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Annecy 2012 parte I: Considerazioni generali e lungometraggi

Genova, sabato 2 giugno 2012.
Silvia, 5 anni: – Ma dove va lo zio Luca?
Miasorella: – Va a vedere i cartoni animati per una settimana intera.
Silvia: – Ma lo zio Luca è grande! Perché va a guardare i cartoni? E ci voglio andare anch’io!
Miasorella: – Chiamiamolo e diciamoglielo!

Spero proprio che tra qualche anno, quando Silvina sarà abbastanza grande, rimarrà così appassionata di cartoni animati da capire che i cartoni animati sono uno spasso enorme a qualunque età. E com’è andata quest’ anno? Beh, sinceramente, “benino“. Intendiamoci, mi sono divertito tantissimo come sempre, ho rivissuto in gran spolvero la Annecy Experience descritta l’anno scorso, ho visto un sacco di cose interessanti e ho espanso i miei orizzonti, ma oggettivamente il piatto forte del festival, il concorso di cortometraggi, è stato abbastanza scadente. Ma ci arriveremo con calma.

E’ stato l’ultimo anno della direzione artistica di Serge Bromberg. L’istrionico, polivalente, geniale comunicatore che ha lanciato il festival così com’è adesso si dedicherà ad altri progetti. Tenendo conto che l’anno prossimo il cuore del festival, il centro Bonlieu, sarà in ristrutturazione, è probabile che il 2013 porterà dei grossi cambiamenti. D’altronde, pensando a com’era il festival nel 2003, alla mia prima apparizione, e confrontandolo con quello di oggi si notano già non poche differenze: l’importanza data ai lungometraggi, che stanno pian piano soppiantando i corti, la perdita di valore delle rassegne, il comprimersi dei costi rinunciando a tanti frilli e, soprattutto, l’aumento di affluenza. Mai come quest’anno, in più occasioni, ho avuto l’impressione che il Festival di Cinema di Animazione di Annecy fosse vicino al collasso per l’affollamento.

Come da tradizione, ogni anno è dedicato a una nazione, e quest’anno è stato dedicato all’Irlanda. “Ma che animazione ha prodotto l’Irlanda?” chiederete voi. Eh, bravi. Poca roba e neanche molto interessante, infatti non ne ho visto proprio nulla. E, come l’anno scorso era successo per la Polonia, quest’anno c’è stata una nazione che è spiccata sulle altre per quantità di film proposti: la Corea del Sud. Quasi dieci anni fa, nel 2004, il festival era stato dedicato alla Corea, e ripensando alle pessime produzioni di quel periodo c’è da dire che hanno fatto davvero passi da gigante. C’è roba buona e meno buona, ma quello che colpisce è la varietà di temi e di toni dal punto di vista cinematografico, e, dal punto di vista dei contenuti, il ritratto spietato di una società che sembra disumana nella sua rigidezza, competitività e spietatezza. Viene spontaneo paragonare i coreani ai giapponesi: sono convinto che si tratta di due società simili, ma che i coreani siano molto più autocritici e spietati nei propri confronti (senza tralasciare il fatto che sei i coreani appaiono in un ottimo momento creativo,  il Giappone  è sempre più in crisi di idee). A sinistra, il bel manifesto del festival.

E parliamo subito di un ottimo lungometraggio coreano, fuori concorso: King of the pigs di Sang-oh Yeung. Uno scrittore fallito incontra un suo compagno delle medie, divenuto un manager, e insieme a lui ripercorre i ricordi della loro gioventù, soprattutto riguardo un loro compagno di scuola che avevano eletto come leader (appunto, il “king of pigs”) e  i drammatici eventi che ne seguirono.  Si tratta sostanzialmente di una storia di bullismo,  visto come specchio di una società in cui i forti e i ricchi prevaricano i  deboli e i poveri.  E, soprattutto, è una storia senza nessuna speranza, agghiacciante nella sua durezza: le scene nel presente dimostrano come il mondo fuori dalla scuola funzioni allo stesso modo del microcosmo scolastico, e il ricordo non porta nessun conforto. Forse la battuta chiave, pronunciata dal King of Pigs dopo aver picchiato un bullo, forse è proprio: “Ho una sola paura: che quando crescerete possiate guardare indietro a questo periodo e sorridere. Voglio che ricordiate solo terrore e dolore”.

Bene, vi siete depressi? Questo è solo l’inizio. Il vincitore del Cristallo di Annecy come miglior lungometraggio è stato Crulic – drumul spre dincolo, di Anca Damian, un film croato che parla della morte di un detenuto rumeno in Polonia dopo un prolungato sciopero della fame. Il tema è pesante, ma c’è dell’umorismo (nerissimo) ed è un film tecnicamente straordinario, ricchissimo di idee, di soluzioni visive, con un ritmo perfetto e testi eccellenti. L’animazione serve anche a questo: a trattare un tema del genere e renderlo fruibile; non riesco ad immaginarlo girato dal vivo. Ah, e si vedono alcune foto di Genova. Yeeee! L’ho visto un po’ dubbioso, mi sono ricreduto dopo due scene. Bellissimo.

Tristi? Rimaniao in tema e parliamo di Arrugas, film spagnolo di Ignacio Ferraras. vincitore del secondo premio. Si tratta di una storia d’amicizia tra anziani in una casa di riposo, tra l’isolamento dal mondo, l’attesa della morte e la minaccia dell’Alzheimer. E’ oggettivamente un bel film, triste ma senza essere patetico, e secondo me, nel lotto dei film di cui sto parlando, è uno dei pochi che forse potremo vedere in Italia.

Due rapidi cenni ad altri due coreani (almeno in parte). Coleur de peau: miel di Laurent Boileau e Jung Henin è una storia di adozione in Belgio di un bimbo coreano che, cresciuto, vorrà ritrovare le sue radici. E’ piaciuto in generale (ha vinto il premio del pubblico – cosa che mi ha sorpreso non poco), ma io non l’ho amato particolarmente, tanto che mi è scivolato via, lo sto dimenticando molto in fretta. Molto più duro e crudo è Eun-sil-yee (The Dearest) di Sun-Ah Kim e Se-hee Park: in un villaggio di campagna una ragazza ritardata è l’oggetto sessuale di diverse persone, muore di parto, e tutti cercano di ammazzare il suo bambino, mentre i servizi sociali e lo Stato sono assenti. Gasp. Al di là del tema, il film non è comunque un granché.

Ok, i più pesanti sono andati. Ronal the barbarian (di Thorbjorn Christofferesen e altri tre signori) è davvero un sacco divertente. Appare come una specie di Dragon Trainer (il vichingo/barbaro “sfigato” in un villaggio di superuomini), ma ha un sacco di riferimenti a un certo mondo gay, al sado/maso e all’iconografia heavy metal: balle volanti! Frustini! Amazzoni non-standard! Metallari ante-litteram! Demoni giganti e fiumi di sangue! Guardatevi un filmatino, dai. Corrisponde più o meno ai titoli di coda.  Si ride davvero tanto in questo film.

Un cenno breve a Tad the lost explorer, una parodia spagnola di Indiana Jones, abbastanza divertente e con alcuni comprimari azzeccati (dovrebbe essere distribuito anche in Italia, secondo il produttore esecutivo che ho conosciuto in coda), e a Le Tableau, una storia un po’ poco riuscita sui personaggi di un quadro alle prese col razzismo (ne ho dormito metà, a dire il vero!).

Infine, non ho visto anteprime, ma di Madagascar 3 ne facevo a meno e gli altri a naso ispiravano poco. Mi spiace però aver perduto Le jour de Corneilles di  Jean-Christophe Dessaint, di cui mi hanno poi detto un gran bene. Ne avevo il biglietto, ma l’ho scambiato per vedere stupri di ragazze ritardate. Sgrunt.

3/2011 parte III

Tre fumetti franciosi

Bludzee di Lewis Trondheim: Trondheim, mon amour, non è più prolifico come una volta, ma la qualità dei suoi lavori non è scemata. Bludzee è un fumetto assurdo: parte come una specie di Garfield, con un gatto protagonista a cui piace mangiare le crocchette, ma presto devia verso la fantascienza, il thriller, e sopratttutto verso un’ultraviolenza che sfiora il sadismo (del tipo, il pinguino che offre centinaia di modi di uccidere i nemici nessuno dei quali dura meno di 24 ore di sofferenza). Geniale, come sempre.

Le viandeir de Polpette di Julien Neel e Olivier Milhaud: Julien Neel è un altro dei miei grandi amori francesi. L’autore di Lou!, in questo caso, si limita ai disegni di una storia molto particolare e molto intrigante. In un mondo pseudo-medievale, forse con qualche sfumatura fantasy, la storia degli avventori di una locanda nella foresta. Molto lavoro sui personaggi e sulle relazioni tra di loro, disegni puffolosi ma non leziosi e il piccolo bonus di un sacco di ricette interessanti.

Un anno di Jiro Tanuguchi e Jean David Morvan: ok, ho barato, non è proprio tutto francese, in quanto disegnato da Taniguchi (autore amatissimo oltralpe), ma è più vicino al modo di fare fumetti europeo che a quello nipponico. Un anno è il primo di quattro volumi che raccontano la tenerissima storia di una ragazza un po’ ritardata che scopre il mondo, rendendosi conto in qualche modo della sua condizione. Che volete farci, sono un tenerone!

Tre serie tv recuperate dal passato

Mad Men: per la critica, in generale, è LA serie degli ultimi anni. In effetti, la qualità produttiva è altissima, e superato lo scoglio della prima stagione, in cui non succede pressoché nulla se non introdurre i personaggi, diventa anche molto appassionante. Personalmente a me ha colpito come tutti i personaggi siano umani e un po’ stronzi, e sia impossibile ammirarli o tifare veramente per loro, ma contemporaneamente si prova pietà ed empatia. Non è una cosa da poco, e racconta molto di tutti noi.

Gilmore Girls (“Una mamma per amica”): beh, a dire il vero l’ho iniziato nel 2010, ma son sei stagioni, c’è voluto il suo tempo. Forse agli antipodi rispetto a Mad Men, Gilmore Girls è una specie di favola, con personaggi pensati per affezionarsi, dialoghi veloci e pungenti, location carina e pulitissima, persino una specie di matrigna e una sorta di burbero principe azzurro. Si guarda con grandissimo piacere, ma si dimentica in fretta.

Community: mannaggia alle serie come Community che ci mettono un po’ a decollare! Mi piacerebbe un sacco farla vedere agli amici, ma dover dire “ci mette 10 puntate prima di partire” scoraggia chiunque. Peccato perché Community è una sit com che da un lato ripropone tutti i cardini del genere (il concetto di “famiglia”, anche se esteso a un gruppo di studio all’università), dall’altro fa il miglior lavoro di scrittura dei personaggi e delle relazioni tra di essi mai visto nella storia delle sit-com. Sono pronto a giurare che tra qualche anno la bibbia di questa serie sarà studiata nelle scuole di sceneggiatura. Ah, ed è anche un sacco divertente e strizza l’occhio a chi conosce il mondo dei telefilm in un sacco di modi.

Tre madri

Maria

La madre di Dimaco

La madre di Tito

(cri…cri…cri…)

Tre lungometraggi di animazione

Il re leone di Roger Allers, Rob Minkoff: sì, quel Re Leone. Forse l’avevo visto tanti anni fa, ma non lo ricordavo, e ho colto l’occasione di rivederlo al cinema, purtroppo in 3d, con la mia nipotina Silvia. E’ un film magnifico. E’ banale ribadire l’aggettivo “shakespeariano” che usano tutti, ma non si può farne a meno di fronte a una storia oggettivamente potente, anche per occhi adulti. Qualche leziosità, ma che ci vuoi fare, è la Disney.

Tatsumi di Eric Khoo: si tratta di una biopic di Yoshihiro Tatsumi, celebre fumettista giapponese inventore dei gekiga (manga per adulti, non nel senso di “con tette e culi” ma nel senso di “con temi maturi”), inframmezzata con racconti brevi tratti dall’opera di Tatsumi. L’animazione un po’ spartana si sposa benissimo con la durezza dei temi e con la storia di un Giappone che vive il suo boom nel dopoguerra anche dal punto di vista dei fumetti. Visto ad Annecy fuori concorso, applausi infiniti.

Il gatto del rabbino di Joan Sfar e Antoine Delesvaux: tratto dal bellissimo fumetto omonimo di Sfar stesso. Io a Sfar ci voglio un sacco di bene perché è amico di Trondheim e perché è quasi altrettanto eclettico, e attendevo molto questo film. In un curiosissimo 3D (si fa una sorta di messa in scena a pannelli senza spessore) racconta una storia di popoli, religioni, avventura, amore in un’Africa più leggendaria che mai ma vista con l’amore di chi l’ha conosciuta.  Un po’ troppo lenta la prima parte (accanto a me un tizio si è messo anche a russare!), ma la seconda metà è a dir poco strepitosa. Ha vinto il Cristallo come miglior film ad Annecy 2011.

(sì, due su tre li ho visti ad Annecy, ma che se passo una settimana a guardare cartoni animati roba buona ne vedrò, e poi nel 2011 non sono manco usciti film Pixar!)

Bonus: un fumetto americano

Io le pago di Chester Brown: Chester Brown, quando fa autobiografia, si mette a nudo in modo così spietato da sembrare quasi masochista. In questo volume analizza le sue esperienze con le prostitute, partendo dal fatto razionale che egli non desidera relazioni esclusive con tutti i problemi che si portan dietro, ma sente la mancanza del sesso. Da questo punto di partenza si dilunga sulla legislazione sul meretricio e sui dettagli del rapporto tra le prostitute e i clienti, e divaga ulteriormente sui vari tipi di relazioni tra esseri umani, tra cui la grande domanda che in tanti ci siamo posti: “Ma davvero l’amore romantico è la forma di amore più importante? O è Hollywood ad avercelo inculcato?”. A tratti agghiacciante nel suo lucido cinismo, ma imperdibile.

Tommy Wirkola
3/2011 parte I

No, non faccio la cronaca del marzo 2011: vi racconto un po’ di cose interessanti con cui ho avuto a che fare nel 2011, a gruppi di tre, perché il tre fa sempre figo.

Tre Manga

Nodame Cantabile, di Tomoko Ninomiya: non è certo una novità, né in Giappone né tantomeno da noi, ma è un manga proseguito nel 2011 ed è sempre una delle prima cose che leggo quando faccio la spesa di fumetti. Si tratta di un manga per ragazze cresciutelle ambientato nel mondo della musica classica, con molti personaggi memorabili (su tutti, la co-protagonista Nodame) e una trama che continua a essere interessante e mai ripetitiva. Ho apprezzato molto la cesura tra la prima e la seconda parte, una sorta di reset con nuova ambientazione, nuovi personaggi e nuove storie, senza però perdere in freschezza e senza snaturare il tono della narrazione. 16 volumi, in prosecuzione.

Happy!!, di Naoki Urasawa: Urasawa è noto soprattutto per i suoi manga di fantascienza, su tutti 20th century boys che, almeno per i primi dieci volumi, è considerato forse il miglior manga del decennio passato (poi svacca, ahimè, e anche male!). Happy!! è una commedia sportiva melodrammatica (!): l’orfanella adolescente Miyuki  deve un sacco di soldi alla yakuza per colpa del fratello, e si rimette a giocare a tennis per guadagnare abbastanza da salvare sé da un destino nelle soapland e i suoi fratellini dall’orfanotrofio. Ciò che rende incredibile questo manga è però che un tema così a rischio di deriva Candy Candy viene sviluppato in forma di commedia, con leggerezza e ironia, senza dimenticare, soprattutto, i cattivi; mai vista una serie di cattivi così ben catterizzati, ognuno spietato e spassoso allo stesso tempo: dalla tennista rivale all’allenatore alcolizzato e corrotto al capo degli yakuza.  E poi c’è “la pallina della malvagità”! 8 volumi, in prosecuzione.

I am a hero, di Keigo Hanazawa: solo tre volumi usciti per un manga indefinibile ma folgorante. Inizia come una sorta di dissertazione sul mondo dell’editoria manga e dei mangaka vista dal punto di vista degli autori privi di successo e degli assistenti, ma alla fine del primo volume prende una piega assolutamente inaspettata, che non spoilererò e che conserva nel secondo e terzo volume. Ma sono pronto a giurare che cambierà direzione ancora. E soprattutto, tutto quello che succede, succede davvero o se lo sta immaginando quel folle del protagonista? Al di là di questo, è un manga interessante anche formalmente, data la costruzione delle tavole e delle singole vignette spesso innovativa e con grossi debiti al cinema (ancora di più dei manga normali, sì). E’ probabilmente il manga più originale visto da lungo tempo. 3 volumi, in prosecuzione

Tre libri che probabilmente non avete letto

Il soldato dimenticato, di Guy Sajer: un documento autobiografico di un soldato mezzo tedesco e mezzo francese durante la campagna di Russia, durante la seconda guerra mondiale. A volte, nel condannare il nazismo, si finisce per includervi tutti i tedeschi che hanno combattutto al suo fianco, senza pensare che la retorica e la propaganda possono di fatto piallare le menti. Qui si parla di un ragazzo diciassettenne mandato al fronte dove vede orrori e sofferenze che non avrebbe mai pensato, e il tutto nel nome di un’astratta patria (che non è neanche sua! Lui è francese!): si combatte per la Germania, non per Hitler. Potete pensarlo come la versione, vent’anni dopo, di Niente di nuovo sul fronte occidentale, o forse quella franco-tedesca di Centomila gavette di ghiaccio, ma forse ancora più crudo e spietato nei confronti di chi le guerre le pensa, ma non le fa. Era un libro che mio padre, appassionato di storia, rileggeva spesso. Ora capisco perché.

World War Z di Max Brooks: non sarà una novità il fatto che io sono un otaku degli zombie, ma questo è il primo romanzo che leggo a tema. E, perdiana, l’ho adorato! World War Z, “la guerra mondiale degli zombie”, pone le sue basi nei più classici zombie romeriani, e racconta cosa succede in tutto il mondo, mediante una serie di interviste che si dipanano come racconti in un modo zombificato, ma raccolte dopo che gli zombie sono stati sconfitti (cosa messa in chiaro dalla prima pagina – no spoiler, tranquillo! – e , da quel che mi risulta, veramente inedita! Gli zombie perdono e l’umanità si risolleva!). La cosa paradossale del libro è l’estremo realismo, nel senso che tutto quello che succede è studiato come perfettamente plausibile, con ovviamente una sola eccezione: l’esistenza degli zombi. Segnalo come particolarmente efficaci i capitoli sul “Grande panico” e quelli sulla battaglia contro gli zombi usando le tecniche di guerra moderne (che, ovviamente, si riveleranno inefficaci).

Le mappe dei miei sogni, di Reif Larsen: un libro che piacerà sicuramente ai kinghiani, parla di un ragazzo un pochino autistico, con un grandissimo talento nelle illustrazioni e nell’astrarre le informazioni per disegnare  mappe tematiche, che viaggia da solo attraverso l’America per andare a ritirare un premio e, soprattutto, sfuggire a una grande tragedia accaduta nella sua famiglia. Il carattere preciso del ragazzo si riflette nella sua scrittura in prima persona, ricca di dettagli e osservazioni apparentemente marginali, e anche nella struttura editoriale del libro stesso, costellato di disegnini, schemi e note a lato della pagina.

Tre città

San Pietroburgo: è una città molto rumorosa e trafficata, i russi sorridono poco e parlano pochissimo altre lingue, ha un clima di pupù. Eppure, raramente mi è successo di rimanere così schiacciato di fronte alla magnificenza di una città, dall’imponenza dei suoi palazzi e delle sue strade e dalla sensazione di come la Storia sia passata di là. E non ho manco visto l’Ermitage…

Copenhagen: viceversa, la capitale della Danimarca è più dimessa, è moderatamente barocca senza eccedere in fronzoli. Ma quello che mi è piaciuto della città è l’atmosfera: una città tranquilla e vivibile ma senza la troppa tranquillità delle città svizzere o svedesi. I danesi sono i terroni della Scandinavia, ed è per questo che mi sono simpatici.

Viterbo: una città italiana, per non fare quello che deve per forza essere esterofilo. Scelta quasi per caso per un incontro tra amici, è stata una bella sorpresa. Un centro storico medievale conservato benissimo senza sembrare artificiale come a volte succede nei centri storici toscani, chiese imponenti ma dimesse, e una bella atmosfera, senza contare che, come sempre da quelle parti, per trovare dove mangiare male bisogna impegnarsi! E poi c’è la Casa Bianca…

Tre nuovi telefilm americani

Game of thrones: se seguite solo marginalmente il mondo dei telefilm americani avrete sicuramente sentito parlare di questa mastodontica produzione fantasy. Mi ci sono avvicinato un po’ dubbioso, perché trovo il fantasy in generale piuttosto scemo e infantile, ma mi son ricreduto per i temi adulti,  la cura nel raccontare gli avvenimenti, l’abile capacità di orchestrare i diversi fronti, e sopratttutto per Peter Dinklage come Tyron Lannister: un personaggio straordinario per un attore straordinario. Son solo dieci episodi, che aspetti a vederlo? Molla Walking Dead, è questa la serie HBO dell’anno!

Homeland: la serie sull’America post-undici settembre. Un marine rimane prigioniero sette anni in Iraq, e poi viene liberato; contestualmente un’analista della CIA un po’ schizzata scopre che un prigioniero americano (non si sa quale) è stato convertito al fondamentalismo islamico. Sarà semplicamente il marine in questione? O c’è dell’altro? Una serie che pone le sue basi nelle paranoie, nei sospetti e nei controsospetti, ma che fa anche un grande lavoro di esplorazione psicologica dei protagonisti.

American Horror Story: una classica storia di casa stregata, con l’apparato tipico del sotto-genere: casa vittoriana con un sacco di omicidi, rumorini, la vicina di casa down che dice a tutti “morirete!”, presenze e uno scantinato in cui tutto è iniziato. Quello che c’è di interessante (e, mi pare, inedito) è l’aspetto seriale: ci sono un sacco di misteri e di cose da scoprire sul passato e il presente della casa; è un po’ la tecnica “Lost” applicata all’horror: si inizia in medias res e poi scopriremo che è successo col tempo. Poco splatter, ma qua e là ci si caga in mano, e col proseguire degli episodi, man mano che i misteri di dipanano, non si rimane delusi. E poi tutti amerete rubber man, ve lo assicuro!

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Cazzetti awards 2010/2011

Cari amici, bentrovati alla premiazione annuale dei Cazzetti Awards, ovvero “Non ve ne frega una ceppa delle mie opinioni cinematografiche, ma le leggerete lo stesso per poter sbeffeggiare i miei gusti”. Siete pronti? Partenzi! Via!

Cazzetto d’oro: The Social Network di David Fincher, ma soprattutto scritto da Aaron Sorkin. Il che conferma che, per me, il cinema è soprattutto scrittura. Può non fregarmente niente di quella patata bollita di Zuck, ma sono rimasto conquistato dalla narrazione, dall’intreccio, dalla potenza dei dialoghi.

Cazzetto d’argento: Il Grinta di Joel ed Ethan Coen. Non a tutti è piaciuto questo remake dei Coen, un western assolutamente puro e classico, crudo e duro. Beh, a me sì. Mi ha proprio incantato, molto più delle atmosfere simili eppur dissimil di Non è un paese per vecchi.

Cazzetto di bronzo: Easy Girl di Will Gluck. “E che cacchio è?” E’ una commediola americana che strizza l’occhio (a volte pure due) ai classici adolescenziali anni ’80 di John Hughes. Un sacco divertente e intelligente, reinventa un genere. Non un capolavoro, ma ce ne fossero di film così.

Cazzetto moscio: nessuno in particolare quest’anno. Ho visto diversi film bruttini, ma nessuno così orripilante. Sto invecchiando?

Cazzetto di cartone per il miglior film animato: una volta tanto che la Pixar non fa uscire alcun film, gli altri se la possono giocare. Porco Rosso è fuori concorso, troppo facile. E allora, sebbene forse sia un passo indietro rispetto al suo film precedente, la tenera storia de L’illusionista di Sylvain Chomet conquista il premio

Premio speciale “Pernacchia” al film con più pretese fallite: Inception di Cristopher Nolan. No, non posso accettare che l’inconscio diventi una serie infinita di inseguimenti e sparatorie. Era già noioso in Batman, figuriamoci in un film che vuole dire qualcosa di più. Cristo’, torna ai mutandati col mantello, dai.

Premio speciale “Taricone” al film più tamarro: era attesissimo e non ha deluso; Machete di Robert Rodriguez è il film più tredicenne che tabbia visto da tempo. Tette! Budella! Auto a dondolo con ruote gigantesche! Che spasso, ragazzi!

Premio speciale “Ipnosi“: quest’anno non è uscito nessun film Pixar. Quest’anno non è uscito nessun film Pixar. Quest’anno non è uscito nessun film Pixar.

Premio speciale “Meh” al film che tutti dicevano bello e invece bah: Nessuno mi può giudicare di Massimiliano Bruno. Sì, non è un film di Boldi, ma è comunque una commedia italiana scemina e prevedibile. Potevo farne anche a meno.

Premio speciale “Pizzaspaghettimandolino” al miglior film italiano: nonostante tutto, a me Habesum Papam di Nanni Moretti,  con tutti i suoi difetti, è piaciuto molto. Moretti parla sempre di Moretti anche quando fa finta di parlare di papi, ma va bene così. Lo amiamo anche per questo.

Premio speciale “Bufala” al film che tutti dicevano geniale e invece bah: Buried di Rodrigo Cortés. Eh beh, sì, ok, hai fatto un film con una sola location di un tizio sepolto vivo, ecco una medaglia, ma non è mica vero che tieni la tensione alta per 80 minuti. Ci si annoia, e il tanto decantato finale sconvolgente non è nulla di che.

Premio speciale “Uovo di Pasqua” al film che è stata una sorpresa inaspettata: dopo sette film altalenanti, ma più dimenticabili che memorabili, l’ultimo film della saga potteriana Harry Potter e i doni della Morte parte II è proprio bello. Spumeggiante, epico, tiene incollati alla poltrona e riesce persino a commuovere per il finale chi, come me, apprezza l’antipaticissima creatura della Rowling senza però esserne fan.

Update!

Premio speciale “Italo Svevo” per la vecchiaia che fa paura: Hereafter di Clint Eastwood. A tratti si vede la magia del grande regista, ma il film è talmente scemo, noioso e Matt Damon che ho paura delle prossime opere di uno degli autori che ho più amato in questi ultimi anni.

(E dov’è Il Cigno Nero? Eh, mi è piaciuto ma non l’ho sentito un film mio. Capita.)

Annecy 2011 parte IV: Cosa c’era di bello (corti fuori concorso)

Quest’anno, niente corti di scuola, e ho perso uno spettacolo su quattro di quelli fuori concorso. In compenso, le rassegne mi sono piaciute e ho visto e rivisto alcune cose interessanti. Ma, con ordine, partiamo da qualche citazione dai corti fuori concorso.

Bisclavret (Émilie Mercier, Francia) è una favoletta di licantropi in stile un po’ iconico-medievale, e ha la grossa curiosità che i cattivi, anche se sconfitti, non vengono puniti come meritano;  il finale di “vissero felici e contenti” è addirittura dedicato a loro. Dripped (Léo Verrier, Francia, immagine a sx) è invece un’originale corto su Pollock, rappresentato come un ladro di quadri che se li magna ma che non sa disegnare ed è per questo che finisce per pollockare (foto a sx). Oltre a quello in concorso abbiamo un altro Zaramella, En la opera (Juan Pablo Zaramella, Argentina) anche se vecchiotto, e fuori concorso. Una gag, anche abbastanza divertente, in tecnica plastilinosa, ma solo una gag. Un antibrivido di eccitazione grazie a La Femme du lac (Mathilde Philippon-Aginski, Francia): una tizia si mette dei pesci nella passera e non si capisce perché, ma ci si annoia.  Ero molto curioso di vedere Mourir auprès de toi (Spike Jonze, Simon Cahn, Francia, a destra), un corto animato del celebre regista Spike Jonze. Boh, niente di che, abbastanza divertente ma banalotto (personaggi che escono dai libri) e realizzato in una stop motion un po’ grezza. Bella sorpresa invece per Muzorama (Elsa Brehin, Raphaël Calamote, Mauro Carraro, Maxime Cazaux, Émilien Davaud, Laurent Monneron, Axel Tillement, Francia, a sinistra): una serie di ritratti surreali con un grosso debito alla visionarietà di Dalì ma con un’estetica completamente diversa. Molto originale, è piaciuto molto.  Grazie a Oh, Paris! (Oleksandr Shmygun, Ucraina, a destra) ora sappiamo che le vecchie ucraine muoiono appena arrivano a Parigi. Siano avvisate. Rullo di tamburi per Sergei Prokofiev (Julia Titova, Russia, Bielorussia): si tratta di una biopic, o meglio biocorto (da non confondere con bioparco) sull’omonimo compositore russo. Non è incredibile la coincidenza? Hanno fatto un corto intitolato “Sergei Prokofiev” e parla proprio di Sergei Prokofiev! E’ straordinario! Facezie a parte, è un buon lavoro. The Gentleman’s Guide to Villainy (Aidan McAteer, Aurélie Cauthier, Irlanda) riprende un topos e, nello stile dei vecchi film muti (o, perlomeno, di quello che crediamo che siano essi oggi), fornisce una guida umoristica ai cattivi di tali film, in questo caso su “come legare la fanciulla inerme sulle rotaie”. Carino, se ne potrebbe fare una breve serie. Per concludere le segnalazioni, un caveat: The White Snake (Ying Fang Shen, Taiwan).  Ho cercato in tutti i modi di dormire durante questa pallosissima favola calligrafica orientale. Non ci sono riuscito. Volevo morire. Non ci sono riuscito. Meno male.

E ora parliamo un po’ delle rassegne. Quest’anno era l’anno degli Stati Uniti, che rappresentano probabilmente la nazione con maggior produzione di animazione al mondo insieme al Jappone (nonché la culla di gran parte dell’animazione moderna). Una rassegna dedicata a questa nazione, quindi, doveva fare una scelta ben precisa, che, a mio parere, è stata parziale e non molto azzeccata. Ci sono stati ben tre programmi dedicati agli Oscar durante gli anni. Ne ho visti due, e ho apprezzato entrambi: uno era una rassegna di alcune opere dagli anni ’70 a oggi. Molte cose le avevo già viste, ma fa sempre piacere rivedere Tango (sul grande schermo, poi. Peccato abbiano proiettato una VHS!), Anna & Bella (foto a sinistra, se non l’avete mai visto correte a cercarlo, è meraviglioso!), persino Crac!, suvvia. Ho anche avuto occasione di vedere il vincitore dell’anno scorso, Logorama, che mi mancava. L’altro programma invece era dedicato a cose più vecchie: un po’ di pallosette Silly Simphonies, e poi una serie di vistissimi ma mai abbastanza Warner Bros e UPA. Adorabile. Meno interessante un altro programma che ho visto dedicato agli indipendenti (un sacco di PES e suoi emuli, ma quasi tutto dimenticabile), e imbarazzante (per me) la proiezione del film The adventures of Mark Twain. In questo seminale film di Will Vinton (foto a destra), ho dormito dall’inizio alla fine. Svegliandomi nei titoli di coda e leggendoli mi son chiesto: “Ma davvero c’era Indiano Joe? E Adamo ed Eva? Fiiico!”. E’ vero che avevo fatto tardi la sera prima ed era verso la fine del festival, quando si inizia a essere stanchi, ma è stato abbastanza ignominioso. Comunque mi dicono che non valesse una sega. Infine, ho avuto anche occasione di rivedere un po’ di fratelli Fleisher: la trilogia di Popeye e le Mille e Una Notte più qualche altro corto sparso. Roba datata, ma sempre gradevole.
Al di là della nazione dell’anno, c’erano i soliti Morti (il programma dedicato agli autori morti durante l’anno, mai visto uno!), il solito Politically Incorrect (che ormai mi sta sui marroni, trovo che il Politically Incorrect consapevole sia ancora più atteggiato ed ipocrita del Politically Correct – che comunque è ormai passato di moda!) e inoltre una bellissima sorpresa: The world of Flying Machine. Si tratta di un progetto polacco (sì! sempre loro!) dedicato al compositore Frederick Chopin, che qualcuno potrebbe aver sentito nominare. Una dozzina abbondante di cortometraggi sono legati dal fil-rouge della musica di questo autore e dall’immagine visiva di un pianoforte volante che compare in tutti i corti, a volte come guest-star, a volte come cameo, a volte come protagonista. E’ particolare degno di menzione il primo e più lungo corto, Magic Piano di Martin Clapp, realizzato addirittura in 3D (a sinistra), che seppur un po’ troppo lungo lascia davvero a bocca aperta, ma la qualità media dei corti è molto alta e così anche la varietà di tecniche e registri utilizzati. Si esce dalla proiezione un po’ storditi dal piripì di Chopin, ma un sacco contenti.

E insomma That’s all folks. Mi sono divertito un sacco e ci risentiamo tra un anno! Tremate.

Annecy 2011 parte III: Cosa c’era da vedere (cortometraggi in concorso)

Ed eccoci al piatto forte di ogni festival che si rispetti, i cortometraggi. Una piccola invettiva & lamentazione: ci hanno tolto la nostra amatissima proiezione dei corti in concorso alle 21 in Grande Salle, spostando la proiezione principale alle 18, e anticipando quella successiva alle 20.30. Siccome i corti in concorso, che spesso hanno il regista in sala, finiscono per durare un po’ più a lungo, ecco che le nostre cene si sono progressivamente ridotte.

Ma ecco cosa mi ha colpito, nel bene e nel male, in ordine alfabetico:

A Lost and Found Box of Human Sensation (Martin Wallner, Stefan Leuchtenberg, Germania)
Il mio vincitore di quest’anno. E’ una dolorosa e spietataa autoanalisi di una persona che ha subito un lutto. Non so se si autobiografico di uno degli autori, ma credo di sì, perché suona molto sincero e con un che di terapeutico. Mi ha colpito molto, come dicevo, ma probabilmente solo a me.

A Morning Stroll (Grant Orchard, UK)
Una storia raccontata in modo simile in modalità 1959, 2009 e 2059, in un crescendo di senso dell’assurdo. Nel 1959 la gente è gentile e in bianco e nero, nel 2009 è a colori e ascolta gli iPod, nel 2059 ci sono gli zombi e i fiori giganti, e siccome ci sono gli zombi lo devo citare. Ha vinto il premio Jeunesse.

Big Bang Big Boom (BLU, Italia)
Toh, un italiano, l’unicissimo italiano selezionato, vince un premio ad Annecy! Nello specifico, il Premio Speciale della Giuria (il secondo posto, insomma). A me il primo corto di BLU stava sui marroni, non amo i graffiti come espressione artistica e il suo corto mi era parso comunque molto inconcludente: c’è l’idea di animare i graffiti, appunto, e basta, poi procede a casaccio. Qua c’è un filo conduttore più netto e qualche idea in più, ma ho visto di molto meglio.

Chroniques de la poisse (Osman Cerfon, France)
Candidato alla Ghisa di Annecy (il corto che verrà ricordato e non è molesto, pur non avendo alcuna possibilità di vincere), invece un premietto se l’è preso, quello Canal+ che poi sono anche soldini. Un pesce antropomorfo, quando gli vengono fatti dei torti, emette bolle di infelicità che causano un sacco di disgrazie. E’ divertente però soprattutto perché parla male degli scout.

Conto do vento (Claudio Joardao, Nelson Martina, Portogallo)
Due genovesi in sala si son persi un buon minuto di questo corto perché ridevano come degli scemi dopo la prima frase: “U ventu è lo shpiritu du tempo” pronunziata con perfetto accento zenese. E comunque tra i vari portoghesi in concorso questo era il migliore: un disegno aspro per una storia di streghe e superstizione.

Kamene (Katarina Kerekosova, Ivana Šebestova, Slovacchia)
Kamene, ovvero la versione a pupazzi di Dancers in the dark in una cava di pietra. Un musical, quindi, su una storia tragica di uomini rudi, donne disperate, tradimenti e omicidi su uno sfondo aspro e più grigio che mai. A me è piaciuto molto, ma è piaciuto solo a me (e ai selezionatori dei corti, suppongo). La cantante sembra la stessa di Jonah/Tomberry di Rosto.

La Détente (Pierre Ducos, Bertrand Bey, Francia)
Un altro dei miei vincitori personali, forse perché tocca uno dei miei grandi pallini (la I guerra mondiale). Un soldato in trincea, per sfuggire all’inferno che lo circonda, trasfigura nella sua immaginazione il campo di battaglia in una sorta di luna park. Ma l’orrore è talmente grande che nemmeno la sua mente riuscirà a scappare.

Luminaris (Juan Pablo Zaramella, Argentina)
Meritatissimo vincitore del premio del pubblico e del premio FIPRESCI (giornalisti), Luminaris è una pixilation come si deve, fluida pur essendo surreale, per una storia ricca di gag e a modo suo anche tenera e commovente. Una menzione speciale al capufficio ciccione che si arrabbia.

Maska (Timothy Quay, Stephen Quay, Polonia)
Il corto polacco delle barzellette. Lunghissimo, a pupazzi, con colonna sonora stridente (gneeek! gneeek!), storia – pare – assurda e addirittura già vista. Dico “pare” perché mezza sala ha lasciato il cinema prima che iniziasse, e io stesso mi sono arreso dopo pochi minuti. Un po’ me ne pento, ma ci avevo fame e Maska era troppo. Incredibilmente, ha vinto il premio per le musiche, ma per me è il vincitore del “Corto molesto” dell’anno.

Millhaven (Bartek Kulas, Polonia)
Ho un piccolo pallino per Murder Ballads di Nick Cave & the bad seeds, quindi quando ho capito, dopo un paio di versi, che si trattava di una messa in scena ricantando The curse of Millhaven a mo’ di filastrocca, sono andato in sollucchero. Solo io in tutta la sala, temo. :)

Paths Of Hate (Damian Nenow, Polonia)
Bellissimo, Paths of Hate. Ovazione del pubblico e certezza di un premio, che però è arrivato solo in qualità di Menzione Speciale (terzo premio). Meritava di più, ma non passerà indimenticato. Paths of Hate è un funambolico scontro tra due aerei durante la Seconda Guerra Mondiale, durante il quale i due piloti perderanno progressivamente tutto ciò di umano che hanno, fino a sublimare nel finale. Non ci sono parole per descrivere la quantità di idee di regia e di animazione che ci sono in questi pochi minuti. Va proprio visto.

Pixels (Patrick Jean, Francia)
L’inaspettato Cristallo di Annecy per i cortometraggi gira da un paio d’anni per internet e l’abbiamo visto tutti. Potrebbe anche essere finito sulla colonnina infame di Repubblica.it tra lo scoiattolo che sbadiglia e le chiappe di Pippa. Per carità, è divertente e ben fatto (e la scena del tetris è davvero geniale), ma di lì a essere un primo premio ce ne passa, visto che di roba bella ce n’era non poca quest’anno. Un po’ di delusione, quindi.

Sudd (Erik Roselund, Svezia)
Primissimo corto visto quest’anno, è una produzione quasi tutta dal vivo in un bellissimo e suggestivo bianco e nero con qualche incursione di animazione tradizionale. Lo si può definire come Take on me che incontra un film di zombi. L’attrice è enorme e graziosissima e a me i film di zombi piacciono un sacco quindi me lo sono goduto un sacco.

Świteź (Kamil Polak, Polonia, Francia, Danimarca, Canada, Svizzera)
Rapida citazione per Świteź perché ha vinto un premio come opera prima e perché è visiviamente molto interessante, riprendendo l’estetica bizantina per narrare di una città perduta (in modo piuttosto confuso, va detto).

The Monster of Nix (Rosto, Olanda, Francia, Belgio)
Si tratta del corto che più attendevo e che più mi ha deluso. Dopo anni passati a rivedere Jonah/Tomberry ed amarlo sempre di più a ogni visione, attendevo Rosto alla prova della maturità. E, ahimé, The Monster of Nix non è male, ma è troppo lungo, a tratti addirittura banale (belin, in certi punti è esattamente La Storia Infinita!) e, sebbene riprenda l’estetica dei corti precedenti nella saga e la loro potenza e visionarietà, non aggiunge moltissimo. Forse rivedendolo lo apprezzerò di più, ma non ne sono certo…

Viagem a Cabo Verde (José Miguel Ribeiro, Portogallo)
Molto attesa questa prova di Ribeiro, celebre autore di A suspeita, ma alla fine non ha colpito moltissimo. Lo spunto è interessante: l’autore decide di mollare tutto, lasciare orologio e cellulare a casa e viaggiare per qualche tempo nelle isole di Capo Verde, riscoprendo il ritmo della natura, del proprio corpo e facendo conoscenze tra la gente del luogo. Eppure, forse perché non sappiamo l’origine del disagio dell’autore, manca qualcosa e tutto sembra un po’ troppo fine a se stesso, quasi un esperimento sociologico.

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