xxmiglia.com's
uFAQ
Scrivermi?
Categorie
Ricerca

Per i ritardatari
Mi do da fare
Sono alla moda e tuitto
Longshot Comics di Shane Simmons

Il fumetto senza disegni esiste…

Esiste una scuola di pensiero che ritiene che i fumetti siano una forma di espressione composta da disegni e testo. Ora, per smentire questa ipotesi un po’ puerile gli esperti nel campo andranno a citare la verbosissima (e, a dirla tutta, un po’ inconcludente) dissertazione di Scott McCloud nel suo fondamentale Understanding Comics, ma per convincere un profano senza parlare di closure è più semplice citare il controesempio di un fumetto senza testi (un qualsiasi fumetto muto, come Piccolo Babbo Natale di Lewis Trondheim). Ora, con Longshot Comics, è possibile anche mostrare la situazione opposta: un fumetto coi testi ma senza disegni. Non ci credete? Ecco qua un esempio, tratto da uno dei segnalibri promozionali:

Per non pochi, infatti, Longshot Comics è diventato il “fumetto dei puntini” o “quello coi puntini che parlano”. In realtà tutto questo è falso. L’autore stesso, il canadese Shane Simmons, spiega come la sua opera sia composta da disegni particolareggiatissimi, rimpiccioliti però all’inverosimile (cioè presi in campo lungo, “longshot”, appunto) fino ad essere ridotti a puntini. Qua a video non è possibile farlo per ragioni tecniche, ma se comprerete l’albo potrete sbizzarrirvi, con lenti di ingrandimento o anche microscopi, a scoprire i dettagli del disegno. (Come, non ci credete? Beh, nemmeno io. Ma vi assicuro che più di una persona ha reagito con uno stupito “Ma davvero?”)

Ma l’esperienza di Longshot comics dal punto di vista visivo non è tutta qui: l’opera è immensa, è fatta da 3840 vignette, l’equivalente di un fumetto tipo Dylan Dog di oltre 700 pagine. E in quanti volumi viene pubblicato questo ben di dio? In uno solo. E di 56 pagine…ma pagine come questa:

– Ma l’immagine è illeggibile!, direte voi.

Certo che lo è, dirò io, altrimenti poi non mi comprate l’albo: non dimenticate che qui stiamo facendo bieca pubblicità. Ma, suvvia, solo per scopi promozionali, potete cliccarci sopra per un’immagine in risoluzione maggiore. Ma che sia l’ultima volta, la prossima pagina la pagate!

…ed è pure fico!

Ora, tutto questo è interessante e qualifica Longshot Comics come un volume innovativo che esplora il fumetto come forma di espressione, e probabilmente già basterebbe per essere degno di pubblicazione; quello però che lo rende un capolavoro è anche ciò che viene raccontato in quelle 3840 vignette.

Prima di parlare del rapporto tra Longshot Comics e la Storia e perdere i miei pochi lettori inizio col dire che è un fumetto che fa ridere e fa piangere: i dialoghi sono arguti e fulminanti, con un umorismo a tratti cinico in stile Monthy Python (seriamente, ha poco da invidiare allo storico gruppo britannico) , ma contemporaneamente la storia, mediante alcune sorprendenti variazioni di registri, è in grado di commouovere (soprattutto nel finale, provate voi a non farvi scappare una lacrimuccia!) e anche di trarre una morale importante da quello che racconta. E ora che siete ancora qua, di che cacchio parla Longshot Comics?

Longshot Comics è la biografia di un certo Roland Gethers, nato nell’Inghilterra vittoriana e morto dopo la seconda guerra mondiale. Sono 89 anni di vita che comprendono il periodo più convulso della storia dell’umanità, quello che ha traghettato il mondo nell’epoca contemporanea attraverso guerre, sconvolgimenti politici e cambiamenti radicali di modi di vivere e di pensare. Roland combatte tre guerre, fa diversi lavori, si sposa, ha figli e nipoti come una persona qualunque; tuttavia, nel mentre, egli non riesce mai ad afferrare quello che sta succedendo e rimane sempre un passo indietro rispetto ai propri tempi: la prima guerra mondiale è giusta perché la comandano gli ufficiali inglesi, che hanno conquistato un impero e quindi guidano il miglior esercito al mondo, la seconda è sbagliata perché la prima è stata un disastro. E’ questo conflitto, in qualche modo, a rendere chiaro agli occhi del lettore moderno il passare del tempo e l’evolversi dell’Umanità.

Un po’ di backstage

La lavorazione di Longshot ha avuto i suoi problemini, ma nel complesso è andata piuttosto liscia. Prendere i diritti è stato semplice, probabilmente il buon Simmons non riusciva a crederci che avrebbe tirato fuori ancora qualche soldino da un albo autoprodotto uscito oltre dieci anni fa. Quello che invece ci ha fatto sudare è stata la scelta del formato. L’edizione originale di Longshot Comics è un normale, orrendo comic book: 24 pagine spillate 17×26. Esiste un’altra edizione al mondo, quella tedesca, che è invece un brossurato 17×13, col doppio di pagine. L’autore, da noi consultato, sostiene che per la natura della struttura dell’opera non ci sono problemi a rimontare le vignette: avevamo quindi totale libertà di scegliere il formato delle pagine, e per mesi ci siamo sbizzarriti con le ipotesi: metà di un comic book come i tedeschi, formato cd, formato libretto d’opera, formato striscia… Sì, mesi, abbiam passato dei mesi a parlarne prima di decidere. La scelta, alla fine, è un formato quadrato di 17 centimetri. Ne sono orgoglioso, è davvero un bell’oggetto.

La stesura del testo (traduzione e revisione) è filata relativamente liscia, anche se la quantità di testo da gestire è veramente impressionante. Diverse questioni sono state dibattute, ma nessuna ha generato una mole di discussione paragonabile a quella che ha visto “Abacuc vs. Habbakuk”. Decine e decine di mail per decidere se il fratello di Roland (un personaggio che avrà sì e no cinque battute) si chiamasse in un modo o nell’altro credo che siano un buon indizio della cura posta nella traduzione.

Della mole del testo si è accorto anche il nostro buon letterista, il quale aveva sentenziato: Beh, sono 48 pagine. Le posso fare in una settimana scarsa, contando gli altri impegni che ho. Il povero illuso ha scoperto che 3840 vignette, quasi tutte piene di dialoghi, sono tante. Tante. Tante. A suo onore, va detto che ha consegnato comunque in tempo per la stampa.

Lo voglio!

Siete ancora lì? Correte ad acquistare: Longshot Comics – La lunga e inutile vita di Roland Gethers di Shane Simmons
Brossurato 17×17 cm – 56 pagine b/n – 4,90 euro

Lo potete trovare nelle migliori fumetterie (migliori nel senso di “più grandi” o “più lungimiranti”) a partire da dicembre 2007, nelle principali librerie a partire da gennaio 2008, oppure a partire da subito scrivendo a ordini@progloedizioni.com

cover_longshot.jpg

Krotki post o titulosci (ovvero: prima ti compro, poi ti rititolo)

L’articolo di oggi è a cura di un ospite, il vice-capo commentatore Kumagoro. E non perché non sapevo che cacchio scrivere (o almeno, non solo), ma perché è un articolo spassoso e istruttivo nonché, come da tradizione dell’orso in questione, logorroico.

A volte, di fronte a certi scempi, ci si chiede: ma come diavolo li traducono i titoli dei film?
Il fatto è che i titoli non vengono semplicemente tradotti, vengono scelti. Il distributore locale decide con quale titolo far uscire il film nel Paese per cui detiene i diritti. A volte i titoli risultano curiosamente simili, ma è un puro caso. Di solito i nostri sagaci distributori (che spesso sono la dipendenza italiana di distributori internazionali) utilizzano le regole apprese alla scuola di marketing della Sora Lella.

Casi abbastanza recenti sono arrivati a indignare gli appassionati di cineasti di grido come i fratelli Coen (Intolerable Cruelty che diventa Prima ti sposo poi ti rovino) o Spike Jonze (dall’inquietante e lynchiano Eternal Sunshine of the Spotless Mind si è arrivati addirittura a un pacchianissimo e vanziniano Se mi lasci ti cancello).

Questo tipo di “rititolazione ignorante” appartiene in realtà a una tipologia molto in voga, che tiene banco a partire dagli anni Sessanta (i titoli italiani dei film dell’epoca d’oro di Hollywood sono invece spesso molto più sobri). Il concetto è: non permettere che lo spettatore fraintenda il genere e il tono del film. Il problema è: ma tu, distributore, li hai davvero capiti il genere e il tono del film? Oppure, hai capito la differenza tra questo film in particolare e altri film dello stesso genere e tono, ma di prestigio e autorialità differenti?

Questo principio si direbbe però funzionare al botteghino, perché non ha mai conosciuto flessioni di utilizzo. Frequenta soprattutto le commedie, che in genere non hanno scampo. Ecco così che Vacation si trasforma in Ma guarda un po’ ‘sti americani! (con tanto di aferesi) e Home Alone nel famoso e purtroppo imitatissimo Mamma, ho perso l’aereo!
In generale, i titoli italiani di questo genere tendono a essere resi mediante una frase in prima persona, idealmente esclamata da uno dei protagonisti. I casi più intollerabili sono toccati a un grande come François Truffaut, reo di aver realizzato nella sua carriera anche varie commedie. Celebre è il Domicile conjugal diventato Non drammatizziamo, è solo questione di corna!, ma non male anche Une belle fille comme moi, che da noi è noto come Mica scema la ragazza!
Stesso tipo di logica per La sirène du Mississippi, che viene anch’esso volto in prima persona e diventa La mia droga si chiama Julie (citare la parola “droga” in un titolo faceva evidentemente molto effetto dopo il Sessantotto).
Bello anche il caso di Boxcar Bertha, esordio di Martin Scorsese, diventato America 1929: Sterminateli senza pietà!, che fa molto film di fantascienza anni Settanta con venature steampunk (peccato che sia invece un dramma storico).
O ancora, The Fearless Vampire Killers di Roman Polanski tradotto come Per favore non mordermi sul collo, nonché, analogamente e sulla scia, The Producers di Mel Brooks tradotto come Per favore non toccate le vecchiette.

Ci sono poi i titoli-genere. Un thriller potrà in originale intitolarsi come gli pare, ma da noi nel novanta percento dei casi avrà un titolo nella forma sostantivo+aggettivo, entrambi appartenenti al campo semantico del noir: Ossessione mortale, Tentazione fatale, Torbida trasgressione, Seduzione letale, e varie permutazioni. Al massimo, si può arrivare a Partita con la morte.
Oppure, riecco spuntare la vecchia scuola anni Settanta-primi Ottanta, che anche qui insiste nel dare una connotazione precisa, memore della gloriosa stagione dei b-movie italiani tanto amati da Tarantino. Ecco quindi The Hunger di Tony Scott tradotto come Miriam si sveglia a mezzanotte e Foxes di Adrian Lyne che diventa A donne con gli amici.

Ferali anche i sottotitoli. Sempre un problema di voler spiegare il film nel titolo è il caso di Target di Arthur Penn, che da noi è diventato Target – Scuola omicidi, senza che ci fosse alcun legame logico fra la trama del film (un thriller psicologico senza molta azione) e il termine “Scuola omicidi”, puramente evocativo di un’atmosfera abbastanza fuorviante.

Moda degli ultimi anni, a volte la scelta cade sul non-adattamento del titolo. Maggiore fedeltà all’originale? Finalmente l’agognato rispetto dell’opera trasposta? Illusione. Semplice tentativo di risultare accattivanti presso una certa parte di pubblico considerata destinataria principe del film. E non mancano eccessi inutili: qual è il senso di lasciare inalterati titoli, per giunta di ardua pronuncia, come Once Were Warriors o Y tu mamá también?

Certo, sempre meglio che tradurre un titolo straniero con un altro titolo straniero senza alcun legame: si veda Mad Max diventato un ancor meno pronunciabile, insensato e anonimo Interceptor. Ma i casi da citare sarebbero fin troppi.
Qui però ricadiamo forse già nel caso dell’errore marchiano e della miopia produttiva. Spesso infatti un titolo italiano stravolgente è stato assegnato a film che stavano dando inizio a una serie, come Die Hard, ambientato in un grattacielo, che diventa Trappola di cristallo (memore del celebre L’inferno di cristallo, che però in realtà era The Towering Inferno: la passione per i cristalli evidentemente è tutta italiana). Ma, ahinoi, all’epoca di Die Hard 2 il protagonista Bruce Willis è certamente ancora “duro a morire”, ma purtroppo non c’è più alcuna traccia di qualunque cristallo di sorta. La vera trappola è quella che appare inevitabile anche per i più smaliziati project manager degli anni Duemila: cosa dire di Pirates of the Caribbean: The Curse of the Black Pearl, che annunciava a caratteri cubitali l’appartenenza a una serie già bella e progettata, e che in italiano ha perso proprio il titolo generale della serie, diventando soltanto La maledizione della prima luna? (Titolo peraltro assolutamente imbecille, dal momento che la maledizione del film è legata alla luna piena, mentre la “prima luna” è una luna nuova, e che per tutto il film nei dialoghi si parla della “maledizione della Perla Nera”!).

Caso clinico fu il secondo episodio di Venerdì 13. Primo film: Friday the 13th; traduzione: Venerdì 13. Facile, pulita. Secondo film: Friday the 13th – Part 2. Completare la sequenza non sembrava così difficile… E invece no! È infatti “sfuggito” il fatto che Friday the 13th – Part 2 alludesse “a un certo altro film”, ed è stato perciò ribattezzato L’assassino ti siede accanto. (Non indagherò se l’uscita del secondo film precedette in Italia quella del primo; ma in ogni caso, a voler essere un po’ lungimiranti, si poteva al massimo chiamare il secondo film Venerdì 13, sperando poi di distribuire anche l’altro, e invertendo semplicemente l’ordine dei sequel – tanto più che le trame di tutti questi slasher sono grossomodo identiche).

E che dire dei Racconti delle quattro stagioni del grande Eric Rohmer? Ogni film ha un titolo indicante la relativa stagione, e a video compare sempre anche il titolo della quadrilogia. Un bimbo di terza elementare non avrebbe problemi. Vediamo: Conte de printemps, Racconto di primavera. Conte d’hiver, Racconto d’inverno. Facile, no? Ma prima del quarto e ultimo, (Conte d’automne, Racconto d’autunno), c’era il Conte d’été, e questo ha messo in crisi i nostri distributori. Così, giunti al terzo capitolo, dopo sette anni che andava avanti la serie, ecco I racconti delle quattro stagioni – Un ragazzo, tre ragazze!

Tralasciando, poi, i tentativi inversi di lanciare film di secondo piano facendoli sembrare seguiti di film di successo (famoso il caso di Balle spaziali 2, che è in realtà una commedia fantascientifica intitolata Martians Go Home, o i vari finti seguiti di Alien, La casa e 2001: Odissea nello spazio), rimangono i misteri insondabili. Perché, ad esempio, il film tratto dal best-seller kinghiano Dolores Claiborne, in vendita in tutti i migliori supermercati, in Italia è diventato L’ultima eclisse? Follia? Masochismo?

Ma facciamo una rapida carrellata tra le asinerie assortite più divertenti.

Dirty Mary Crazy Larry, action movie anni Settanta con Peter Fonda, diventa Zozza Mary pazzo Gary. Per fare meglio rima (cosa che non era comunque prevista), si è pure cambiato nome al protagonista. E il dispregiativo dialettale “zozza”, che traduce (anche letteralmente) “dirty”, è un vero tocco di anti-classe.

C’è poi quella che è forse la worst adaptation ever (o quantomeno l’apoteosi della banalità): il film(accio) con Russell Crowe e Meg Ryan intitolato Proof of Life, e incentrato su un rapimento a cui segue una richiesta di riscatto, viene astutamente intitolato… Rapimento e riscatto!

Scorched, commedia su tre impiegati che rapinano la loro banca, diventa Bancopaz (brrr! Non vorrei aver partecipato al brainstorming che ha generato questo titolo).

G:MT – Greenwich Mean Time viene tradotto come GMT – Giovani Musicisti di Talento. Ma non si faceva prima a cambiare anche la sigla a quel punto? (A parte che GMT è anche in italiano la sigla di Tempo Medio di Greenwich).

Ha sempre superato la mia comprensione il motivo che ha generato il titolo Mad Max oltre la sfera del tuono, che non significa pressoché nulla: perché diavolo tradurre letteralmente (e insensatamente) il “Thunderdome” originale, che era semplicemente il nome dell’arena dove si svolge gran parte dell’azione? Guardare il film prima di dargli il titolo a volte potrebbe aiutare, ma sono trucchetti che si acquisiscono solo dopo anni di esperienza come international senior executive con qualifica di title consultant.

Marilyn Monroe è stata spesso maltrattata dai titolisti italiani.
Il suo River of No Return, per esempio, è diventato La magnifica preda: il film è tutto ambientato su un fiume, che viene definito anche nei dialoghi italiani “il Fiume del Non Ritorno”; e nessuno è la preda di nessuno (evidentemente piaceva usare quell’aggettivo, la cui desinenza suonava forse autoreferenziale per Marilyn).
E Don’t Bother to Knock, thriller ambientato in una camera d’albergo, diventa inspiegabilmente La mia bocca brucia. Sarà un eritema o la peperonata?

L’alchimia distributiva è poi un’arte molto praticata dalle nostre parti (di solito con risultati fallimentari, da cui nessuno impara mai). Il succitato caso di Eternal Sunshine tentava di far passare un film tutt’altro che ridanciano come “l’ultima spanciata di risate con Jim Carrey” (poveretto, per una volta che riusciva a non fare smorfie). Qualche anno prima, il semplice thriller Teaching Mrs. Tingle era stato trasformato nell’horror Killing Mrs. Tingle (e il trailer manipolato per far credere che si trattasse di una storia cruenta).
E per Fools, serissimo dramma sulla relazione proibita fra una ragazza e un uomo maturo, si è assurdamente optato per il tono sbarazzino: Ha l’età di mio padre ma l’amo pazzamente!

Il sublime a mio avviso è stato raggiunto in particolare in due casi.

Krotki film o milosci (letteralmente: “Breve film sull’amore”) di Krzysztof Kieslowski, versione lunga di Decalogo 6: Non commettere atti impuri, è stato intitolato (da qualcuno che marinava catechismo) Non desiderare la donna d’altri.

Ma il vero non plus ultra è la sorte toccata al poco noto film TV Extreme Close-Up, un dramma intimista su un sedicenne che tenta di superare la morte della madre montando ossessivamente spezzoni di filmini che la ritraggono, e contemporaneamente si trova a dover ricucire il rapporto con il padre con cui non riesce ad avere un dialogo.
Titolo italiano (televisivo, si badi!): La parte erogena di un transessuale!

Chapeau!

Annecy 2007 parte terza: Di bello e di brutto

Infine, caro il mio stremato pubblico, una piccola selezione delle cose che ho visto e che mi hanno colpito, nel bene e nel male (più nel bene, giusto per non essere troppo masochisti). Partiamo dai lungometraggi.

Khan Kluay di Kompin Kemgunird (Thailandia) : appunto, iniziamo con una cosa brutta (…vedi sopra) ma particolare. Khan khan.jpgKluay è la storia di un tenero elefantino, circondato da simpatici amici, che vuole diventare un Elefante da Guerra e massacrare più gente possibile. La sensibilità thailandese al tema è evidentemente diversa dalla nostra, tanto più che non si capisce chi siano i nemici, ma il cortocircuito con l’estetica disneyana è affascinante. Per il resto, il film fa cagare, da ogni punto di vista.

Aachi & Ssipak di Bum-Jin Joe (Corea del sud): film coreano ultracolorato, ultraviolento e ultraschizzato. Ai miei compagni di visione è piaciuto, io me ne sono andato dopo 20′; non so bene perché, ma ha toccato qualche corda che mi ha particolarmente disgustato.

Film Noir di D. Jud Jones e Risto Topaloski (Stati Uniti): questo film mi ha lasciato profonde ombre di dubbio. Come si puòfilmnoir.jpg presagire dal titolo è un film noir, un hard boiled, ambientato in una Los Angeles notturna, come da migliore tradizione. Quello che non si capisce è se la pioggia di stereotipi da noir sia voluta o meno: nemici con le pistole che mancano sempre, l’eroe che se le tromba un po’ tutte, amnesie, chirugia plastica, il detective privato con la segretaria innamorata e poi l’apoteosi, accolta con un’ovazione, dell’immancabile film snuff. Tecnicamente il film è peggio che scadente, ma la visione non mi ha annoiato. Tuttavia, non ho ancora capito se mi sia piaciuto o meno. In fondo, credo di no.

One night in one city di Jan Balej (Repubblica Ceca): un film est-europeo a pupazzi. Scene di disperazione di fronte agli incomprensibili, pallosissimi tre episodi. Quasi fantozziano.

Cortometraggi in concorso.

jeu.jpgJeu di Georges Schwizgebel (Svizzera): Schwizgebel è un buon sperimentatore di cortometraggi. Tipicamente le sue opere sono costruite con qualche sorta di carrello tridimensionale che esplora un mondo deformando le prospettive. Non lontanissimo dai principi del cubismo, in fondo. Di solito i suoi corti hanno un canovaccio narrativo, ma in questo caso si è lasciato andare ad una serie di immagini. Immaginifico, bello, fa venire il mal di mare.

isabelle.jpgIsabelle au bois dormant di Claude Cloutier (Canada): la parodia delle fiabe, da Shrek in poi, è diventata un tema piuttosto di moda, tanto che ormai è più facile vedere uno spoof di una favola che una favola stessa. Ebbene, Isabelle è una parodia di una fiaba, ma va citato perché è particolarmente divertente.

James Monde di Soandsau (Francia): il corto più deriso del festival. James Monde ti insegna a non gettare le pile usate per terra, altrimenti poi le margherite ti mangiano (così non rende: il messaggio era serio!) Metà del pubblico si è premurata di disseminare Annecy di pile usate.

Madame Tutli-Putli di Chris Lavis e Maciek Szczerbowski (Canada): tradizionalmente ci si prepara alle visioni dei tutliputli1.jpgcortometraggi per non essere presi alla sprovvista da opere potenzialmente pericolose, nel senso di “moleste alla visione”. In generale quest’ultime sono quelle di lunghezza superiore ai 10 minuti e provenienti da paesi a rischio (Cina, Polonia, Italia…) o muti, perché potenzialmente più noiosi. Inoltre la tecnica a pupazzi è, da esperienza, più a rischio di sfracellamento di marroni. Madame Tutli-Putli ricade quindi nella categoria “pericolosa”: lungo (17′), muto e a pupazzi. Ciononostante, è un gran bel corto. Una donna con un carico enorme di bagagli prende un enorme e velocissimo treno, nel quale, nonostante le sue precauzioni, i ladri le ruberanno le valigie. Appare chiaro presto che si tratta di una metafora della morte, narrata con gusto e con un’atmosfera inquietante per i silenzi contrapposti al rumore del treno.

gameover.jpgGame Over di PES (Stati Uniti): PES è noto per le sue animazioni degli oggetti più impensati (la sua opera più famosa è Roof sex). Questo corto manda in sollucchero i trentenni, ricostruendo videogiochi dei primordi (Pac-Man, Asteroids, Space Invaders…) con cibo e altri oggetti quotidiani: spassoso e accolto da un’ovazione.

Do It Yourself di Eric Ledune (Belgio): il premio UNICEF parla di bambini, ma se ci fosse un premio dedicato all’impegno civile in un senso più ampio, credo proprio che Do It Yourself sarebbe stato un ottimo candidato. Il narratore di questo corto legge brani da un manuale della CIA ad uso dei dittatori sudamericani che spiega metodologie di tortura, fisica e psicologica; quello che rende efficace il messaggio è che alla narrazione sono accompagnate immagini che, in un contesto differente, si sposerebbero correttamente a quanto si racconta. Ad esempio, nel brano che suggerisce di andare a prendere i prigionieri all’alba si accompagnano immagini di pesca. L’ho visto due volte, e la prima me lo sono dormito. Tutti possono sbagliare.

bernd.jpgBernd und sein Leben di Stephan Flint Muller e Ingo Schiller (Germania): il ritorno di Stephan Flint Muller, il pazzo amatissimo autore di Bow Tie Duty for Squareheads. Questo corto è più equilibrato, più animato, verrebbe da dire quasi più professionale e maturo, ma la vena di follia non è venuta meno. Non è un capolavoro, ma è comunque da vedere e da goderselo.

Qualcosa dal povero programma di Panorama:bees.jpg

The girl who swallowed bees di Paul McDermott (Australia) : pur essendo non proprio un buon lavoro. questo corto si fa notare con un’estetica che ricorda quella del primo Tim Burton, delle filastrocche per bambini con rime un po’ ingenue, storie un po’ dark che parlano di freak.

Laika 1957 di Khai-dong Luong e Bruno Bonhoure (Francia): grazie a Laika 1957, ora sappiamo che la cagnetta Laika è stata scelta per la sua missione perché è lei stessa che ha sempre voluto andare nello spazio (e poi morire lì di una morte orribile).

forecast.jpgForecast di Adriaan Lokman (Paesi Bassi): signore e signori, ecco il vincitore morale del premio “Corto molesto” per Annecy 2007. Va detto che quest’anno la selezione non è stata un granché foriera di cortometraggi noiosi, presuntuosi e odiosi, ma Forecast ha dato non poche soddisfazioni. L’autore, tra l’altro, è persino il vincitore di Annecy 2002 con Barcode, ma in questo caso ha ben pensato di proporre 9 minuti e mezzo di nuvole in brutta CG condite con musica fastidiosa. Quasi commovente nella sua fastidiosità.

Un paio di segnalazioni dalla televisione.

ruby.jpg Ruby Gloom “Unsung Hero” di Robin Budd (Canada): dell’unico programma TV che ho visto mi è piaciuto non poco l’episodio mostrato di questa serie, una sorta di famiglia Addams con protagonisti mostrini ragazzini in formato kawaii con non pochi riferimenti alla cultura “emo”. La puntata proiettata parlava di una partecipazione ad un festival rock in stile Lollappalooza da parte dei mostrini ragazzini in questione: carino, ma mi chiedo cosa un pubblico di pre-adolescenti (a naso il target di Ruby Gloom) possa conoscere del fenomeno dei festival rock degli anni ’90.

Allez raconte di Jean-Cristophe Roger (Francia): tratto dal fumetto del mio idolo Lewis Trondheim, è una serie tv di brevi episodi, ognuno dei quali racconta una favola come narrata da papà Trondheim ai suoi figlioletti. Lo spirito del fumetto è mantenuto e la parte grafica ispirata all’estrema sintesi di Parrondo è buona; le fiabe sono quindi assai poco tradizionali e tendenti al grottesco, ma ovviamente la qualità delle trovate del fumetto è superiore. Ciononostante, qualche sgignazzata per “Il paese delle caccole di naso” me la son fatta.

Per concludere, qualche parola sui film di scuola.

teleferic.jpgTelerific Voodoo di Paul Jadoul (Belgio): l’idea è buona: una civiltà cresce all’ombra di un conto alla rovescia di cui gli uomini sono consapevoli. Arrivati allo scadere dello “zero”, in un clima di suicidi di massa e isteria collettiva, non succede nulla e la vita continua. Qualche dubbio sulla realizzazione, ma Teleferic Voodoo ha colpito abbastanza. Musica techno spinta, realizzazione in 2d e 3d.

The cleaner di Dustin Rees (Svizzera): curiosa e tenera questa realizzazione elvetica, che racconta una serie di amori che nascono e muoiono mentre uno spazzino continua a fare il suo lavoro inconsapevole di quello che gli succede intorno.

Bob, Weiss, Eletvonal, Programme du jour: c’è un tema che è molto caro ai giovani animatori, tanto che ogni anno ci sono più corti che lo trattano: i pericoli dell’uniformità di pensiero e il tentativo di sfuggirne da parte di pochi individui illuminati. E’ probabile che chi decide di seguire una scuola di animazione in qualche abbia tendenze “alternative”, più o meno sincere, e quindi il tema viene abbastanza da sé. Bob è un buon lavoro, Eletnoval e Programme du jour sono meno interessanti e Weiss fa cagare.

All’anno prossimo, con un’edizione dedicata all’India. Gulp.

Annecy 2007 parte seconda: Vincitori e vinti

Beh, in realtà solo vincitori. I vinti sono tutti gli altri e non ho la minima intenzione di parlare di tutti quanti.

Parliamo quindi dei premi. Non dimentichiamo che, oltre i principali che ho già accennato nel primo articolo, esistono altri premi minori che forniscono una buona occasione per osservare anche altri punti di vista sul valore dei lavori presentati.
Seguirò in linea di massima lo stesso ordine della premiazione, dai meno importanti ai più importanti. Cominciamo dai premi minorissimi.

Premio FIPRESCI: si tratta della federazione dei giornalisti, e possiamo vedere questo trofeo come una specie di premiorunt.jpg della critica. Vincitore ne è stato The Runt (Il più piccolo della nidiata) di Andreas Hykade (Germania). In uno stile pastelloso senza essere tenero né infantile The Runt racconta di un bimbo che vuole prendersi cura del più piccolo di una nidiata di conigli, ma senza poi avere il coraggio di macellarlo come aveva promesso al momento della nascita. Piuttosto duro e ben sviluppato.

Premio Sacem per la migliore colonna sonora: la Sacem è l’equivalente della SIAE in Francia e credo che sia altrettanto amata, dalle reazioni del pubblico. Comunque il premio l’ha vinto L’homme de la lune (L’uomo della luna) di Serge Elissalde (Francia) la cui colonna sonora non aveva colpito nessuno e della quale era privo lo spezzone riprosposto durante la premiazione. Il corto, comunque, non è privo di interesse, anche se la sceneggiatura è piuttosto contorta e a tratti piuttosto incomprensibile; parla di un uomo che ha sostituito la luna e viaggia su un pallone intorno alla terra imitandola. Curioso, e con un’estetica interessante.

premierevoyage.jpgPremio Canal+: terzo e ultimo dei “premi marchetta”, questo però si porta dietro qualcosa come 20.000 euro, quindi tanto trascurabile non è. Vincitore è stato Premier Voyage di Grégoire Sivan. Un tragicomico viaggio in treno di un papà imbranato con la sua figlioletta è narrato usando la plastilina, tanta ironia e un gran ritmo. E’ piaciuto molto, e il premio è senza dubbio meritato.

Premio UNICEF per il corto dedicato ai bambini: ogni anno ce n’è una: una produzione che magari è anche valida, ma che è sfacciatamente pensata per raccogliere la pietà dei giurati e vincere premi simili a questo. Quest’anno il “colpevole” è The Wrong Trainers, uno speciale televisivo di Margrie Kez (Gran Bretagna). Si tratta di più storie in tecniche diverse riguardanti bambini che vivono in povertà narrate dai bimbi in prima persona. Neanche brutto, per carità, ma sono troppo malvagio per certe cose.

Passiamo ora ai premi delle giurie junior (una intorno ai 13 anni per i film di scuola e una più piccola per i cortometraggi. Ci si chiede se questi ultimi vedono anche i corti con tematiche e situazioni per adulti).chapel.jpg

Premio giuria Junior ai film di scuola: Welcome to Chapel District di Marie Viellevie (Francia). Sappiamo bene tutti che dopo Alan Moore e il suo From Hell non ha senso parlare di Jack lo Squartatore, ma comunque questo corto a tecnica mista, ricco di ritmo e con ampio uso di icone al confine con l’astratto è piuttosto valido.

Premio giuria Junior ai cortometraggi: Même les pigeons vont au paradis (Anche i piccioni vanno in paradiso) di Samuel Tourneux (Francia). Questo premio è invece più incomprensibile. Pur se realizzato in una buona grafica 3d, il corto è proprio stupido. Parla di un prete che cerca di vendere ad un vecchietto una macchina per andare in paradiso. La metafora di per sè ha un senso, ma la sceneggiatura è incoerente e piena di sciocchezze. Stupidi bimbi.

I film su commissione non li ho visti e non mi dilungherò oltre il titolo e l’autore.
Miglior Videoclip: Gérald Genty Plaire di Patrick Beraud Dit Volve (Francia)
Miglior film educativo, scientifico o aziendale: Bloot “Sekx” di Mischa Kamp (Paesi Bassi)
Miglior film pubblicitario: United Airlines – The Meeting di Wendy Tilby e Amanda Forbis (USA)

E ora i premi per la TV.
Miglior speciale TV: The Wrong Trainers di Margrie Kez (Gran Bretagna): beh, di questo ho già parlato.

Premio speciale per una serie TV: Charlie and Lola:I Will Be Especially, Very Careful di Kitty Taylor (Gran Bretagna). Non l’ho visto, ma faccio come i giornalisti veri e traduco la cartella stampa. “Lola è pazza di gioia quando Lotta accetta di prestarle il suo nuovo cappotto bianco morbidoso in cambio di una borsetta costosa. Lola promette di fare molta attenzione, ma non tutto va come previsto…” E ora invento un giudizio: spumeggiante e pedagogicamente valido.

Cristallo di Annecy per una produzione TV: Shaun the Sheep – Still Life di Cristopher Sadler (Gran Bretagna). Non lola.jpgvisionato, anche qua traduco senza vergogna. “Un contadino si lancia nella pittura ad olio, ben deciso a dipingere un capolavoro. Ma appena gira le spalle, Shaun & c. decidono di provarci anche loro”. La clip mostrata durante la premiazione era in effetti divertente, e chi l’ha visto ne parlalola.jpglola.jpg un gran bene. Fidiamoci.

I più attenti avranno notato che tutti i premi per la TV sono andati alla Gran Bretagna. E’ un dato interessante.
Largo ai giovani, i premi di scuola.

Menzioni speciale ex aequo: Beton di Ariel Belinco, Michael Faust (Israele), una specie di commedia nera in stile pittorico sulla guerra. E’ un po’ triste il fatto che ogni singolo corto proveniente da Israele parli di guerra e terrorismo.

Menzione speciale ex aequo: The Wraith of Cobble Hill di Adam Parrish King (Stati Uniti). Non l’ho visto, ma appare come un amaro spaccato di realtà urbano realizzata in marionette e ripresa in bianco e nero.

Premio speciale della giuria: Milk Teeth di Tibor Banoczki(Gran Bretagna). Si tratta dell’unica scelta delle giurie che non ho condiviso affatto. Milk Teeth è un corto semi-visionario che parla di un bambino alle prese con una serie di situazioni ed immagini disturbanti. Totalmente privo di ritmo, di fascino visivo e di carisma narrativo, l’ho trovato davvero noioso e fastidioso.

Premio per il miglior film di scuola: t.o.m. di Tom Brown, Daniel Benjamin Gray (Gran Bretagna). Il vincitore assoluto ètom.jpg stato questo corto breve (meno di tre minuti) e curioso. Parla di un bambino che racconta con un tono a metà tra il cinico e il folle di come si spogli per strada prima di arrivare a scuola. Appare una sorta di gag, ma in realtà lascia un’impressione più profonda. In fondo, dopo lo stupore iniziale, non posso dirmi contrario alla scelta della giuria.

E anche qua i due premi principali sono finiti agli inglesi. I lungometraggi!

Premio del pubblico: Max & Co di Samuel Guillaume, Frédéric Guillaume (Svizzera). Il premio del pubblico ai lungometraggi è una novità del 2007, novità nata con il crescere del numero di lunghi in concorso. Tuttavia, la modalità di voto tende a premiare la quantità di gente che vede un film oltre che la sua qualità, e ho il sospetto che sia questa la ragione per la quale ha vinto Max & co., presentato in anteprima in pompa magna. Questo film, del resto, non l’ho visto e non ho la minima idea del suo valore, e a dire il vero non so nemmeno di cosa parli. Di mosche, forse (ho avuto un attacco di pigrizia e non mi sono documentato, già).

Menzione speciale: Toki o kakeru shojo (La ragazza che viaggiava nel tempo) di Mamoru Hosoda (Giappone). Si è sentito parlare non poco di questo anime ed era abbastanza atteso. Il premio, nel complesso, è piuttosto meritato, anche se con girlleapt.jpgqualche riserva. La storia parla di una ragazza liceale che scopre di avere il potere di fare brevi viaggi nel passato. La trama fantascientifica si mescola ad un triangolo amoroso: già sentito come canovaccio, eh? Sì, ricorda molto il classico Orange Road, e il meccanismo per viaggiare nel tempo è addirittura identico! Il film, va detto, è ben girato, ma si perde un po’ nel finale quando arrivano gli “spiegoni”, c’è qualche incoerenza narrativa (d’altronde quasi fisiologica quando si parla di viaggi nel tempo) e il tutto diventa un po’ troppo melenso. Da vedere, però.

Cristallo per il lungometraggio: Slipp Jimmy Fri (Free Jimmy) di Christopher Nielsen (Norvegia, Gran Bretagna). Comeslipp.jpg anticipato, credevo che questo film fosse piaciuto solo a me, mentre invece anche i giurati l’hanno pensata in modo simile. Free Jimmy è un film dall’umorismo crudele e cinico, quasi sporco, con qualche debito ai fumetti underground americani da Crumb in poi. Parla di un’improbabile banda di malviventi norvegesi alle prese con partite di droga, zoo sull’orlo del fallimento, elefanti tossicodipendenti, mafia lappone e attivisti animalisti imbecilli. Non perfetto nella realizzazione, molto parlato, ma molto divertente.

E infine il piatto forte, i vincitori del concorso cortometraggi.

Premio Jean-Luc Xiberras per la migliore opera prima: Devochka Dura (Bimba stupidina) di Zojya Kireeva (Russia) Ha un pochino stupito questo premio, perché tra le opere prime c’era di meglio (ad esempio Madame Tutli Putli di cui parlerò in seguito), ma è certamente un buon lavoro. Parla dell’infanzia in Russia dell’autrice raccontata mediante brevi flash disegnati in uno stile pulito e gradevole.

Prempeter2.jpgio del pubblico: Peter & the wolf di Suzanne Templeton (Gran Bretagna) C’è un problema col meccanismo del premio del pubblico: ognuna delle cinque proiezioni prevede una votazione separata. In questo modo se due corti validi sono nella stessa serata si dividono i voti, mentre se un corto discreto capita in uno spettacolo per il resto scadente, prende tutti o quasi i voti. E’ un po’ quello che è successo per Peter & the Wolf, che è capitato in una serata davvero moscia, assicurandosi così la vittoria del pubblico. C’è da dire che l’opera della Templeton è ben più che discreta: la favola di “Pierino” e il lupo viene rielaborata a pupazzi assegnando a Peter uno sguardo fisso e gelido che lo rende più spaventoso del lupo. Per il resto, la trama e la musica sono quelle classiche: il limite maggiore di questo corto è appunto il fatto di non dire quasi nulla di nuovo. Però la qualità della realizzazione è mozzafiato.how.jpg

Menzione speciale: The tale of How di The Blackheart Gang (Sudafrica) Uno dei corti più originali dell’annata, The tale of How è una schizzatissima opera visionaria, a base di animali surreali (ma ben lontani dai canoni di Dalì. Non tutti sanno ad esempio che i piranha sono uccelli) e musica in stile operistico. Breve, assurdo, folgorante, l’ho amato molto.

Premio speciale della giuria: The Pearce Sisters di Lius Cook (Gran Bretagna). pearce.jpgSoddisfazione per il premio assegnato alle sorelle Pearce. Con gusto decisamente inglese, è una storia macabra di due sorelle e della loro squallida vita di pescatrici (non solo di pesci) in riva al mare. I disegni fortemente iconici, quasi espressionisti, il vento e il rumore del mare assordanti contribuiscono a farne un’opera dall’atmosfera molto particolare. Era il mio candidato per la vittoria finale.

peter3.jpgCristallo di Annecy per il miglior cortometraggio: Peter & the Wolf di Suzanne Templeton (Gran Bretagna) E di questo ho parlato sopra. Non posso dirmi contrario a quest’attribuzione, anche se, ripeto, ritengo che valga più per la realizzazione che per il significato del corto in sé. Forse è l’unica cosa che mi ha lasciato un pochetto di amaro in bocca.

Sì, britannici e britannici. La premiazione è finita, ora potete andare a mangiare, se trovate un ristorante aperto a
quest’ora. Possibilmente non uno inglese.

cibo.jpg

(next: una selezione di roba bella e brutta che vale la pena segnalare)

Annecy 2007 parte prima: Quel che c’era

Immagine ufficiale del festival

(Se non sapete di cosa sto parlando, andate qua e ripassate i fondamenti del Festival di Annecy)

State tranquilli, quest’anno ho deciso di essere più sintetico del solito e di non fare il resoconto completo. Perché? Beh, semplicemente perché non ne ho voglia. Il mondo è semplice se uno lo rende semplice! Comunque tre articoli ve li sciroppate lo stesso. Così va la vita.

Il Festival di Annecy 2007 ha avuto come cifra caratteristica quella dei lungometraggi. Tradizionalmente ci son sempre stati 4-5 lunghi in concorso e due o tre in rassegna (più qualche anteprima), riservando la maggiore attenzione e risorse ai cortometraggi, in concorso o fuori. Quest’anno il premio dei lunghi prevedeva ben 9 opere, con un contorno di addirittura 16 fuorFree Jimmyi concorso; sinceramente, è stato a tratti incomprensibile perché alcuni siano andati in concorso e non in rassegna e viceversa.
E’ ovvio che non possano esistere 25 film validi, il mercato del cinema di animazione è troppo ristretto per garantire così tanti buoni prodotti, ma è stato comunque molto interessante avere la possibilità di vedere una grande varietà di tecniche e tematiche: si è passati dai tradizionali anime più commerciali ai pupazzi cechi, dall’umorismo per adulti cinico e grossolano a teneri elefantini thailandesi. Non credo, a dire il vero, di avere visto un film che mi sia piaciuto completamente, ma l’occasione di espandere la propria cultura è comunque importante. Vincitore del concorso è stato Slipp Jimmy Fri (Free Jimmy) di Christopher Nielsen, storia di malfattori e animalisti, foto a sinistra. Tra i miei compagni di visione è piaciuto solo a me. E questo non perché il film sia scadente, ma perché io ho gusti migliori. Ovviamente.

Lo spazio dedicato ai lungometraggi è andato a scapito delle rassegne. La nazione dell’anno era in realtà costituita da un gruppo di tre nazioni, il Benelux, ma il poco che ho visionato accostava a cortometraggi noti e già visti altre produzioni meno interessanti. Il Benelux è troppo vicino per poter riservare sorprese, e poi i belgi sono belgi. Accanto ad esso, un altro gruppo di retrospettive “Animation et desire” (Animazione e desiderio) non ha raccolto molti consensi. Quest’anno è andata così, per le rassegne, ma si spera che si sia trattato solo di una conseguenza dell’attenzione dedicata ai lunghi.

Parliamo di anteprime. Non tutti gli anni può andare bene, e dopo un anno da far girare la testa come il 2006 (Cars, Monster House, Azur et Azmar) il 2007 è stato assai più parco. Personalmente mi son limitato ad assistere alla prima europea di Shrek 3, che però è uscito in Francia due giorni dopo…non esattamente un’anteprima sconvolgente! In più sono stati presentati I Robinson (già uscito in Italia da tempo!) e un documentario sulla storia della Pixar.

Del concorso della TV ho visto un solo programma ma che mi è parso di buona qualità. Chi ne ha visti di più in linea generale sostiene che è stato un buon anno. Mi mancano un po’ gli spettacoli tv: il vantaggio che offrono è che c’è sempre quello speciale natalizio di 50′ con le renne o simili che è una pacchia per farsi un pisolino.

Il concorso dei cortometraggi, piatto forte del festival, è stato interessante e di buona qualità. Delle cinque serate, solo una è stata funestata da troppi corti scadenti, ma è stata la serata che ha portato il vincitore (Peter and the wolf di Suzanne Templeton, sì, “Pierino e il lupo”! – foto a destra); tutte le altre sono state mediamente interessanti. Le scelte della giuria sono state nel complesso corrette e condivisibili; ci si può lamentare forse solamente della mancanza di opere dall’ampio respiro narrativo. In fondo le cose migliori, in testa il vincitore, lo erano per tecnica e realizzazione più che per lo spessore del contenuto; si è sentita la mancanza di opere che in qualche modo toccassero il cuore dello spettatore, come Harvey Krumpet o Histoire tragique avec fin heureuse avevano fatto negli anni passati. Curiosamente, invece, la sezione Panorama è risultata scadente. E’ vero che si tratta di corti non sufficientemente buoni da entrare in concorso, ma spesso le scelte del comitato di selezione sono opinabili e si è sempre trovato qualcosa di buono. L’anno scorso Den Danske dikteren (Il poeta danese), scartato dal concorso, ha vinto addirittura l’Oscar per il miglior cortometraggio animato! E anche il concorso per studenti, i film di fine studi, mi è parso meno incisivo del solito. Vincitore ne è stato t.o.m. di Tom Brown e Daniel Benjamin Gray.

Un’amara nota per i patrioti: tutti i buoni segni degli anni passati per l’animazione italiana sono andati in fumo. Nessun opera in concorso, né quello principale né quello per studenti, giusto un corto(brutto, ahimé), nel panorama. Speriamo sia solo un incidente di percorso…

Infine, dal mio punto di vista, il festival è stato molto fruttuoso perché ho avuto di incontrare il mio fumettista preferito nonché migliore fumettista vivente (l’ho detto che ho buoni gusti, no?): Lewis Trondheim. Ho inoltre avuto occasione di nutrirmi con numerosi pain au chocolat, di rilevare che il ristorante greco di Annecy è meglio evitarlo, di mangiare ben due volte la tartiflette e di acquistare una pila di mezzo metro di fumetti in francese. Putroppo, dal lato negativo, il nostro posto da pranzo preferito, l’Happy People (il locale uomosessuale di Annecy) è stato quasi sempre chiuso, e il gaio bistrot ci ha avuti come ospiti una sola volta. Non si può avere tutto.

(Next: i premiati)

Il cartone del buongiorno

Mattino feriale, risveglio in casa XXmiglia. Sveglia, doccia, barba (non sempre), colazione. La colazione, tra le 7.30 e le 8, rappresenta uno dei pochi momenti della giornata in cui accendo la tv e guardo ciò che la scatola infernale mi propina, senza essere io a scegliere cosa guardare (sì, l’attitudine pull dovuta all’uso di internet ormai non me la scrollo più). Dribblando oroscopi e deprimenti telegiornali flash, la scelta cade inevitabilmente sui miei amati cartoni animati; è un’abitudine che mi porto dietro da oltre dieci anni. Quand’ero giovane, addirittura, mi mettevo apposta la sveglia mezz’ora prima per vedere Ken il guerriero (ma si può?!?), mentre ora guardo quello che c’è all’ora in cui mi alzo, e di solito non vedo puntate intere ma frammenti varii.

Ecco quello che in cui mi sono imbattuto negli ultimi mesi.

Ape Maia: sì, il classico cartone con l’antipaticissimo insetto. Non l’ho rivalutato vedendolo da adulto, mi è parso noioso, privo di mordente e persino retorico, un peccato piuttosto raro nelle serie giapponesi. Però gli sfondi pittorici sono belli: (modalità vecchietto) sissignore, non li fanno più sfondi così belli oggigiorno.Hamtaro

Hamtaro: Hamtaro è geniale. Il suo palese obiettivo è di portare all’estremo l’estetica del kawaii, il carino, in modo da conquistare bambini e ragazzine. I cricetini da questo punto di vista sono irresistibili, ma non solo: oltre ad essere carinissimi, riescono anche ad essere buffi e ad avere una loro personalità. In tal modo l’eccesso di zucchero non diventa mai stucchevole, e le avventure dei criceti, che riguardano l’esplorazione obliqua della quotidianità umana, sono sempre godibili. Una vera rivelazione.

Hello Spank: il cane demente con la testa quadrata. Mah, in fondo non è lontano da Hamtaro come concezione e filosofia commerciale/estetica, ma è molto più primitivo (i markettari di anime non erano ancora molto bravi a quei tempi) e decisamente più idiota. Sei meno.

Monster Allergy: il fumetto mi è piaciuto abbastanza, ma la versione animata soffre dei tipici mali dei passaggi di media da fumetto ad animazione: mancanza di ritmo, edulcorazione, disegni poco incisivi, annacquamento della trama. Di buono c’è il design dei personaggi, ma è poco per renderlo un buon prodotto.

pupsnacks.jpgScooby Doo: ne ho visto due serie diverse, entrambe moderne. La prima di esse (dovrebbe essere “What’s new, Scooby Doo?“) commette un paradosso: per essere più snella limita i personaggi del team storico ai due più amati, Scooby e Shaggy, ma nella disperata ricerca di nuovi spunti si rivolge ai personaggi secondari come Scrappy Doo, Scooby Dum o altri. La serie è terribile e si sviluppa sulle solite gag riviste alla nausea, e non riesco proprio a comprendere come abbia fatto a tirare avanti tre stagioni. Molto meglio la seconda, “A puppy named Scooby Doo“, col team completo in versione bambina e Scooby Doo da cucciolo. Al di là della bella estetica quasi superdeformed, le sceneggiature sono ricche di gag riuscite, di numeri musicali, di ritmo e di azione…e il tutto in soggetti imperativamente in stile Scooby Doo! Un buon lavoro.

Winx: pietà. Cito un amico che ha lavorato su questo prodotto: “Ci sono puntate che ho visto e rivisto fino alla nausea…e ancora non riesco a capire che cacchio succede!”

Kim Possible: ecco, lo confesso. Trovo Kim Possible irresistibilmente sexy. Le sue avventure poi sono banalotte, prive di mordente e con sceneggiature molto spesso già viste…ma rimango inevitabilmente ipnotizzato di fronte all’ombelichino di Kim. Ho il sospetto di non essere l’unico.

bratz.jpg Bratz: il cartone animato più tamarro dai tempi di Gokinjo Monogatari (“Curiosando nei cortili del cuore“), ha un suoindubbio fascino trash. Moralmente è abbastanza riprovevole: perché vogliamo insegnare alle giovani donne ad essere delle orrende zoccole stratruccate e con solo lo shopping per la testa? Certo, Bratz racconta di alcune amiche che hanno un sogno e lavorano duramente per ottenerlo, ed è una storia che gli americani amano molto. Ma forse all’etica americana del lavoro sfugge che se il sogno è imbecille (avere una rivista di moda tutta per noi!) allora la cosa non è necessariamente positiva. La grafica 3d è incredibilmente brutta. Eppure, anche Bratz mi ipnotizza. Non mi spiego il perché.

Little Einsteins: una scoperta. Little Einsteins è un programma educativo della Disney rivolto ad un pubblico di seienni o giù di lì, ed è bellissimo. Ogni puntata focalizza su un luogo, un’opera d’arte e un brano di musica classica (spesso con un riferimento ad uno strumento) incoraggiando i bambini ad imparare con avventure coloratissime e rocambolesche, invitando persino il pubblico a partecipare! Quando uno dei protagonisti chiede “Vi ricordate che strumento è questo? Diciamolo insieme: il flauto!” ero sempre pronto a rispondere. Mi manca tanto Little Einsteins…

« PrimaDopo »