E’ veramente cosa buona e buffa, nostro piacere e fonte di gaiezza ricordare l’espressione “Giacomo giacomo” riferita alle ginocchia che tremano per la stanchezza, per la paura o perché Platinette vi si è seduta in testa. Quale sia l’origine del grazioso detto è invero un mistero, ma suppongo che qualcuno meno pigro di me possa fare una ricerchina su Google e risolverlo prima che si possa dire “Tetraedralizzazione”. Il vero mistero, e cagione della scimmia con la cacca in mano che staziona qua a fianco, è se esiste un modo di dire più buffo. Secondo me no.
Ai miei tempi, quando non c’erano internet e i blog e Maispeis e Fessabuca, i liceali (anzi, soprattutto le liceali) avevano il Culto del Diario. Forse ce l’hanno ancora, non lo so, non frequento liceali, ma a me piace credere che i tempi sono cambiati e i giovani d’oggi non si dedicano più al Culto del Diario, così posso fare un po’ il vecchio brontolone.
Il Culto del Diario consisteva nello scrivere roba sul proprio diario scolastico, affiancando così voti e compiti a disegnini, scritte giganti fatte con l’Uniposca, osservazioni sui propri compagni di classe scritte in un alfabeto segreto (*), testi di canzoni di Vasco Rossi, poesie maledette. I più feticisti (o forse i più cubisti sintetici) incollavano anche ricordi come biglietti dell’autobus usati per uscire col fidanzato, messaggini cartacei dello stesso, o, sfiorando la perversione, ciocche di capelli o addirittura mozziconi di sigarette (bleah!).
Accanto a tutto questo, c’erano le frasi standard, quelle che “suonano bene” o fanno ridacchiare e che sono state inventate da chissà chi. Sarebbe bello raccoglierle e osservare la loro evoluzione nel tempo e nello spazio, ma sarebbe necessario l’accesso a migliaia di diari di ragazzine e leggerli tutti con attenzione. Che palle, fatelo voi!
Qua ci limiteremo a qualche esempio:
Non urlare forte la tua felicità, la tristezza ha il sonno leggero.
(Brrr…)
Come la barca lascia la scia, io ti lascio la firma mia.
(Forse questo è un po’ più infantile, e tipico di chi prende il diario di un altro e non sa che scriverci. Però l’espressione “lascia la scia” è un gioiellino poetico. Un abbonamento semestrale a “Trottolino Mese” a chi mi dice di che figura retorica si tratta.)
Lo studio è lavoro, il lavoro è fatica, la fatica è sudore e sudare fa male. Quindi, ci ce lo fa fare?
(Di questo so persino la fonte: una cartolina di auguri di Lupo Alberto. Comunque, non è vero che lo studio è lavoro, non necessariamente il lavoro è fatica, non sempre alla fatica corrisponde il sudore, e in ogni caso sudare non fa male. Quindi studiate, sfaticati!)
Se fumi Marlboro, ti amo e di adoro. Se fumi Muratti, ti amo da matti. Se non fumi niente, ti amo ugualmente.
(Probabilmente la mia preferita. Adoro l’implicazione dell’ultima frase: “Anche se è noto che tutti gli adolescenti ganzi fumano, giusto per te potrei fare un’eccezione e amarti lo stesso. Però vediamo di rimediare, eh! Il tabacchino sta lì dietro.”)
Se ne avete altri da citarmi, sarei l’uomo più felice del mondo. Ovviamente non lo griderò, c’è Mariagrazia Tristezza che dorme sull’amaca qui vicino.
(*) Uno degli atti più malvagi che io abbia compiuto nella mia vita è copiarmi un po’ di queste frasi dal diario di una mia compagna di classe. Essendo un banale sistema crittografico del tipo “a simbolo uguale corrisponde lettera uguale”, in una mezzoretta lo decifrai e scoprii un sacco di tresche che prima ignoravo.
Uno dei molteplici motivi per cui da bambino (e forse ancora adesso) ero insopportabile consisteva nel fatto che ponevo un sacco di domande. Ma non questioni facili, tipo “qual è la capitale della Svezia”, “perché la squadra di Genova si chiama Genoa”, “da dove vengono i bambini”, ma piuttosto cose tipo “perché il cielo è blu” che metterebbero in crisi quasi chiunque (*).
Se però le domande di ambito scientifico potevano mettere in crisi i miei, non altrettanto succedeva per quelle relative ai settori umanistici, in cui erano assai preparati. Un giorno mi capitò di chiedere a mia mamma: “Perché l’Italia si chiama così?” e lei, senza esitare, diede la risposta che tuttora è considerata la più valida: “In antichità venne chiamata Vitalia poiché c’erano tanti vitelli , poi è caduta la V e ora si chiama Italia”. L’immagine che mi dipinsi fu la seguente: le lettere della parola Vitalia camminano su un ponte sospeso, tipo il finale di Indiana Jones e il Tempio Maledetto, cantando una non precisata canzone. A un certo punto V mette un piede in fallo e sotto gli sguardi attoniti di T,L, le gemelle A e i trigemini I precipita nel vuoto. L’etimologia è una scienza crudele.
(che poi, ci avranno le loro ragioni i signori etimologi…ma davvero si può attribuire il nome di un territorio di 300.000 kmq in base al fatto che ci sono i vitelli? E poi non le mucche e i tori o i bovini in generale -che, a naso, stanno dove stanno i vitelli-, ma proprio i vitelli? Beh, meglio così. Avremmo potuto abitare in Ucchia, dopo l’inevitabile caduta della M. Figuratevi Mino Reitano che canta “Ucchia! Ucchia! Di terra bella uguale non ce n’è!”)
(*) Quanti di voi sanno perché il cielo è blu? Io ne ho una vaga idea, ma non so se sia esatta, e tantomeno saprei spiegarlo a un bambino.