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Il grande show del centoventi

Tutto vero.

Il capodanno 1982/1983 (*) è stato l’unico della mia infanzia in cui sono andato da qualche parte, sfuggendo al tradizionale cenone a casa di mia nonna. Non si andò troppo lontano: la Kadett verde di mio papà si diresse alla mia adorata casa di Sassello, insieme a mio cugino Gabriele con famiglia e qualche coppia di amici. La casa di Sassello era pensata per l’estate e poco preparata al freddo invernale, e ricordo che dormii sotto una montagna di coperte. Non solo: pur essendo una villetta abbastanza attrezzata in termini di camere da letto, eravamo proprio in tanti e finimmo per dormire in molti nella stessa stanza. Non ricordo di preciso chi fosse in camera con me, ma di sicuro c’era almeno un’amica dei miei.
Una sera, al momento di andare a dormire, mi infilai sotto le coperte tirandole anche sopra la testa, e, al sicuro, iniziai il mio show. In quel periodo, infatti, per qualche strana ragione, mi sentivo fico a saper contare. Già fino a cento era una bella impresa, ma fino a centoventi era un compito per pochi eletti. E allora, fingendomi un presentatore televisivo dissi sottovoce “E ora il tanto atteso show! Il grande Luca conterà fino a cen-to-ven-ti!” (segue alitata per simulare la folla in delirio). Mi immaginai di fronte a una platea che aspettava col fiato sospeso e poi iniziai “Uno, due, tre…” arrivando, come promesso, fino a centoventi. Io prometto e poi mantengo.
Il giorno dopo, a colazione quella signora mia coinquilina disse: “Ah, ah! Ieri sera Luca ha contato fino a centoventi”. E io mi vergognai, anche se, sotto sotto, sapevo che la sua era invidia perché mica tutti sanno contare fino a centoventi. In televisione, poi.

(*) Ho il sospetto che possa essere un altro anno e che io possa aver sovrapposto degli eventi, ma voi fate finta di niente.

Etimologie funamboliche

Uno dei molteplici motivi per cui da bambino (e forse ancora adesso) ero insopportabile consisteva nel fatto che ponevo un sacco di domande. Ma non questioni facili, tipo “qual è la capitale della Svezia”, “perché la squadra di Genova si chiama Genoa”, “da dove vengono i bambini”, ma piuttosto cose tipo “perché il cielo è blu” che metterebbero in crisi quasi chiunque (*).

Se però le domande di ambito scientifico potevano mettere in crisi i miei, non altrettanto succedeva per quelle relative ai settori umanistici, in cui erano assai preparati. Un giorno mi capitò di chiedere a mia mamma: “Perché l’Italia si chiama così?” e lei, senza esitare, diede la risposta che tuttora è considerata la più valida: “In antichità venne chiamata Vitalia poiché c’erano tanti vitelli , poi è caduta la V e ora si chiama Italia”. L’immagine che mi dipinsi fu la seguente: le lettere della parola Vitalia camminano su un ponte sospeso, tipo il finale di Indiana Jones e il Tempio Maledetto, cantando una non precisata canzone. A un certo punto V mette un piede in fallo e sotto gli sguardi attoniti di T,L, le gemelle A e i trigemini I precipita nel vuoto. L’etimologia è una scienza crudele.

(che poi, ci avranno le loro ragioni i signori etimologi…ma davvero si può attribuire il nome di un territorio di 300.000 kmq in base al fatto che ci sono i vitelli? E poi non le mucche e i tori o i bovini in generale -che, a naso, stanno dove stanno i vitelli-, ma proprio i vitelli? Beh, meglio così. Avremmo potuto abitare in Ucchia, dopo l’inevitabile caduta della M. Figuratevi Mino Reitano che canta “Ucchia! Ucchia! Di terra bella uguale non ce n’è!”)

(*) Quanti di voi sanno perché il cielo è blu? Io ne ho una vaga idea, ma non so se sia esatta, e tantomeno saprei spiegarlo a un bambino.

Flash, Superflash e Telemike

No, oggi non si parla di quella buonanima di Mike Bongiorno. Il menu odierno verte su una serie di micro-aneddoti che sono talmente insignificanti  da non assurgere nemmeno alla dignità di “Aneddoto inconcludente”. Pensate un po’ che palle… Eh,, dicevo: ecco a voi una bella carrellata di flash in ordine cronologico, partendo da quand’ero all’asilo fino a ieri.

Torta riservata
All’asilo la canzone del compleanno (che qui non citerò nella sua forma originale perché coperta da copyright e i discografici sono pazzi), non era la solita variante “Tanti auguri a te, e la torta a me” (già nota come battuta obbligatoria), ma un sessista “Tanti auguri a te, e la torta ai maschi” (o “alle femmine”, a seconda del cantante. Per me, era “i maschi”).

Coltivazioni insolite
Il mio compagno di classe delle elementari Enrico era figlio di albergatori, e spesso frequentavo il suo albergo per fare i compiti o per giocare. Un giorno mi disse che in un vaso del suo albergo era cresciuto un fungo porcino. Gli credetti.

Pulizia calcistica
Dario, fratello maggiore del mio compagno di scorribande Daniele a Sassello, è seduto su una panchina e legge la Gazzetta dello Sport, proclamando: “Quella sporca Juve ha fatto un altro sette a zero!”. Dario era milanista e leggeva solo la Gazzetta e il Guerin Sportivo, raramente Zagor. Quel sette a zero, se ben ricordo, era contro l’Ascoli, ma non rimembro chi fosse la vittima dell’altro sovratennistico punteggio.

Campanello privato
In prima media, si staccò un appendino da un attaccapanni a schiera. La cosa  riempì di gioia me e i miei due sidekick Andrea e Simone, perché potevamo utilizzarlo come “campanello privato”, battendo quel pezzetto di metallo su qualcos’altro di metallico e producendo un rumore per nulla simile a un campanello scolastico, se non nella nostra immaginazione. “Se il campanello vero non suona, abbiamo il nostro!”. Eravamo tanto fieri di questa trovata che ci portammo dietro il campanello privato in seconda e anche in terza media.

Oggi è martedì
Il mio coinquilino Ennio, detto Il Sire, giocava con la Playstation collettiva in una sola modalità: con la demo di Formula 1 ’97 percorrendo sempre lo stesso giro con la stessa macchina, e rigorosamente in piedi. Un giorno, mentre aspettava che si caricasse il giuoco, in un’atmosfera carica di tensione, se ne uscì con un improvviso “Oggi è martedì” che rese gaia la casa di Salita Inferiore della Noce. Invero, era martedì.

Memoria corta
Nel 2000 ho imparato ad attaccarmi i bottoni della camicia. Ho disimparato l’anno dopo. Tuttora non ne sono più capace.

Amatriciana sbagliata
Ieri ho fatto la pasta all’amatriciana, ma ho tritato troppo fine la cipolla e usato fiocchi di pancetta invece che dadini. E’ venuta quindi troppo amalgamata, priva dell’irregolarità che la pancetta a pezzettoni e la cipolla a tocchetti conferisce al prelibato piatto, e la conseguente goduria. Comunque era buona lo stesso.

Fidipò

Ovvero, una figura di popò, direi una delle peggiori della mia breve e intensa esistenza.

Era, a naso, il 1990, avevo 16 anni e non ero ancora motorizzato (i miei mi avrebbero concesso l’agognata motoretta solo l’anno successivo). Mi trovato ad aspettare l’autobus per Moglio al capolinea di Alassio, attendendo con mio cuggino Gabriele, lì per caso e sua disgrazia, e una piccola folla di habitué del bus: ora come allora, quasi tutti bambini e vecchietti privi di mezzi propri. In particolare, c’era una signora il cui comportamento mi aveva sempre urtato: era una di quelle che parlano sempre di tutto e a sproposito di tutto, senza sapere quando stare zitta o quando disturbava la gente, e per di più schiamazzando forte con una voce da gallina. Mi rivolsi allora al mio incolpevole cuggino e, sottovoce, gli dissi: “Quella là è un’imbecille“, indicandola con lo sguardo.

Nonostante il volume a cui parlava continuamente che avrebbe dovuto renderla sorda, la cagacazzo in questione sentì la frase incriminata, e ovviamente si risentì, ma non osò affrontarmi a muso duro. Si vendicò invece trasversalmente, comunicando a tutto il gruppuscolo di persone in attesa che “quello lì ha detto che sono un’imbecille”. Tutti intorno allora iniziarono a mormorare “Ma chi è quello lì? Ma come si permette? Ma da dove viene? E’ forse il figlio del panettiere? No, no, quello è un bravo ragazzo, questo sarà un drogato” mentre io e mio cuggino, probabilmente imporporiti fino ai capelli, fissavamo il vuoto e fischiettavamo la canzone dei Puffi cercando di darci un contegno.

E, come si soleva dire ai miei tempi, parappapà, parappapà, parapparappappà, figu’ di merda…

Intollerabile!

Voglio dire, tutto questo è intollerabile.

Durante i primi tempi dell’indimenticata e indimenticabile trasmissione Pronto Raffaella tutti potevano telefonare e partecipare a qualsivoglia gioco. Era uno spasso, un giardino dell’Eden. In seguito però, visto il successo della trasmissione, finiva che a causa dei centralini telefonici poco elaborati degli anni ’80 prendevano la linea sempre quelli di Roma. Che sono più simpatici di quelli di Milano, per carità, però anch’io voglio dire la mia sul numero di fagioli, che diamine. E allora si iniziò a riservare i giochi per regione: ai fagioli poteva giocare l’Emilia, il Veneto e l’Umbria, a “perché dico bianco” solo il Lazio esclusa Roma eccetera, ruotando i giochi tra le diverse zone geografiche. Ineccepibile, se non che la rotazione era per i giochi, ma non per gli orari. E la Liguria, l’avrete ormai indovinato, era piazzata all’inizio, a mezzogiorno in punto, quando io ero a scuola e potevo solo immaginare di telefonare a Pronto Raffaella.

Voglio dire, tutto questo è intollerabile.

Butters!

Per prepararvi a questo inconcludentissimo aneddoto, si sappiano le seguenti informazioni su di me:

L’autobus: la mia casa ad Alassio è in collina, situata a un paio di chilometri abbondanti di salita dal centro città. C’è un autobus che, con frequenza oraria, percorre la strada e un’opportuna fermata che fa al caso mio (la cosiddetta “fermata della Liggia”). Fin dall’età di 7-8 anni io prendevo questo autobus da solo, in realtà senza essere stato addestrato in modo completo. Infatti, nessuno mi aveva mai detto che per scendere alla Liggia dovevo suonare il campanello o, come si usa in provincia, chiedere all’autista di fermarsi. Per lungo tempo, ho avuto la fortuna che qualcun altro scendesse alla stessa fermata.

Il “Voi”: da bimbo ero un avido lettore, ben più di adesso: un buon 2-3 ore al giorno le dedicavo a fumetti e libri, spesso rileggendo le stesse cose. Di conseguenza, buona parte della mia conoscenza del mondo derivava dalla parola scritta, cosa che a volte poteva generare attriti con la realtà. Ovviamente non pensavo che esistessero davvero Topolinia e Paperopoli, ma il fatto che conoscessi pochissime parolacce ne era una prima conseguenza. Un’altra era che ero convinto che usare il “voi” come forma cortese fosse normale e perfettamente lecito, esattamente come lo è nell’italiano scritto.

Ecco, ora avete elementi sufficienti per godervi l’aneddoto.
Un giorno ero salito sull’autobus per tornare a casa, gaio della mia indipendenza. Come avrete probabilmente intuito, quel giorno nessuno doveva scendere alla Liggia, e l’autobus tirò dritto. Io mi spaventai un pochino, ma alla fermata dopo, per fortuna un signore doveva smontare dal mezzo e la corriera si fermò.  Ne approfittai e ratto come la folgore scesi anch’io, e mi convinsi che fosse cambiata la mappa delle fermate. Poco male, pensavo, qui è leggermente più lontana ma non sarà la fine del mondo. In un moto di solidarietà, quindi, chiesi a quel signore: “Anche voi non sapevate che era cambiata la fermata?”. Lui mi guardò come si guarda un fessacchiotto e rispose, affrettandosi per la sua strada: “No, io dovevo scendere qua”. E l’aneddoto finisce qua.

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