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Misteri della vita LV: Speciale bimbi

(ovvero, cose che mi chiedevo quand’ero piccolo e per le quali non ho avuto risposta, magari anche perché non l’ho chiesto a nessuno)

I presentatori televisivi parlano tantissimo e commentano sempre tutto quello che succede intorno a loro. Perché non parlano mai degli spot appena andati in onda durante i break pubblicitari?

Possibile che le donne da grandi si facciano ancora la pipì addosso, visto che comprano sempre i pannolini?

Anche gli asini sanno che la formula dell’acqua è H2O, cioè due atomi di idrogeno e uno di ossigeno… ma questi tre atomi cosa formano? Boh, qualcosa di piccolo… una goccia d’acqua, probabilmente. (Non so perché, ma ho sempre conosciuto l’esistenza degli atomi e la loro composizione basilare  – elettroni, neutroni, protoni – ma il concetto di molecola l’ho imparato molto più tardi)

Qual è il numero più grande? (Questo l’ho chiesto esplicitamente a mia mamma quando avevo 6-7 anni. Osservando il numero di telefono di casa mia, notai che poteva essere intepretato come un numero parecchio grande, e mi chiesi appunto quale fosse il più grande di tutti. Mia mamma rispose “Non c’è”, e il primo approccio con l’infinito mi turbò).

¡Que viva la siesta! (déjà vu)

La visione del mondo di un bambino è inevitabilmente filtrata dalla famiglia. Anche con quattro ore al giorno di scuola per confrontarsi coi coetanei e tre, quattro ore al giorno di televisione con una prospettiva su un mondo ben più ampia (anche se magari distorta), c’è un grado di “verità” in quello che accade in famiglia che viene percepito come superiore.

Ed è quello che è successo a me da piccolo col riposino pomeridiano. A casa mia, per qualche ragione, tutti hanno sempre fatto la siesta. Ero circondato da parenti le cui attività lavorative non richiedevano strettamente le prime ore del pomeriggio (insegnanti, negozianti, pensionati, casalinghe…), quindi i miei genitori, i miei nonni, le numerose zie avevano l’abitudine di fare il pisolino dopo pranzo. Ma non un riposino da dilettanti, sulla poltrona o sul divano: proprio a letto, sotto le coperte, con la luce spenta e la sveglia puntata, di solito tra le 15 e le 15.30. Roba da professionisti.
E’ importante andare a riposare dopo pranzo, diceva zia Adelina
Ma riposarsi di cosa? E’ pomeriggio, finalmente la scuola è finita, si possono fare tante cose! Si può giocare, leggere fumetti, guardare i cartoni animati, scorrazzare in giro, al limite anche fare i compiti così dopo ho più tempo per giocare! Perché perdere tempo a letto?
E’ importante andare a riposare dopo pranzo.
E’ possibile che si trattasse di residui di una certa saggezza contadina, per cui nei periodi di maggior lavoro ci si alzava prestissimo, si lavorava sodo la mattina e poi si evitavano le ore più calde della giornata riposandosi al fresco. Però risulta un’abitudine un po’ meno comprensibile per una professoressa di italiano e latino o per un’anziana la cui attività primaria consisteva nel far mangiare i nipoti tutto quello che avevano nel piatto.

Il silenzio in casa doveva essere rigoroso: niente palloni in giardino o altri giochi rumorosi, televisione bassissima, parlare sottovoce e addirittura (in modo un po’ incosciente, ripensandoci a posteriori) telefono staccato. Per fortuna il riposino coatto di solito mi veniva risparmiato, a patto di non far rumore, quindi lettura e giochi solitari silenziosi erano le mie attività prevalenti del primo pomeriggio. Solo quelle disgraziate delle suore dell’asilo ci costringevano, per un’oretta o due dopo il pranzo, a stare chini sui banchi verdi per “riposarci”. E chi può mai dormire in posizioni del genere? In realtà probabilmente volevano riposarsi loro, ma chissà quelle pinguine quante schiene storte hanno sulla coscienza!

C’è stato solo un periodo, quando avevo circa 17-18 anni, che anch’io mi sono piegato ad una versione dilettante del pisolino. Accadde in quel periodo che, come accade spesso agli adolescenti, volevo sentirmi più grande. Invece di mettermi a fumare o a picchiarmi negli stadi, mi ero così imposto di andare dormire tardi la sera, diciamo non prima di mezzanotte. Il mio fisico però un po’ di ribellava, quindi di pomeriggio presto, al ritorno da scuola, era inevitabile una mezzoretta di occhi socchiusi sul divano mentre in tv trasmettevano Lupin. Però mi sono sempre sentito in colpa.

Ora, da adulto (anagraficamente parlando, almeno), faccio un lavoro in cui quelle ore della giornata devono essere produttive. Tutte le mie conoscenze sono nella stessa condizione, tanto che i pisolini mi paiono un lusso di un’infanzia in provincia così lontana da essere a malapena ricostruibile nei ricordi. Eppure, quando a pranzo mi capita di concedermi qualcosa di più pesante e/o la sera prima ho fatto bisboccia, verso le 14 gli occhi mi si chiudono senza pietà, e allora invidio un po’ quelle abitudini che non ho mai conosciuto e che probabilmente non mi godrò mai.

Enciclopedia Stronza VII: Rivolta dei lustrascarpe, Scacciapanettoni, De Bruco

Rivolta dei Lustrascarpe: tumulto popolare scoppiato fra i lustrascarpe di Boston nel gennaio del 1906, provocato dall’istituzione dell’odioso balzello detto “tassa del lucido” (Shiny Tax). Tale provvedimento era stato escogitato dal governatore del Massachusetts per garantirsi un’adeguata fornitura di quaglie farcite, pietanza di cui era ghiotto, ed imponeva di versare all’erario un nichelino per ogni oggetto reso lucido da un lavoratore. Ovviamente la Shiny Tax andava a colpire soprattutto la sottopagata categoria dei lustrascarpe, che già faceva fatica a tirare avanti. Questi lavoratori quindi incrociarono le braccia e smisero di compiere il loro lavoro, lasciando così gli stivali dei gentiluomini del New England in balìa di fango e polvere per oltre un mese. Il governatore, dal canto suo, non aveva però alcuna intenzione di recedere, e la situazione rimaneva in stallo. La sommossa giunse al termine quando Lester Martin, un geniale ingegnere di New York, inventò un efficiente macchinario lustrascarpe automatico. Dato che l’impresa era compiuta da una macchina, la “tassa del lucido” non doveva essere corrisposta (cfr. Atti della Corte Suprema, febbraio 1906). Le scarpe dei signori per bene e la loro rispettabilità furono quindi salvaguardati, mentre i rivoltosi, non avendo più alcun potere contrattuale, vennero trucidati dalla polizia di Boston. I loro miseri averi furono venduti e utilizzati per l’acquisto di ulteriori quaglie per il governatore.

Scacciapanettoni: strumento domestico in uso a Vicenza e provincia. Lo scacciapanettoni più comune, quello in vendita nei negozi di casalinghi, è una barra di metallo semirigida lunga circa 40 cm e terminante con un fiore di plastica colorato (detto “biciùn“). Non mancano quelli artigianali, costruiti in legno o con biciùn elaborati, secondo la secolare tradizione vicentina. Lo scacciapanettoni è usato principalmente come decorazione o come spauracchio per i bambini (“Guarda che se non fai il bravo vado di là e prendo lo scacciapanettoni!”) ma verso Natale viene tirato fuori e utilizzato dalle famiglie festanti. Infatti, verso il termine dei luculliani pranzi natalizi, quando agli stomaci stremati viene proposto il panettone, i conviviali possono allontanare da sé il prelibato dolce con lo strumento apposito. A Vicenza si suol dire che Natale non è Natale senza la scena del capofamiglia che usa lo scacciapanettone e la matrona che si arrabbia.

De Bruco: poema latino in esametri, scritto fra il 123 ed il 70 a.C da Marco Aurelio Fellatino. L’opera in questione, della lunghezza di 746 pagine (o, secondo gli standard dell’epoca, 230 rotoli), consta di 22462 esametri e narra della vita di un unico bruco anonimo, dal suo concepimento fino alla sua morte, che avviene tragicamente ad opera di un corvo poco prima della metamorfosi in farfalla. I commentatori antichi e moderni apprezzano particolarmente il passaggio in cui Fellatino racconta minuziosamente il cammino del bruco da una foglia al tronco dell’albero, descrizione che occupa all’incirca 122 pagine, raggiungendo nell’esametro 1022 la punta massima del sublime. Le parole “et arbor fuit” ormai sono sinonimo di sollucchero poetico in tutto il mondo.
Nei salotti della Roma imperiale era di moda vantarsi di aver letto il poema per esteso, sebbene ciò molto spesso non fosse vero (un po’ come succede oggi con l’Ulisse di Joyce), e spesso anche gli intellettuali più in vista si limitavano a conoscerne i passaggi maggiormente significativi. Memorabile a tal proposito un intervento di Cicerone che, dinnanzi alla folla in ascolto, citò il poema come esemplificativo del caso di cui si stava discutendo. Per inciso, il celebre oratore si stava occupando di difendere un politico accusato di corruzione, ma nessuno osò chiedergli spiegazioni per non rischiare di dimostrare di non aver mai letto il De Bruco.

Uabboi!

paninaro.JPGDopo la mia scoperta di Teddy Bob dell’anno scorso, quest’anno a Lucca comics ho compiuto un altro passo nel recupero della storia del fumetto italiano, o meglio, nello studio dell’archeologia del fumetto italiano: ho recuperato un fumetto di paninari.
Non molti sanno che queste pubblicazioni sono stati uno dei più grandi successi degli anni ’80, arrivando a tirare oltre 150.000 copie (non molte di meno del Dylan Dog odierno!) e che la casa editrice responsabile del misfatto non è altro che la Edifumetto di Renzo Barbieri, nota per i pornazzi da… barbieri come il Lando e il Tromba e assai abile nel cogliere i fenomeni di costume per sfruttarli commercialmente.
L’albo che ho trovato è in realtà una raccolta, quelle costruite mettendo insieme le rese da edicola e tuttora piuttosto diffuse, e porta come titolo “Super Paninaro”. La raccolta è composta da due albi: un Paninaro vero (il numero 9, Settembre 1986) e una pubblicazione minore: Jeans, dedicata al mito del “giovane autostoppista giramondo con lo zaino sulle spalle”, a cui non dedicherò attenzione.

Concentriamoci sul Paninaro ortodosso: l’albo è composto da una sola storia, “Tamarri allo spray” e, come da tradizione dei Barbierazzi, ogni pagina è composta da due vignette, una sopra e una sotto. Testi di Cioz , disegni anonimi: l’attribuzione dei testi è una cosa piuttosto strana, ma dopo la lettura la cosa sorprende di meno, perché (quasi non ci credo che lo sto dicendo) il Paninaro è scritto piuttosto bene. L’impresa che Cioz (nome d’arte di Paolo Gherlardini, storico sceneggiatore della Edifumetto) è riuscito a compiere consiste nel sapiente dosaggio del tono: il lettore dei tempi, il paninaro decerebrato, godrà nel ritrovare il linguaggio dei suoi miti, le marche in bella evidenza, i riferimenti al Burghy e a Piazza San Babila; invece, il lettore scafato o semplicemente quello moderno (tra i milioni di difetti del mondo del 2007 non c’è quello della presenza dei paninari), leggendo tra le righe, noterà un lieve distacco, una sottile e bonaria ironia appena accennata nel presentare personaggi e situazioni. Il linguaggio, poi, non è altro che una parodia della parlata dei paninari ottenuta mediante iperboli; è così ricco, assurdo e improbabile da risultare ancora più spassoso del gergo di Teddy Bob. Si intuisce che l’autore ai tempi probabilmente pensava “Cosa mi tocca fare per campa’“, ma riusciva a nascondere la sua perplessità dietro la professionalità e l’esperienza di quindici anni come sceneggiatore.

Ma vediamo in dettaglio di cosa parla “Tamarri allo spray“. Avvertimento: racconto tutta la trama fino alla fine. Se pensate di non poter tollerare spoiler sui paninari, non leggete oltre. La storia è inizialmente ambientata a Varese, anzi a “Varese-city“, dove “i giusti di Corso Matteotti fanno le vasche“. Ma altrove “quaglia una brutta brodaglia“: ci sono i nemici dei paninari che scrivono sui muri scritte contro i nostri eroi: “Paninari di merda“, o “Panozzi (teschio) è già fatta“. I paninari, tra cui lo Zocca, il Bolivar e il Caudillo (soprannomi curiosi, molto poco anni ’80) decidono di fare qualcosa e si accordano: “Allora d’accordo“, “Tozzi per uno, uno per tozzi“, “L’unione fa le scorze“, “L’unesco fa la forza“, “Unire l’utile al delittuoso“. In questi dialoghi riecheggiano un po’ le figure retoriche (e l’imbecillità) di Teddy Bob.
La parola raggiunge il Ducetto, un “Sanbabila spiazzato per colpa di un trasferimento paterno” (da Milano a Varese?). Il Ducetto è rappresentato col la testa rasata, una sorta di skinhead paninaro, e, altra sorpresa, si rivelerà un personaggio negativo. Il Ducetto si traveste da tamarro e si infiltra tra i nemici, dove scopre che i tamarri “semplici” si stanno organizzando per rimpolpare i propri ranghi: “Metalli, darki, punki e cinesi sono tutti dalla nostra“. Si ricorderà dal Paninaro di Enzo Braschi al Drive In che i Paninari ce l’hanno con quelli che ascoltano musica “strana”.
Il Ducetto si rivela per quello che è, e, anche se gli altri si rivelano dubbiosi, decide per un “megablitz crematorio” perché “kerosene purifica, lo dice la parola stessa” (ma quale parola?). Uno dei tamarri si è lasciato sfuggire che suo padre ha una bancarella di libri, e il Ducetto, con qualche compare, va a bruciare proprio quella. Bruciare libri: certo che qui Cioz non si fa scrupoli nel presentare una mela marcia paninara.
Il giorno dopo la città è turbata, i paninari non si fanno vedere in giro e le sfitinzie capiscono che son loro in qualche modo i responsabili. Preoccupate, chiedono i rinforzi: “Faccio un ring alla mia amica milanese. E’ la sfitinzia di un vero gallo-di-dio!“.

Ed ecco che, a pagina 47, arriva finalmente l’eroe della storia: la storia non segue gli schemi narrativi più comuni. La scena si sposta a Milano, per la precisione al Castello Sforzesco. Qui, “Max, l’ipergallo più sting della lombard-country, fa lezione di paninosofia alla kid-generation“. Molto curioso questo discorso un po’ contraddittorio: prima fa un’apologia del denaro in piena comunione con l’epoca: “Lo scienziato, il poeta, il musicista possono essere grandissimi, ma se non hanno la zecca sono dei falliti. Se il successo non si traduce in denaro vuol dire che non era vero successo“. Ma al ragazzino che gli dice che lui soldi non ne ha, Max snocciola alcuni consigli per essere vestito con personalità senza spendere, concludendo con “Non ostentate ma non siate neanche umili…il coraggio prima di tutti e la massima onestà con se stessi…l’amido non fa il manico!“. L’impressione è di assistere ad una sorta di schizofrenia tra l’autore e il personaggio.
Max viene a sapere dalla ragazza sopracitata del problema di Varese e decide di occuparsene. Va a recuperare il suo amico Zippo e insieme decidono di coinvolgere Reganone, il cui “arterio è collaudatore di elicotteri all’Agusta“. Galli e sfitinzie milanesi partono alla volta di Varese (e diciamolo che quei provinciali sono proprio sfigati!).diariopaninaro.jpg
Il loro piano geniale prevede di provocare entrambe le parti per farle convergere in un solo luogo, col metodo più naturale: i telegrammi. “Fai una bella cosa per la nazione: emigra! Firmato: i tazzorri di Varese” o “La cacca è meno stronza di te. Firmato: i panozzi di Matteotti’s Road“. E si arrabbiano, ovviamente: “Dito cane! Taragna vacca!
Si giunge quindi al momento dello scontro finale: panozzi di Varese vs. tamarri. In uno spiazzo di periferia, all’ombra di cisternoni della Esso, i due gruppi si affrontano in sella a rombanti motociclette, come nella celebre scena di “Altrimenti ci arrabbiamo“. Le cose si mettono male, e le sfitinzie sono preoccupate: “E’ acida la story” “Non mi sessa niente bene“. Ma per fortuna arrivano i nostri: Max & c in elicottero, che, al grido di “Print, gente galla? Iper-print, giù la bomba!” (il Commodore 64 ha lasciato la sua impronta su quei ragazzi!) lasciano andare dell’olio su entrambi i gruppi. Max afferra un megafono e fa la sua predica: “A tutti voi, truzzi e mazzulatori! Aprite gli auricolari! E’ il Max che vi swatta…e quello che vi zozza è olio diesel nero come le vostre genze! Piantiamola di farci la guerra! Quella lasciamola ai cimelios, caterpillar e cadaveri tipo Gheddafi e Komeini, i megatarri dell’orbe terracqueo…” E tutto è bene quel che finisce bene.
Come si sarà intuito, la storia ha una sua piccola morale: i veri galli non usano la violenza, sono talmente fighi che non ne hanno bisogno. I paninari probabilmente sono stati il movimento più imbecille che la storia abbia mai prodotto: un gruppo persone che fa della superficialità e dell’apparenza una bandiera se non un credo forse non fa male a nessuno, ma certamente neanche del bene. In questa storia invece viene introdotta una sorta di etica che storicamente è estranea al “paninarismo”, etica che tuttavia risulta inquinata da un principio dal quale non si scappa: per essere galli ci vogliono i soldi. Se non hai l’amico con l’elicottero, il deus ex machina non arriva.

Ovviamente l’albo è ingenuo, la storia è forzata e poco plausibile, e i disegni sono di qualità bassa se non scadente. Solo la sceneggiatura salva la lettura della storia, che, comunque, risulta nel complesso frizzante e piacevole, soprattutto in virtù di quel particolare tono che lo scrittore è riuscuto ad escogitare. Però se avete tempo, c’è di meglio da leggere!

L’albo è completato da qualche rubrica, tra cui una classifica di tendenze. Da queste vengo a sapere che le seguenti mode sono nella categoria “troppo giusto” : l’orologio Timberland, le Scarpe Tod’s, il diario Paninaro (ovviamente pubblicato dalla stessa casa editrice) e “indossare le felpe a rovescio”. Quindi io, nel 1988, ero un Vero Paninaro, forse un pochino in ritardo.
Infine, ci tengo a citare il test “Ti sai divertire?“. L’albo che ho acquistato era usato e il suo proprietario ha fatto il test: è risultato essere un “Truzzolone di sighero“, il minimo possibile. Sarà per questo che ha rivenduto il fumetto: era un gino!

Misteri della vita LIV: Il moto dei cani

Perché molti cani camminano storti?

…e poi?

Non stupirò nessuno facendo notare come la quasi totalità degli articoli marcati “Aneddoti inconcludenti” si svolga durante la mia infanzia, o al massimo nella mia preadolescenza. Per capirci: Luca all’asilo, Luca alle elementari, Luca alle medie, Luca a Sassello. Ma l’Attento Lettore (la versione pinguinesca dello Stupido Utente Medio, che purtroppo qua non bazzica) si chiederà:
“Ok, tutto molto bello, ma dopo i tredici anni non hai combinato nulla? Non hai gustosi aneddoti da raccontare sul liceo? Avrai sicuramente saltato scuola per andare in spiaggia! E le bravate in gita? Gli scherzi ai professori? E poi, gli anni dell’università! Ah, gli universitari fuori sede ne combinano di cotte e di crude! Feste Erasmus! Birra a fiumi, sesso, droga e rock’n’roll! Poi avrai messo la testa a posto, d’accordo, ma nel mondo del lavoro se ne vedono tante. Io leggo Dilbert, lo so bene: colleghi sfaticati e colleghi sgobboni! Capi malvagi e terribili ingiustizie! Colleghe zoccole, colleghe brutte come la morte e colleghe zoccole e brutte come la morte! E poi, a proposito, vediamo di parlare anche un po’ di patata!”

Sì, sì, qualcosa sì e qualcosa di meno, ma nel complesso un po’ di tutto questo, bravo Attento Lettore, tu la sai lunga. Suppongo in effetti che qualche aneddoto inconcludente degno di essere raccontato ci sia anche nei diciotto anni successivi al conseguimento della licenza media. Ma sono eventi dai colori brillanti, privi di quella patina di ingiallimento e di relativa nostalgia agrodolce che me li rende più gustosi da raccontare. E’ sostanzialmente roba un po’ contro lo spirito con cui racconto i miei aneddoti: non ho ancora (e non so se mai l’avrò) rimpianto per gli anni del liceo e dell’università, e poi è roba troppo, troppo fresca.
Detto questo, mi contraddico:

Albenga, ottobre 1988
Luca è in prima liceo (ok, non andiamo molto più in là, però siamo già alle Scuole Superiori!). E’ il giorno delle elezioni scolastiche, e per la prima volta nella sua vita egli eserciterà diritto di voto. Il nostro eroe indossa una felpa gialla e blu, e fiero pone il suo voto, esprimendo la preferenza per Massimiliano Guido (ops, ho commesso un reato violando un segreto elettorale?). Giunto a casa, egli si rende conto di avere la citata felpa gialla e blu messa al contrario, davantididietro. Si sente umiliato al pensiero di cosa avranno detto di lui le neo-compagne di classe, ma probabilmente non se n’è mai accorto nessuno o nessuna. Non lo sfiora invece l’idea di rapportare simbolicamente le elezioni con l’avvenimento.

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