Barze e amenità
C’è un italiano, un francese e un inglese che.
Questo inizio, in cui la concordanza è un po’ zoppicante, costituiva l’incipit della stragrande maggioranza delle barzellette della mia prima infanzia. Il Fantasma Formaggino e i suoi colleghi (quello dalle Mani Sanguinanti, quello dagli Occhi Bianchi, quello da Un Occhio Bianco e Uno Nero…), "e noi ci cagheremo sopra", l’orologio che cade dalla torre sono stati la mia introduzione nel mondo delle barzellette, mondo col quale ho un rapporto estremamente conflittuale.
L’analisi del funzionamento delle storielle è stato già adeguatamente dibattuto da Achille Campanile nel "Trattato delle Barzellette", e spinguinato da Elio e le Storie Tese nella meravigliosa "vendetta del Fantasma Formaggino", quindi in questa sede vi toccherà ascoltare i miei lamenti su questo argomento. Le barzellette sono una mia maledizione: non mi piacciono, non credo di aver mai riso ad alta voce ascoltandone una, raramente mi solleticano anche solo un minimo di divertimento intellettuale. D’altra parte difficilmente le scordo, e ho addirittura anche un certo talento nell’individuare il finale prima che esso venga raccontato. Come se questo non fosse abbastanza, ho problemi anche dal punto di vista opposto: se devo raccontare una barza, l’interrogazione al mio database di storielle fallisce spesso, e, quando le ricordo, il racconto è decisamente scadente, sia per le mie scarse doti di oratore sia per l’abilità di sintesi che mi contraddistingue, che mi fa andare dritto al nocciuolo della battuta tralasciando gli orpelli, che in realtà sono ciò che rende (dovrebbe rendere) le barzellette divertenti.
Tutto questo mi pone in difficoltà quando, in società, è il momento delle barzellette. Di solito in buona fede, mi vengono raccontate per passare un po’ di tempo, o credendo di divertirmi, o magari (il peggio!) per rompere il ghiaccio tra sconosciuti. A metà barzelletta mi rendo conto che o la conosco già oppure so dove va a parare; nella migliore delle ipotesi la barzelletta mi soprende ma non mi diverte. E allora che fare? Dipende sostanzialmente dai rapporti che ho con la persona in questione. Se posso permettermelo, la interrompo a metà o, alla fine, rimango impassibile e chiedo sarcasticamente "e poi come va avanti?". Se invece non posso, per educazione o perché non mi conviene far indispettire l’interlocutore, allora sorrido con cortesia alla fine. Ma non chiedetemi una grassa risata, non fa per me. Per quella ci sono mezzi più semplici ed efficaci.
L’analisi del funzionamento delle storielle è stato già adeguatamente dibattuto da Achille Campanile nel "Trattato delle Barzellette", e spinguinato da Elio e le Storie Tese nella meravigliosa "vendetta del Fantasma Formaggino", quindi in questa sede vi toccherà ascoltare i miei lamenti su questo argomento. Le barzellette sono una mia maledizione: non mi piacciono, non credo di aver mai riso ad alta voce ascoltandone una, raramente mi solleticano anche solo un minimo di divertimento intellettuale. D’altra parte difficilmente le scordo, e ho addirittura anche un certo talento nell’individuare il finale prima che esso venga raccontato. Come se questo non fosse abbastanza, ho problemi anche dal punto di vista opposto: se devo raccontare una barza, l’interrogazione al mio database di storielle fallisce spesso, e, quando le ricordo, il racconto è decisamente scadente, sia per le mie scarse doti di oratore sia per l’abilità di sintesi che mi contraddistingue, che mi fa andare dritto al nocciuolo della battuta tralasciando gli orpelli, che in realtà sono ciò che rende (dovrebbe rendere) le barzellette divertenti.
Tutto questo mi pone in difficoltà quando, in società, è il momento delle barzellette. Di solito in buona fede, mi vengono raccontate per passare un po’ di tempo, o credendo di divertirmi, o magari (il peggio!) per rompere il ghiaccio tra sconosciuti. A metà barzelletta mi rendo conto che o la conosco già oppure so dove va a parare; nella migliore delle ipotesi la barzelletta mi soprende ma non mi diverte. E allora che fare? Dipende sostanzialmente dai rapporti che ho con la persona in questione. Se posso permettermelo, la interrompo a metà o, alla fine, rimango impassibile e chiedo sarcasticamente "e poi come va avanti?". Se invece non posso, per educazione o perché non mi conviene far indispettire l’interlocutore, allora sorrido con cortesia alla fine. Ma non chiedetemi una grassa risata, non fa per me. Per quella ci sono mezzi più semplici ed efficaci.