
È protetto da scudi termici
Sentinella lui ci fa
Altra stupidata scientifica: cos’ha a che fare un raggio laser con un fulmine? E quale dovrebbe essere la gerarchia fra loro?
Stranamente sensato è invece il verso "È protetto da scudi termici": non credo venga mai detto nella serie, a Nagai non importando molto dell’aspetto tecnico, però è sensato. Anche se è un fatto assolutamente marginale, per nulla mirabolante: anche un forno a microonde è protetto da scudi termici!
"Sentinella lui ci fa" è una forzatura per motivi metrici (in luogo di "Da sentinella lui ci fa"), parzialmente accettabile come licenza poetica.
7
Quando schiaccia un pulsante magico
Lui diventa un ipergalattico
Lotta per l’umanità
Se la chiusura stabilisce in modo netto quale sia il ruolo di Goldrake (contraddicendo di fatto il tema infantile dei primi versi: Goldrake è dunque al tempo stesso sia una sentinella che lotta per l’umanità, sia una specie di bambino robot che va a giocare su Marte), i due versi precedenti sono quanto di più enigmatico ha da proporre l’intero brano: a cosa si riferisce il pulsante premuto che azionerebbe la favolosa trasmutazione[3]? E perché il pulsante è definito "magico", dopo tutta la tiritera scientifica? E cosa dovrebbe essere un "ipergalattico"? Altre parole pseudo-scientifiche in libertà (il clima di scienza-magia, non fosse così ingenuo, rasenterebbe l’oscurantismo).
[Ripete da 1 a 2]
[Ripete da 4 a 7]
[Ripete 2]
[Ripete 1]
In definitiva, un brano tra i più conosciuti e amati, ma che a una più attenta analisi non è un pezzo musicalmente imperdibile, ed è soprattutto minato in maniera irreparabile da un crescendo di stupidate, che allontanano il vero registro narrativo della serie, e cercano una dimensione fiabesca infantile che smarrisce però ogni possibile fascino a confronto con la realtà di un soggetto con cui non ha nulla a che fare. Se Goldrake potrebbe comunque leggersi come una fiaba tecnologica del XX secolo, il modo in cui Albertelli si approccia alla materia è concettualmente e poeticamente fallimentare. Forse, semplicemente, non era la persona giusta per questo tipo di sigla.
[1] Nella realtà, Goldrake (Grendizer) non è che una delle tante serie robotiche partorite dal creatore di Mazinga, molto meno ricordata in Giappone rispetto ad altre. Goldrake fa comunque parte dell’universo robotico principale di Nagai (a differenza di serie minori non in continuity come Jeeg, Gaiking o Groizer X), ma risulta "barocca", manieristica, priva della potenza originale dei Mazinga e di Getter Robot.
[2] A meno di non voler considerare alla stregua di una trasformazione le due modalità "disco volante" e "robot antropomorfo". Da questo punto di vista, il "pulsante magico" potrebbe essere il comando che avvia la trasformazione (e che in realtà, però, è una leva sul soffitto dell’abitacolo). Da ciò si potrebbe dedurre che le due modalità di Goldrake sono "razzo missile" e "ipergalattico".
[3] Vedi nota 2.
Titolo: Heidi
Sigla della serie: Heidi (Alps no shojo Heidi, 1974)
Parole: Franco Migliacci
Musica: Christian Bruhn
Cantata da: Elisabetta Viviani
Produzione: Rai
Anno: 1978
La serie che ha aperto la strada all’arrivo degli anime in Italia (pur essendo la seconda a essere trasmessa, dopo Vicky il vichingo, che la precede di un anno) ha avuto anche una sigla capace di spalancare il mercato discografico a questo tipo di produzioni, suscitando l’interesse di tutte le etichette. La musica, originale, è dell’esperto maestro tedesco Christian Bruhn (la serie nasceva da una coproduzione fra Giappone e Germania), che propone una delicata variazione sul tema dello jodel, alquanto appropriata all’ambientazione svizzera. Per il testo italiano vediamo invece all’opera uno dei maggiori parolieri nella storia della canzone nazionale: Franco Migliacci. Autore del testo di Nel blu dipinto di blu (come di moltissimi successi degli anni Cinquanta e Sessanta, da Tintarella di luna a In ginocchio da te a La bambola), produttore, scopritore di Morandi e presidente della SIAE recentemente coinvolto in una diatriba con la maggioranza di governo e il Codacons, Migliacci scrive per Heidi un testo che sulle prime appare piuttosto ingenuo e ricco di elementi discutibili: sembra fin troppo facile deridere le caprette salutatrici, i monti ridaroli o “gli amici di montagna muu-muu cip-cip bee-bee”. Ma è tutta questione d’interpretazione estetica. Proviamo a farne una rapida analisi:
[jodel]
1 Heidi, Heidi, il tuo nido è sui monti
Heidi, Heidi, eri triste laggiù in città
Accipicchia, qui c’è un mondo fantastico
Heidi, Heidi, candido come te
[RIT: jodel]
1.1 Heidi, Heidi, tenera, piccola, con un cuore così!
Fin qui, nulla da obiettare: la strofa pone l’elemento base di tutta la storia, il contrasto città-campagna visto attraverso il filtro narrativo della protagonista, di cui viene fornita una connotazione caratteriale di stampo espressionista. Regge anche a livello estetico.
2
Gli amici di montagna (muu-muu!, cip-cip!, bee-bee!)
Ti dicon non partire
Ti spiegano il perché
Saresti un pesciolino che dall’acqua se ne va
Un uccellino in gabbia che di noia morirà
Anche qui l’estetica, benché zuccherosa, è priva di falle. Il tono generale è all’insegna del candore, riflettendo la personalità e l’età della protagonista. In particolare, ritrarre gli amici di Heidi (mucche, uccellini, capre) attraverso le onomatopee dei rispettivi versi può anche essere vista come una scelta efficace, soprattutto nell’ambito di una canzone per bambini. Inoltre, mette in scena il discorso che questi fanno ad Heidi, un discorso chiaramente ideale, in cui i loro versi sembrano dire alla bambina di non partire (un uso che avrebbe approvato anche Pascoli, tutto sommato). Il problema qui nasce forse più sul fronte della corrispondenza reale con la storia: sembra quasi che Heidi voglia partire e abbia bisogno che sia l’ambiente circostante a invitarla a restare, mentre in realtà la bambina non desiderava affatto andarsene dai suoi monti (senza bisogno che nessun capo di bestiame le “spieghi il perché), e la sua partenza è assolutamente forzata. Possiamo però anche leggerlo come un dialogo che ha luogo nell’animo di Heidi, in cui l’immagine della sua amata montagna e dei suoi abitanti le causa il fortissimo desiderio di rimanere, originando la tristezza successiva. Per dirla in sintesi: “Sento che non posso partire, tutto attorno a me mi dice di restare”. Quel ramo del lago di Ginevra, insomma.
3
Heidi, Heidi, ti sorridono i monti
Heidi, Heidi, le caprette ti fanno ciao
Neve bianca, sembra latte di nuvola
Heidi, Heidi, tutto appartiene a te
Queste sono immagini piuttosto semplici: Heidi è talmente ben inserita nel suo ambiente, talmente felice della sua vita, che tutto intorno a lei le comunica gioia e felicità e un senso di appartenenza reciproca[1]. Sul versante estetico, però, troviamo metafore abbastanza ingenue, per quanto ancora una volta in linea con il tono generale del testo e del soggetto. In particolare, l’immagine delle capre che salutano in un modo assolutamente ridicolo, descritto con un’espressione moderna e fuori luogo come “fare ciao”, è troppo folle per funzionare, provoca involontarie risate di scherno e non intenerisce affatto. Il latte di nuvola, d’altro canto, che sulle prime appare un po’ eccessivo (quasi ambiguo), si può ricollegare all’idea (forse persino concretamente messa in scena durante la serie) di Heidi che osserva le nuvole, trovandovi forme simili a mucche. Inoltre, nel punto della sigla in cui viene cantata, si trova l’immagine di Heidi che vola e atterra, appunto, su di una nuvola.
In definitiva, un testo efficace e generalmente ben scritto, con alcune lievi cadute di stile, e dotato di una metrica semplicissima ma senza pecche.
[1] Benché il “tutto appartiene a te” possa far pensare a una Heidi cresciuta che, dopo aver ereditato la fortuna dei Sesemann (probabilmente a scapito di Clara, che ormai passa il suo tempo a passeggiare giuliva), acquista tutto il monte e ne fa un parco giochi per bimbi ricchi, stuprando la natura incontaminata.
di Gianluca Aicardi (con la collaborazione di Luca Ventimiglia)
Titolo: Pinocchio – Perché no?
Sigla della serie: Le nuove avventure di Pinocchio (Kashi no ki Mokku, 1972)
Parole: Carla Vistarini
Musica: Luigi Lopez e Massimo Cantini (Argante)
Cantata da: Luigi Lopez con “La gang di Pinocchio”
Produzione: Rai
Anno: 1980
Dietro la sigla italiana del famoso anime della Tatsunoko ispirato alla creatura di Collodi, troviamo alcuni altri nomi importanti nella storia della televisione italiana.
Carla Vistarini, che ha scritto i testi di più di trecento brani (anche per Ornella Vanoni), è un’autrice televisiva di tutto rispetto, e negli ultimi trent’anni ha lavorato, fra gli altri, con Proietti, Fazio, Riondino, Paolantoni, Bonolis e Chiambretti, e ha curato numerose edizioni del Pavarotti & Friends. Come sceneggiatrice cinematografica ha vinto il David di Donatello nel 1995 per Nemici d’infanzia di Luigi Magni. In coppia con Lopez ha firmato un’altra sigla molto celebre, La fantastica Mimì, per Mimì e le ragazze della pallavolo.
Per questo pezzo Luigi Lopez, cantante e musicista di esperienza, ottiene la collaborazione non accreditata dell’inglese Douglas Meakin, fondatore di gruppi “da sigla” come i Superobots e i Rocking Horse, e che viene considerato uno dei musicisti di maggior talento operante sulla scena delle sigle italiane di quegli anni.
La struttura musicale è infatti piacevole e ricca di variazioni, pensata come una vera e propria canzone anziché un semplice ritornello ripetuto due volte: un’attenzione alla qualità musicale che rivela l’intervento di Meakin, le cui realizzazioni venivano sempre concepite come canzoni pure e semplici, e non sigle. A ben guardare, la struttura di Pinocchio, perché no? va anche al di là della forma classica strofa-strofa-ritornello/strofa-ritornello, e le tre strofe iniziali precedenti il ritornello hanno ciascuna un andamento melodico differente (la terza riprende la seconda ma la conclude diversamente introducendo il ritornello).
Il testo cerca invece di riprodurre una tipica filastrocca per bambini, una strada seguita da molte sigle di questo genere, per ovvi motivi tematici. In particolare questo tipo di stile ben si adattava a Pinocchio, come naturale espressione delle avventure di un burattino-bambino.
Nel campo delle sigle-filastrocca, però, ci sono da fare dei distinguo. Alcune funzionano, sospendendo la logica (e talvolta anche il legame con il soggetto); altre farebbero venire una crisi isterica a Gianni Rodari.
Vediamo questa.
1
Naso di legno, cuore di stagno, burattino
Quando diventerai un bimbo come noi?
Pan di mollica, scansafatica, dove vai?
Sono un burattino e non mi fermo mai!
Si sta descrivendo un burattino e il proverbiale “naso di legno” di Pinocchio è giustamente subito richiamato. La rima interna con “cuore di stagno” è invece più ardita, quasi una citazione da Il mago di Oz: è però concepibile, quasi colto, che un burattino possa avere dello stagno fra i materiali che lo compongono, e l’immagine regge, così come, nella strofa successiva il “vestitino di carta colorato” (anche se l’aggettivo “colorato” viene coordinato con il sostantivo “vestito”, anziché con “carta”, solo per motivi di rima).
L’altra rima interna, “pan di mollica, scansafatica”, mette in campo una strana inversione sintattica (“mollica di pane”), che peraltro, pur suggerendo vagamente l’idea di un altro componente improbabile del corpo di Pinocchio, non sembra avere maggior senso di quello metrico.
2
Con le mie scarpe di zuppa e pan bagnato
Il vestitino di carta colorato
Farò i dispetti a chi sarà cattivo
E sarò buono con chi mi dice: bravo!
Le impossibili “scarpe di zuppa e pan bagnato” cominciano a diventare eccessive: visivamente sono roba degna di Dalì (vorremmo vedere Geppetto a tentare di confezionare scarpe semi-liquide, con tutto che la zuppa avrebbe probabilmente preferito mangiarsela[1]), e concettualmente sono una vera stupidata poetica; se l’idea di concretizzare un proverbio potrebbe essere divertente, la scelta specifica è più comica dell’intento: allora potremmo anche avere un “cappello di mogli e buoi” e una “giacchetta di gatta e lardo”!
La seconda parte introduce la personalità del protagonista, anche se la rende un po’ troppo positiva nel suo suddividere i comportamenti fra buoni e cattivi, suddivisione che odora di tranquillizzazioni parentali.
Si noti invece il discreto passaggio, ripetuto più volte, fra il punto di vista dei bambini, ideali spettatori delle avventure del burattino (“Quando diventerai un bimbo come noi?”), e quello di Pinocchio stesso (“Sono un burattino e non mi fermo mai!”). Solo a tratti, però, avviene anche un passaggio effettivo dalla voce di Lopez a quella del coro di bambini: le occasioni in cui accade sono motivate unicamente da ragioni musicali (peraltro di buon effetto).
3
Faccio festa per trenta giorni al mese
E il calendario per me, lo sai, non ha sorprese
Un verso che stabilisce in modo chiaro il tratto fondamentale del protagonista: quello di scansafatiche che non vuole andare a scuola, in linea perfetta con l’originale collodiano (a cui la serie peraltro si ispira molto vagamente).
L’espressione “trenta giorni” al mese è ovviamente comune, anche se poi uno si potrebbe chiedere come si comporti Pinocchio a gennaio, marzo, maggio, luglio, agosto, ottobre e dicembre. Magari recupera i giorni di festa mancati a febbraio, chissà.
Peraltro, non si capisce come un calendario potrebbe riservare sorprese a chicchessia (“Toh, guarda, aprile ha trenta giorni! Pensavo ne avesse trentuno!”).
3.1
Natale e Pasqua, Befana e Ferragosto
Sempre domenica è per me
E se domenica non è
È festa uguale, lo so
“Ma perché per noi no?”
Che ne so!
Una certa aria di stupidata logica pervade questo passaggio. “Natale e Pasqua, Befana e Ferragosto / Sempre domenica è per me”: a rigor di logica, Pasqua è sempre domenica per tutti; le altre festività cadono di domenica negli anni iellati come il 2004. Ma in realtà apprendiamo che tutto ciò non importa, perché per Pinocchio: “se domenica non è / È festa uguale”. Quindi, ricapitolando: per lui tutte le feste cadono di domenica (il che è male), ma di fatto non gliene frega nulla perché tanto lui festeggia anche negli altri giorni. La cosa non fa una piega, se non che non si capisce quale sia l’utilità di raggruppare tutte le feste di domenica: forse per far danno agli altri, così lui può festeggiare alla faccia loro.
R
Pinocchio, ma dove vai?
Pinocchio, che cosa fai?
Pinocchio, la fantasia
È solo una bugia!
Le domande oziose dei primi due versi sono troppo palesemente messe lì per questioni metriche, non avendo in realtà un grosso significato (“dove vai?” e “cosa fai?” lo si potrebbe chiedere a qualunque protagonista di qualunque serie, è qualunquismo poetico della peggior specie); il concetto “la fantasia è solo una bugia” è d’altro canto piuttosto interessante, rovesciando quello più classico che vuole una menzogna essere frutto di creatività: in questo caso sembra quasi si voglia intendere che ciò che costituisce la fantasia umana, il suo vero fondamento, è il mentire, e che ogni artista è di fatto un imbroglione (concezione espressa da molti in vari modi nel corso della storia della filosofia e della letteratura).
Oppure si voleva intendere l’inverso e questa è semplicemente un’altra stupidata.
4
Son piccolino, lo so, ma m’intrufolo dappertutto
Non ho paura, però, un po’ me la faccio sotto
Sono una peste, dei grandi me ne infischio
E un terremoto farò, se no non provo gusto
Essere piccolino e intrufolarsi dappertutto non sembrano due concetti in contrapposizione, a meno che con “intrufolarsi” non si intendeva “immischiarsi” (questa interpretazione sarebbe supportata dal primo verso della strofa successiva). Gli altri tre versi della strofa sono efficaci nel dipingere Pinocchio e le sue idiosincrasie: un po’ audace e un po’ pauroso, irrispettoso dell’autorità, amante della confusione e combinaguai.
5
Che confusione laggiù, spostatevi che m’impiccio
Io mi diverto di più se termina in un pasticcio
A lavorare, a scrivere e a studiare
Ci mando gli altri, senza me
Io sto in vacanza, e sai perché?
Un burattino non può
“Ma perché lui non può?”
Perché no!
I primi due versi continuano la strofa precedente (a cui sono peraltro metricamente legati), i successivi rafforzano ancor di più le tendenze sociopatiche di Pinocchio, che oltre a non voler prendere parte al sistema di doveri imposto dalla società, manifesta la tendenza a disprezzare l’altrui fatica.
La citata attività dello “scrivere”, distinta da quello dello “studiare”, sembra un po’ inconsueta per un bambino-burattino. Si può azzardare l’ipotesi che l’autore, in questo caso, si sia introdotto nel testo, inserendo il suo personale travaglio quotidiano: scrivere, appunto.
Forse un po’ farraginoso, infine, il verso “Un burattino non può”, che per motivi metrici contiene un’ellissi abbastanza forzata, e per giunta ribadita nel verso seguente. Va letto infatti come “Un burattino non può (fare ciò di cui si sta parlando)”.
[Ripete R]
[Ripete 3.1]
Naso di legno, cuore di stagno, burattino
Quando diventerai un bimbo come noi?
Pan di mollica, scansafatica, dove vai?
Sono trottolino…
Sono piccolino…
Sono un burattino e non mi fermo mai!
Nell’ultima reprise si segnala soltanto la variante un po’ stucchevole “Sono trottolino”, e l’ancor più stucchevole ricorso a un corista molto giovane (probabilmente di non più di quattro anni) per pronunciare la battuta “Sono piccolino”.
In conclusione, la canzone è molto riuscita, piena, come si è detto, di gradevoli cambi di tempo e con l’ottimo inserimento di un vibrafono a suggerire il suono dei passetti frenetici di Pinocchio, quasi a ritmo di tip-tap.
A livello testuale tenta la carta del filastrocchismo, confezionando un testo di facile presa (più di un passaggio si incolla automaticamente alla mente, rendendo questo testo uno di quelli più facilmente memorizzati e ricordati dagli spettatori di allora), ma cade rovinosamente in alcuni punti, dove l’intento ironico precipita nel campo del risibile per colpa di un paio di decisive stupidate.
[1] Del resto, Mastro Geppetto non era proprio una cima, come chiunque passi svariati anni dentro uno squalo (e non una balena, com’è noto). Che poi non c’è neanche tutto questo spazio dentro uno squalo, praticamente era come essere rinchiuso in un sarcofago salmastro. Tacendo della curiosa disfunzione cronica dell’apparato digerente del grosso pesce, e di come questo abbia potuto mantenersi in vita per tutto quel tempo, ingolfato da un vecchio bacucco.
La serie di articoli "Odia gli stupidi" è stata concepita per il sito dei Bishoonen, un gruppo musicale ligure che si occupa di cover di sigle di cartoni animati e che tutti dovreste andare a veder suonare prima o poi. La responsabilità della creazione è da attribuire a me e a Gianluca Aicardi, ma il contributo di quest’ultimo è innegabilmente maggiore del mio. Per queste ragioni (il target e gli autori) il tono e lo stile potranno sembrarvi diversi rispetto ai soliti Pinguini: ciononostante, ritengo che siano una lettura talmente piacevole e divertente che la voglio proporre anche a chi, dei miei quattordici lettori, non frequenta i Bei Ragazzi.
Luca XX
ODIA GLI STUPIDI
Commentario esegetico alle sigle delle serie animate d’annata
di Gianluca Aicardi
Ogni serie animata che venga importata in un Paese diverso da quello di origine (ossia, in gran parte dei casi, USA o Giappone) richiede, come ogni altro prodotto audiovisivo, la traduzione, l’adattamento e il ridoppiaggio dei dialoghi nella lingua di destinazione. Una peculiarità dei prodotti seriali, però, è costituita da ciò per cui il simpatico complessino celebrato in questo sito è diventato (quasi) famoso: le canzoni eseguite durante le sigle di apertura e chiusura di ogni episodio. Le sigle sono importanti, definiscono il tono della serie, affascinano e fidelizzano il pubblico, e sono anche un modo per aumentare il giro d’affari di una produzione. Per questo motivo, la prima ondata di animazione televisiva giapponese giunta in Italia a partire dalla fine degli anni Settanta ha visto sorgere anche il fenomeno della riscrittura delle sigle, talvolta inserendo testi italiani sulla musica originale, più spesso in toto. I dischi delle sigle venivano poi venduti con profitto sul mercato italiano, sulla scia del successo del programma TV.
Il vero e proprio patrimonio culturale rappresentato dalle sigle commissionate dalle nostre reti televisive tra gli anni Settanta e gli Ottanta nasconde interessanti punti di analisi, da un punto di vista testuale, musicale e storico. Tralasciando quest’ultimo aspetto, il più complesso (attorno a quelle produzioni ruotavano molti illustri personaggi del mondo televisivo e discografico di allora, e le vicende produttive di certi brani meriterebbero un approfondimento ben più ampio), rimane da esaminare il valore musicale di ciascuna di quelle canzoni, ma soprattutto il testo che le accompagnava, e che spesso era il punto dolente dell’intera operazione. Ricordiamoci infatti che stiamo parlando di oggetti pensati unicamente come prodotti di consumo, e per di più diretti quasi esclusivamente a un pubblico molto giovane. Questo non ha impedito ad alcuni dei musicisti coinvolti (molti dei quali, come vedremo, vantavano una vasta esperienza e indiscusse capacità) di creare un impianto musicale magari manierista[1], ma efficace e talvolta persino pregevole; la qualità dei testi, d’altro canto (e anche qui c’erano fior di professionisti a curarli), era l’ultima preoccupazione di autori e committenti, che puntavano soprattutto a ottenere motivi semplici e orecchiabili.
Così, con le dovute eccezioni, le sigle delle serie animate sono da sempre popolate di strofe improbabili e ritornelli deliranti, di immagini accidentalmente surreali e di vere e proprie assurdità logiche, pressappochismi e goffaggini stilistiche; tutti elementi che per comodità riassumeremo nel termine tecnico di “stupidate”.
Le categorie di stupidate sono essenzialmente quattro:
– stupidate assolute: versi che esprimono concetti erronei e/o ridicoli (per citarne una celebre, l’idea che un robot, essendo un ritrovato scientifico, mangi “libri di cibernetica” e “insalate di matematica”, benché possa ancora passare per metafora comica), inclusi errori di logica senza licenza poetica che tenga, e cantonate dovute a ignoranza scientifica o pressappochismo (“una stella che è esplosa anni luce fa”)
– stupidate relative: concetti che potrebbero funzionare di per sé, ma non hanno senso parlando della serie in questione (Lupin non “ruba i soldi solo a chi ce n’ha di più per darli a chi non ne ha”, non si è mai sognato di farlo in vita sua!)
– stupidate poetiche: il ricorso a versi di scarsa qualità, goffi o involontariamente comici (“le caprette ti fanno ciao”), oppure elementi inseriti a sproposito per pura necessità metrica
– strafalcioni linguistici: errori puri e semplici nell’uso della lingua (“spazio e tempo non ti fermerà”)
Nella serie di articoli che seguiranno in questa rubrica, useremo questi strumenti di analisi, ma non solo: il tentativo è quello di sviscerare questi testi non tanto per metterli alla berlina ma anche e soprattutto per capire cosa c’era di valido, quali possono comunque considerarsi riusciti, facendo sempre le debite proporzioni e non dimenticando mai il tipo di materiale e di ispirazione che stiamo trattando.
Cercheremo anche di dire qualcosa sul versante musicale, talora con l’assistenza tecnica dei Bei Ragazzi in persona.
Enjoy.
[1] Quando non contenente veri e propri stralci di brani già esistenti, come si vedrà caso per caso.