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Per i ritardatari
Mi do da fare
Sono alla moda e tuitto
Luca on the skis with diamond
Ho iniziato a sciare quando
avevo sei anni. Coi miei scietti e imbacuccato sotto strati di piumini,
andavo goffo sul baby: persino un bimbo brutto come me doveva essere
carino, messo così. Per tutte le scuole elementari mi son fatto la mia
brava bisettimana bianca, in cui si sciava solo al mattino, di solito
con un maestro. Uno di essi, Serafino, quando sbagliavo esclamava "Porca puzzola".
Il pomeriggio a non far nulla di particolare, compiti delle vacanze e
cartoni animati. Meno di frequente si partiva la domenica, sacrificando
una preziosa mattina di sonno, e in capo ad un paio d’ore si era a
Monesi, Prato Nevoso, San Giacomo o una delle località sufficientemente
vicine alla Liguria da permettere un giorno bianco. E a Natale, spesso,
preziosi "slot" da regalo di diversi parenti erano fagocitati dalla
roba da sci, che doveva essere adeguata alla mia crescita ancor prima
l’usura la rendesse inservibile.

C’era però qualcosa che non mi
convinceva
completamente in tutto questo traffico. Mi chiedevo cosa ci
fosse di così bello nel salire e scendere per le montagne tutto il
giorno. Mi domandavo se avesse senso dedicare un terzo scarso del tempo
a scendere e due terzi a fare code e a risalire in quegli noiosissimi
skilift, soffrendo alternativamente caldo e freddo. Mi interrogavo sul
fatto se fosse normale spendere così tanti soldi in spostamenti,
skipass e pessimi pranzi, tollerando l’ingiustificabile scortesia
tipica della gente di tutte le località sciistiche. Mi chiedevo se
valesse la pena di alzarsi presto la domenica per sobbarcarsi
sbattimenti simili. Mi meravigliavo del fatto che un’attività del
genere giustificasse l’assenza di due settimane da scuola, quando per
il resto i miei erano rigorosissimi nel limitare le assenze. Mi pareva
assurdo quello che molti sciatori dicevano, e cioè che la cosa più
bella dello sci è togliersi gli scarponi per mettersi i doposci al
termine di una giornata sulle piste: è come dire che è bello farsi
prendersi a martellate nei coglioni perché quando si termina la tortura
il dolore smette! Mi sorprendevo sul senso di mettere a dura prova la
salute: era quasi inevitabile che, tra me e mia sorella, almeno uno dei
due durante la settimana bianca cadesse malato, probabilmente per
conseguenza degli sforzi e degli sbalzi di temperatura. E, soprattutto,
mi chiedevo se non era meglio dedicare quei regali ai Masters o altri
giocattoli invece che a stupidi scarponi o racchette.
Ma, da
bambino, certe cose non vengono messe in discussione. Se tutti mi
dicevano che sciare è tanto bello, probabilmente ero io che non capivo
qualcosa, e allora stavo zitto, subivo e speravo di capire cosa ci
fosse di così divertente.

Verso il liceo ho spinguinato la cosa:
come da definizione di "Pinguino nel salotto", a posteriori c’è da
chiedersi come ho fatto a metterci così tanto tempo a rendermi conto
che non mi piaceva sciare, ma il processo non è stato immediato. La mia
ultima settimana bianca invernale è avvenuta nel 1990, in seconda
liceo. Per un paio di anni sarò andato a sciare ancora tre o quattro
volte, fino all’estate 1992, quando, a Le Deux Alps, ho messo su gli
infernali aggeggi per l’ultima volta.
Riesaminando la cosa, devo
dire che dev’esserci qualcos’altro sotto, al di là delle ragioni
perfettamente razionali che ho sopra esposto e che avevo perfettamente
chiare già a dieci anni. Infatti, quando penso ai miei ricordi delle
gite in montagna, mi sovvengono una quantità impressionante di ricordi
sgradevoli: quella volta che mi sono perso nella nebbia e mi sono
spaventato a morte; quella volta che mia mamma si è arrabbiata perché a
suo parere facevo i capricci (ma ero solo stanco e stressato); quella
volta che abbiamo avuto l’idea di andare in montagna con la parrocchia
e, dopo essersi sincerato che tutti gli iscritti fossero presenti
all’appello alle sei di mattina, un prete imbecille ha costretto tutti
ad andare a messa prima di partire; quella volta che sono caduto in un
fosso ai bordi della pista e non riuscivo a risalire, con la gente che
passava, mi indicava e rideva senza aiutarmi; quella volta che sono
stato male perché mi avevano dato un panino con la salsiccia cruda (che
da bambino mi disgustava, ora la adoro); quella volta che, sulla strada
del ritorno, ho avuto dei problemi fisiologici e me la sono fatta
addosso.
Niente male, eh? C’è quasi da stupirsi che si ancora in
grado di avvicinarmi ad una montagna senza gridare dal terrore. O
forse, più semplicemente, sono un uomo di mare e quella roba bianca,
fredda e bagnata
non fa parte del mio mondo.

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