Una delle mie idee estemporanee per riempire questo noiosissimo blog è stata di recensire i ristoranti dove ho mangiato male. Mi son detto: “Che diamine! Ci sono un sacco di ristoratori incompetenti, e io sarò il fustigatore dei costumi! Il terrore dei cuochi! L’avvoltoio dei risotti sciapi e il Balrog dei bistecchini duri!”. In realtà, però, sono abbastanza fortunato e ho abbastanza fiuto, perché mi vengono in mente solo due ristoranti in cui ho mangiato male abbastanza di recente. Per quelli più vecchi, diamo il beneficio del dubbio che abbiano cambiato gestione o si siano dati una regolata. E c’è di più: ci ho paura che quei ristoratori scoprano che ho parlato male di loro e si arrabbino. A me non piace litigare, e tantomeno avere gente che mi riga la macchina perché ho detto che sono incompetenti, e poi sono un pusillanime, quindi niente fustigazioni, terrori, avvoltoi e tantomeno Flagelli di Durin. Facciamo così, io ammicco e voi capite, così salviamo capra e cavoli. E se tu che stai leggendo credi che io stia parlando del tuo ristorante, beh, ti sbagli, è quello del tuo nemico, quello che ti ruba i clienti e ha palpato il culo a tua sorella al mercato.
Il primo è a Genova Nervi, proprio all’inizio venendo dal centro, e si chiama con un semplice nome maschile, lo stesso di quello scrittore che come cognome ha il nome di mia sorella. E’ un ristorante sul mare e ci sono finito una domenica a pranzo, quando, nell’astuta tradizione genovese di tenere tutto chiuso nelle zone turistiche nelle belle giornate primaverili, non si trovava alternativa. Beh, poco dopo entrati ci siamo resi conto dell’errore ma era troppo tardi: il cibo era mediocre (spaghetti al cartoccio scotti e un po’ insapori), ma le condizioni igieniche erano disastrose un po’ ovunque. E dire che sulla scogliera di Nervi, terrazza sul mare, sarebbe anche un bel posto…
Il secondo, sempre a Genova, che ci volete fa’, sono (anti)campanilista, è in un luogo similmente panoramico e cattivo in modo diverso. Si trova a Righi, quindi in collina, in corrispondenza dell’arrivo della funicolare. Sì, proprio quello lì di cui avevate già sentito parlare male, invertite Maretriste per trovare il suo nome. Ci sono capitato in occasione di una serata classificata come America anni ’70 con menu americano tipico. Sulla carta bono, senonché…
- Anelli di cipolla fritti e pomodori verdi fritti: fritti nel pomeriggio e poi riscaldati. I pomodori inoltre non erano verdi.
- Ali di pollo speziate: queste erano buone, ma erano queste. Spaziali oltre che speziali, ma le trovi in tutti i supermercati.
- Jambalaya del Mississippi, che dovrebbe essere uno spezzatino con riso. Invece era una specie di risotto sciapo e scotto con pezzi tristanzuoli di salsiccia e qualche gamberetto.
- Chili con carne: il chili è la mia specialità. Lo cucino con piacere e ne vado assai fiero, quindi trovarmi questa specie di ragù lungo di pessima carne troppo piccante mi ha fatto piangere. L’ho finito solo perché altrimenti zia Adelina mi sgrida.
- Torta di mele: mezza cruda.
Che poi, a ben vedere, a me piace mangiare e mi piace sperimentare (tranne che coi broccoli, quelli non li ho mai assaggiati perché so già che sono cattivi) ma per provare cose un po’ particolari fuori casa hai due possibilità: o vai in ristoranti etnici un po’ strani, o spendi un capitale in ristoranti di alto livello. Il primo caso lo faccio volentieri, giusto la settimana scorsa ho provato come si mangia in Senegal e mi son trovato bene a scoprire il cuscus di miglio (anche se il piatto del mio compagno di cena era più buono del mio, grrrr…), per il secondo… beh, insomma, prendete il menù che trovate sul sito dell’Enoteca Pinchiorri, uno dei ristoranti più celebri e rinomati d’Italia. Ci sono idee originali che mi incuriosiscono (ad esempio, l’astice in crosta di mandorle all’ aglio, con uva all’ amaretto e passato di lattuga, o l’accostamento dei pesci con la crema al caffé, o ancora il piccione con mela cotogna e liquirizia), ma, che diamine, i prezzi. Capisco che in locali del genere non paghi solo il cibo ma anche il servizio, l’ambiente e pure il nome, il marchio, e capisco anche che, per chi è un amante della gastronomia, regalarsi una cena degustazione a 200 euro per 6 assaggi sia comprensibile. Trovo invece stigmatizzabile che nel menù alla carta ci sia il vincolo, così privo di classe, di ordinare almeno due piatti. E poi:
Uova in camicia con cavolfiore, crostini e pancetta al tartufo nero € 95,00
L’astice sopra citato ne costa 125, e quelli li ammetto. Ma qui sono du’ ovette col cavolfiore e pancetta! Ok, c’è il tartufo, ma non è manco quello bianco… A Pinchio’! Le tu’ ovette te le tieni!
Che poi non ce l’ho particolarmente con zio Pinchioretto, ma ha avuto la (s)fortuna di essere l’unico ristoratore di alto livello che ho trovato a mettere nel sito a) un menu con i prezzi b) qualche paginina popup in html invece di un sito tutto in flash. Già, perché passi per la prima, so che c’è gente che per qualche misteriosa ragione pensa sia di cattivo gusto dire quanto si spende, ma non per la seconda. Non ho mai capito perché quasi tutti i siti istituzionali di locali, ristoranti, automobili, vestiti, tutto quello che si compra insomma, debbano essere in flash, rendendoli brutti, fuori standard, non linkabili, addirittura non visibili da iPhone. Chi se ne frega dell’interazione, se vado sul sito è perché cerco qualcosa, non voglio gli effettini o i giochini. Che sia maledetto flash, mi fa sbavare dalla rabbia!
23 Luglio
Ieri, Chiara mi ha detto che la mamma e il papà hanno comprato una macchina nuova macchina.
O è una Mini o è una Panda.
Verranno su con l’auto Domenica, Lunedi o Martedi.
Io e Chiara abbiamo scommesso il colore dell’auto.
24 Luglio
Oggi, io racconto che Chiara Mario e Daniele sono andati nel bosco fino a un villaggio abbandonato.
Mentre andavano hanno visto una bella biscia e e hanno trovato e hanno trovato un orologio e quando tornavano è scoppiato un temporale.
Queste due giornate passeranno alla storia come “la trilogia degli altri”, perché riguarda più coloro che mi circondano che me.
Sulla giornata del 23 luglio, mi basisce una cosa: cosa significa “o è una Mini o è una Panda”? I miei avevano comprato la macchina dando un forfait al concessionario che solo al momento della consegna avrebbe deciso se darci una Mini o una Panda? O forse mia sorella non aveva semplicemente capito che tipo di macchina fosse? Temo che non lo saprò mai, ma credo che continuerò a vivere nonostante questo dubbio. E non ricordo nemmeno chi abbia vinto la scommessa! D’altronde era color crema, non proprio un colore facile da indovinare. Sarà finita pari.
Ma infine, era una Mini o una Panda? L’ho già detto da qualche parte in questo blog, e come sapete non amo ripetermi. No, non è vero, in realtà amo ripetermi, ma voglio lasciarlo come esercizio ai lettori. Miasorella, miamamma e miocugino, voi non valete.
Postilla a lato, la maestra ha corretto questa entry del diario con un po’ più di cura del solito, e io ho fatto un paio di errorini di troppo. Perdersi l’accento su lunedì e martedì no, che diamine! Però la maiuscola sui giorni della settimana non ci va. E “scommettere” regge la preposizione “su”. No, in effetti non ha corretto un granché bene, quella là.
Più sconcertante è il giorno del 24. Dovevo essere stato proprio invidioso di questa scampagnata di Mario, Chiara e Daniele se ci ho dedicato una voce intera! E in effetti villaggio abbandonato, biscia (bella, per di più!), orologio e financo temporale costituiscono una serie di avventure non da poco. E io non c’ero, che rabbia! Magari ero rimasto a casa a fare i compiti! Grrr…ecco cosa ci si guadagna a fare i bravi!
Aggiungo però che in seguito andai più volte al villaggio abbandonato, e mi chiedo ancora adesso cosa rappresentasse: si trattava di alcune costruzioni recenti nel pieno del bosco ma palesemente disabitate e prive di manutenzione. Quasi sicuramente in quella zona non c’era acqua corrente e forse nemmeno elettricità, e mi chiedo tuttora chi avesse avuto l’idea di costruirle e perché. So solo che, a ripensare quelle casette adesso, ricordano in modo inquietante Evil Dead.
Sì, è la mia cucina, e sì, quello a sinistra sul frigo è Nelson che fa “ah, ah!”.
Fakt 9: sfidare il destino non è una buona idea.
Confesso un piccolo scheletro nell’armadio: Marco Masini mi è sempre stato simpatico. Per carità, non credo che ci sia una sua canzone che mi piace, e il facile senzazionalismo di Vaffanculo e Bella stronza è stata una strategia mediatica deplorevole, però ci ha qualcosa che mi fa venire voglia di dargli un buffetto sulla guancia e offrirgli una biretta. “Ehilà, Marco, che si dice di bello? Ci vediamo al Mister Minchietta?”
Ho sempre saputo che Masini, qualche anno fa, si era esibito in una cover del lentaccio strappalacrime dei Metallica Nothing else matters, ma non l’avevo mai ascoltata. Anzi, non l’ho mai ascoltata, ma gli dei dispettosi mi hanno messo sottomano il testo. Parliamone.
Lo so che il tempo lo sa
che siamo nascosti qua,
in fuga dalla realtà,
e chi se ne frega.
Fin qui, tutto bene. Bravo, Marco. Un’altra biretta?
L’iguana dei passi tuoi,
il tuo inguine di viva orchidea,
dove annegano gli occhi miei
e il tempo si ambigua. [E il tempo si ambigua…]
Uh…l’iguana? Beh, dimmi di più.
Io da qui non mi muovo più, [Io da qui non mi muovo più,]
abbracciato a una cruce, tu, [abbracciato a una cruce, tu,]
mentre il sole riallaga il blu, [mentre il sole riallaga il blu,]
e chi se ne frega. [e chi se ne frega.]
Voglio quello che vuoi tu, [Voglio quello che vuoi tu,]
voglio il tempo che non ho [voglio il tempo che non ho]
e l’avrò! [e l’avrò!]
…riallaga il blu?!?…Cruce? (dai, qui può essere un errore di trascrizione) Però nel dubbio, Marcolino, ridammi un po’ quella biretta, va’…
Il tempo ai cani e la polizia,
sbaranzia e dietrologia,
fa che insegua la nostra scia,
e chi se ne frega. [E chi se ne frega…]
Tempo ai cani?!? SBARANZIA?!? Ora, cerchiamo di immaginare cosa potrebbe essere la sbaranzia. Qualche idea:
a) C’entra con Sbranzo, sarebbe Sbranzìa ma essendo difficile da pronunziare diventa sbaranzia. Lode a Sbranzo.
b) E’ la traduzione in italiano dell’espressione ligure “desbarasu”, che indica le vendite promozionali che fanno i negozi mettendo le merci al di fuori del negozio stesso.
c) Similmente, indica l’atto di uscire da un bar, cioè di “sbararsi”.
d) Oppure, Masini, hai una zia che si chiama Sbaran?
e) O magari indica l’atto di osservare controluce un bicchiere per vedere se è stato lavato per bene.
Io da qui non mi muovo più, [Io da qui non mi muovo più,]
neanche se te ne andassi tu, [neanche se te ne andassi tu,]
su quest’erba che guarda in su [su quest’erba che guarda in su]
e sembra che prega. [e sembra che prega.]
…che preghi! Che cazzo, il congiuntivo! Anche se non fa rima con “frega”! Ridammi anche la bira di prima!
Voglio quello che tu vuoi, [Voglio quello che tu vuoi,]
voglio quello che vorrai, [voglio quello che vorrai,]
voglio vivere di più, [voglio vivere di più,]
voglio il tempo che non ho [voglio il tempo che non ho]
e l’avrò, sì! [e l’avrò, sì!]
Eeeeeh…l’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del re! Comunque lascia stare e parlaci ancora della sbaranzia…
Lo so che il tempo lo sa
che siamo nascosti qua
e se vuoi ci raggiungerà,
ma chi se ne frega!
Noooo…è finita! E non c’è più sbaranzia! Ora sono triste.
Probabilmente l’ho già detto, ma mi ripeterò come un vecchio trombone nel dire che al mattino, quando faccio colazione, ho l’abitudine di guardare un episodio di un robottone sul mio netbook. Questa tipologia di serie animate costituisce l’ideale perché non richiede molta attenzione e si può capire quel che succede con poco sforzo anche mentre, terminata la colazione, rifaccio il letto o preparo il pranzo o inveisco perché non trovo la camicia rosa che mi piace tanto. Dopo Atlas Ufo Robot, di cui parlai tempo fa, ho deciso di buttarmi su qualche robottone minore, serie che avevo più o meno visto o sapevo che potevano avere motivo di interesse ma che volevo guardare con metodo dall’inizio alla fine.
Iniziamo da Gordian. Mi era stato detto che non era un granché, ma c’era un motivo specifico che mi ha spinto ad affrontarne la visione: il ricordo di un episodio ambientato nello spazio in cui tutto ciò che rimaneva dell’umanità era un’astronave che cercava di portare un pugno di sopravvissuti su un altro pianeta. Non che fosse nulla di straordinariamente originale, ma ora come allora ho un debole per le storie di distruzione e ricostruzione della società (è per questo che amo molto i film di zombi o le storie di pandemie come L’ombra dello Scoropione). Beh, in effetti Gordian non è una serie superlativa. Appare che, secondo la moda del momento, si sia voluto fare una serie robotica, ma che il soggetto originale fosse più una storia di fantascienza classica, a colpi di alieni, minerali misteriosi, profezie, sette segrete, cataclismi e financo fughe nello spazio: infatti mi ricordavo bene, nelle ultime 7-8 puntate c’è effettivamente il trasferimento di ambientazione nello spazio siderale. Tutta questa carne al fuoco però non si coniuga con un soggetto sufficientemente curato e gli elementi appaiono spesso buttati alla rinfusa, coniugandoli inoltre con un robot poco incisivo (al di là dell’idea un po’ scioccherella dei tre robot “concentrici”) che si prodiga in battaglie poco memorabili contro nemici dimenticati, e soprattutto 73 puntate sono troppe. D’altronde, però, il cast di personaggi è interessante e spesso anche originale, e l’ambientazione pseudo-western è molto più riuscita di quella di Goldrake.
Il mio motivo di interesse per Baldios è simile ma anche complementare. Mai visto da piccolo, ma nel periodo più otaku della mia esistenza ne vidi il lungometraggio relativo e fui colpito dalla trama tragica e dal senso di inellutabilità che trasmetteva. Facendo spoiler a manetta (ocio!), il succo è che il protagonista viene da un pianeta inquinatissimo chiamato S1 e arriva sulla Terra attraverso il subspazio, seguito dai cattivi di S1 che decidono di prendersela col nostro povero pianeta. Si scopre alla fine che S1 non è altro che la Terra stessa finita così in seguito alla guerra coi cattivi. Plot twist da Shyalaman, nevvero? La serie però perde molto dell’efficacia della trama perché troppo diluita negli episodi (anche se pochi, poco più di trenta) e perché, a causa di vicissitudini produttive, il finale è rapido e tronco, e soprattutto finisce bene! Infatti i buoni riescono a impedire il rilascio dell’arma finale e la Terra è salva. E così si perde tutto il senso della serie. L’annacquamento si estende anche alla tensione erotica tra il protagonista Marin e la cattiva Aphrodia, uno degli elementi potenzialmente più effifaci, che tirando troppo per le lunghe non sfocia mai in niente. Si ravvisa inoltre lo stesso difetto di Gordian, cioè l’appiccicamento posticcio del robot a un soggetto probabilmente pensato senza di esso, o almeno non strettamente in funzione di esso: ne è testimonio il fatto che il Baldios compare solo nel terzo o quarto episodio. A differenza del suo amichetto robot, però, la serie è proprio senza sussulti e a tratti anche noiosetta. Va però detto che graficamente è pulito e piacevole e i combattimenti sono onesti. Ciononostante, una delusione, nel complesso.
Al contrario, Trider G7 è stato una conferma. Flashback di un’estate a metà degli anni ’80. Luca è a Sassello, e ogni giorno si consuma un piccolo rito: subito dopo pranzo, nella calura agostana, si reca a casa di Marco, gli dà una mano a fare i compiti delle vacanze e poi si guardano insieme una puntata di Trider G7. Per qualche ragione strana da questo rito sono esclusi tutti gli altri amici, persino Daniele a cui Luca è anche più legato rispetto a Marco. Ciò che mi è rimasto da questa visione, a parte il rinsaldarsi dell’amicizia con Marco, è riassumibile in una frase che ci ripetevamo spesso: “La parte più bella è quella sulla Terra”. E, diamine, è vero. Trider G7 è una commedia robotica: un riuscitissimo mix tra una specie di sit-com e una serie robotica classica. A mia memoria nessun’altra serie riesce in qualcosa di simile, forse solo Daitarn III che però affianca anche elementi drammatici e soprattutto non ha lo stesso spirito. Ed è pur vero che la parte più bella è quella sulla Terra, quella dedicata alle disavventure di Watta coi suoi amichetti a scuola e il suo ruolo anomalo di presidente bambino di una società di trasporti, ma anche la parte robotica è spassosissima, con inserti umoristici, cattivi variegati e interessanti, situazioni curiose e senso di meraviglia. Tanto è evidente questa tensione alla commedia che, caso unico, i cattivi vengono sconfitti nella penultima puntata(*) e l’ultima è dedicata interamente agli amatissimi personaggi e allo scioglimento delle loro relazioni. Io e Marco non vedemmo l’ultima puntata, probabilmente l’estate finì prima, ma ne saremmo stati certamente soddisfatti.
(*) OK, anche in Mazinga Z, ma lì è una questione diversa. Antipatici precisini che non siete altro!
Come tutti sicuramente ricorderete (ché questo non è mica un blog per giovani), nel 1983 ci sono stati amplii festeggiamenti per il centenario di Pinocchio, festeggiamenti che consistettero in sceneggiati, servizi televisivi, riscoperte dell’opera di Collodi. In classe (ormai saprete che facevo le elementari, a quei tempi) leggemmo persino ad alta voce l’intero libro: quando leggeva Alessandro era uno spasso perché sbagliava sempre.
Un giorno, ci portarono a festeggiare il centenario al cinema-teatro Colombo, esercizio ora in disuso. Come i bei cinemi dei vecchi tempi, era enorme e aveva palco e galleria, e la mia classe se ne stava al piano di sopra. Non ho il minimo ricordo in che cacchio consistessero questi pomposi festeggiamenti, se non che, a un certo punto partì Noi, ragazzi di oggi, celebre hit di Luis Miguel. Così almeno mi dice l’area del mio cervello riservata ai ricordi a lungo termine, ma scopro che tale canzone sfondò a Sanremo nel 1985, quindi forse sto sovrapponendo due eventi diversi (*). Già che ci sono comunque finisco di dire che tutti conoscevano a memoria l’intera canzonetta e il cinema-teatro Colombo rimbombava di centinaia di babanotti che cantavano “Noi, siamo il fuoco sotto la cenere!”. Tutti tranne me che ne sapevo solo qualche pezzetto e stonavo anche, tanto che Cesare venne a dirmi “C’erano un sacco di note alte che tu prendevi basse”. E’ possibile, non lo nego.
Il giorno dopo, tornando in classe, trovammo un Pinocchio di legno abbandonato su un banco. Credo di aver intuito che ne spettasse uno a ogni classe che partecipava ai festeggiamenti, offerti da chissà chi, e che fosse stato distribuito in guisa di uno per aula nel pomeriggio, quando non c’era nessuno. E si pose il problema: che fare di quel Pinocchio? Non si poteva mica tenerlo in classe, a scuola si fa scuola e non c’è mica spazio per i giuocattoli. Ovviamente ogni alunno lo reclamava per sé, e darlo ai poveri non era manco in discussione. La maestra quindi prese una salomonica decisione e proclamò la sua sentenza: “Poiché il Pinocchio è stato trovato sul banco di Enrico, apparterrà a Enrico”. Però secondo me è mica giusto. Enrico era figlio unico ed era coperto di giuocattoli e aveva un sacco di Masters. Io non avevo Masters e lo volevo io, quel Pinocchio di legno, ecco. Dovevano darlo a me perché sapevo contare fino a centoventi, ecco.
(*) Dico forse perché magari ad Alassio conoscevamo la canzone nel 1983 poiché magari avevano usato la salùbre cittadina come pubblico di test per una canzone che avrebbero lanciato due anni dopo. Magari, eh.