Alle elementari studiammo l’arcobaleno. Non una spiegazione scientifica accurata, per carità, non ho ancora capito ora perché sia arcuato (anche se suppongo che sia una conseguenza della diversa densità dell’aria nell’atmosfera), ma piuttosto come una serie di nozioni siffatte: l’arcobaleno si forma quando esce il sereno dopo la pioggia, quando un raggio di sole attraversa una goccia sospesa; si può riprodurre l’effetto usando un prisma; non è vero che c’è una pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno (anzi, credo proprio che non esista la fine dell’arcobaleno); i colori dell’arcobaleno sono sette: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco, violetto.
Indaco? Che diamine di colore è l’indaco? Cioè, ora lo so, è una specie di viola tendente al blu, ma a scuola nessuno si prese la briga di spiegarlo e tantomeno io di chiederlo. Era una di quelle nozioni da imparare a memoria senza chiedere dettagli, un po’ come “oro incenso e mirra”. Però indaco mi faceva ridere perché mi ricordava “sindaco”, e i sindaci, nel mio mondo, erano signori panzoni e buffi, spesso con la faccia da maiale, con il cappello a cilindro e la fascia a tracolla sopra un vestito elegante di un certo colore. Questo colore, il color “sindaco”, era per me il color indaco. Vi dirò di più: dovrebbero fare una legge per la quale ogni sindaco deve vestirsi sempre di color indaco, che quindi diverrebbe in effetti color sindaco. Ciò semplificherebbe assai lo studio dei poveri bambini di oggi, che già hanno più province da imparare di quante ce ne fossero ai miei tempi, e soprattutto, così avrei ragione.