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Becky vs. Bridget

Mi piace pensare di essere un lettore di libri abbastanza onnivoro. Non leggo, sinceramente, così tanti libri (saranno 20 o 30 all’anno), ma spazio molto tra classici, saggi, romanzi seri e romanzi leggeri. Questi ultimi forse sono la quantità minore del gruppo (diciamo che delego a certi tipi di fumetti la parte di lettura di svago), ma ogni tanto adoro concedermi Harry Potter o uno Stephen King o un John Grisham o addirittura un romanzetto per femminucce. Ne avevo sentito parlare bene e ho acquistato e letto I Love Shopping di Sophie Kinsella (Confessions of a shopaholic).
I love shopping è un clone di Bridget Jones. Forse qualche fan o qualche addetto di marketing negherà quest’evidenza, ma non mi curerò di loro.
La chiave del successo di Bridget Jones, oltre che essere un libro ben scritto e divertente, sta nel fatto che la protagonista ispira simpatia perché è ritratta molto insicura e ripiegata sui propri difetti. In realtà durante il libro si scopre come questi difetti sono peccati veniali nei confronti di una donna che comunque ha il suo fascino e le sue virtù, e fortunato chi sa coglierle.
Rebeccca, la protagonista di I love shopping è modellata su questo principio, ma estremizzandolo. Quindi, se Bridget Jones aveva i suoi vizi nell’alcol e nel fumo e i suoi guai con gli uomini, i problemi di Becky stanno nella sua passione tutta femminile per lo shopping, cosa che la porta ad avere seri problemi finanziari. Ma non solo: la protagonista, almeno all’inizio, è dipinta come una totale incompetente in un lavoro per il quale non ha il minimo interesse, non ha interessi culturali, appare piuttosto stupida e meschina (verrebbe da definirla come una bugiarda compulsiva) e pare che l’intero suo mondo ruoti intorno allo shopping, tralasciando persino le compagnie maschili e a tratti le sue amicizie. E’ da questo punto di vista che è difficile simpatizzare con Becky, che appare eccessivamente monomaniacale, per quanto questo possa essere il tema del romanzo.
Non escludo che io, maschietto che detesta andare a comprarsi i vestiti, possa essere troppo distaccato per comprendere questa ragazza, ma per Becky io provo più compassione e irritazione che simpatia. E, in sostanza, la differenza con Bridget Jones è questa: l’eroina di Helen Fielding piace alle donne perché la sentono viva, la sentono una di loro (quante ragazze ho sentito dire "Io sono Bridget"! [1]). Becky va oltre: sembra essere fatta perché la lettrice pensi "Becky mi assomiglia, ma io sono meglio di lei". Inoltre, l’implicita e forse autoconvinta inferiorità di Bridget rispetto ai suoi uomini (sempre ricchi e di successo) è anch’essa estremizzata dal fatto che gli unici uomini che interessano alla nostra eroina sono multimiliardari.
Alla fine, dopo un vortice di bugie e di meschinità, giunge un deus ex-machina per cui la nostra si risolleva scoprendosi ricca di talenti, brillante e sicura di sé, senza debito, con un fidanzato ricco e un lavoro soddisfacente; il tutto accade in una ventina di pagine, troppo poche perché il tutto non appaia non dico plausibile, ma perlomeno narrativamente significativo.
Oh, non è una stroncatura! Il libro è piacevole da leggere e anche molto divertente, ed è persino ben tradotto. È solo che la proposta di questo modello di infra-donna mi ha lasciato davvero perplesso: una donna superficiale che cerca di accalappiare un marito ricco è davvero quello di cui le inglesi vogliono leggere? (confesso che recentemente sto sviluppando un certo razzismo nei confronti degli inglesi. Un popolo che mangia così male non può produrre nulla di buono.)

[1]Beh, a dire il vero una sola.

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