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Per i ritardatari
Mi do da fare
Sono alla moda e tuitto
Tanti auguri a me

Oggi è il mio compleanno, faccio trentadue anni. È una cifra importante, poiché è una potenza di due. Auguri. Non ho mai capito perché si facciano gli auguri per il compleanno: implicitamente, forse, si augura all’interessato di arrivare al compleanno successivo, altrimenti non ci sarebbe ragione di augurare lunga vita o felicità proprio in questo giorno e non negli altri. In ogni caso, qualcuno potrebbe obiettare che la cosa porta sfiga, senonché la sfiga non esiste. Ma io divago.

Cosa ricordo dei miei compleanni? Mah, non molto! Io non sono mai stato una persona popolare, quindi non ho mai avuto molti amici con cui fare feste, quindi tutto sommato sono pochi gli anniversari che si sono fissati nella mia mente.
Il mio ottavo compleanno è stato poco frequentato. Ho invitato i miei compagni mia classe, e sono venuti in quattro. Gli è che il 26 giugno è il compleanno di Cesare e di Alessandro, e tutta la classe va alla loro festa. Andare ad un’altra il giorno dopo è fuori discussione (più per i genitori che per i bambini, ovviamente), e i compleanni vanno festeggiati esattamente nello stesso giorno, non è proprio possibile anticipare di un giorno. Però Enrico mi ha regalato il gioco in scatola de Il pranzo è servito che ho gradito molto e molto utilizzato.
Il mio decimo compleanno l’ho festeggiato a Sassello coi miei carissimi amici d’infanzia. Mia nonna Amelia ha preparato la torta al cioccolato e ha fornito me, Daniele, Marco e Simone di una Fanta a testa. Mia nonna ritiene che la Coca Cola faccia malissimo e quindi ripiega su bevande a sua opinione più salutari. Tanti auguri, gnam, e poi tutti a giocare a pallone in giardino. Ho un bellissimo ricordo del 27 giugno 1984.
Il mio diciottesimo compleanno è stato anch’esso in compagnia di pochi amici. Dalle mie parti non si usa fare grandi feste come invece in qualche modo è la prassi a Milano, dove da quello che sento tutti affittano discoteche e invitano interi rioni. Tuttavia, una cena a casa mia con Giampaolo, Andrea e Luca forse è stata eccessiva dal lato opposto. Di quel fatidico compleanno ricordo che mio padre aveva fatto preparare la mia torta perfetta, ma che l’ho appena assaggiata perché mia mamma ha poi distribuito il rimamente alle sue amiche.
Il mio ventesimo compleanno è stato invece più gaio. A un anno dalla maturità si ritrova la mia classe per una festa nel giardino di casa mia. Ho sofferto però il cambio di decennio: continuavo a ripetermi "venti, due zero, la mia gioventù è finita."
Il mio ventitreesimo compleanno è stato quasi inesistente. Nessun festeggiamento in assoluto, appena gli auguri della mamma e di un paio di amici. Stavo preparando un esame difficile, e quindi studiavo molto concentrato. Ho però sollevato gli occhi per un momento dalle dispense di Metodi per il Trattamento dell’Informazione per scambiarmi gli auguri con il mio compagno di studi Marco A., che è nato il mio stesso giorno e che si era addirittura dimenticato del suo anniversario. Chissà se oggi se lo ricorda.
Il mio trentesimo compleanno è stato sofferto. Ho patito di nuovo molto il passaggio di decennio, e mi sono sentito molto vecchio. Allo scoccare della mezzanotte, ero al cinema Ritz di Alassio a vedere Big Fish insieme ad un’amica. Le ho detto "La mia gioventù è terminata" e lei ha ritenuto che mi fossi addormentato.
Il mio trentunesimo compleanno è stato invece allegro, festeggiato con tante persone e dividendo la festa con altre tre. Un buon auspicio per il futuro.
Il mio trentaduesimo compleanno è oggi. Auguri.

Misteri della vita XLII

Perché gli stuzzicadenti hanno nomi che richiamano il Giappone? Samurai, Sayonara, Karate sono tre esempi. I giapponesi mi paiono un popolo troppo ben educato per essere inventori (o perlomeno utenti comuni) di un oggetto dall’uso talmente sgradevole e volgare.
La mia ipotesi è la seguente: uno dei marchi citati ha coniato il nome magari per nippofilia dell’imprenditore, oppure per la serie di associazioni stuzzicadenti – oggetto lungo e appuntito – spada – guerriero – samurai – Giappone, appoggiandosi a quel tocco di esotismo che vende sempre un pochino. I concorrenti si sono adeguati per sfruttare la confusione dell’acquirente.

Annecy 2006 parte prima: cosa c’era di bello in breve

(chi non sa di cosa sto parlando, si legga questo articolo )
Il sole ha brillato per tutta la settimana durante il festival di Annecy 2006, ed è stata una buona edizione. Non è stato semplice raggiungere questo sintetico verdetto, perché non sono mancate le contraddizioni, ma ho raggiunto questa conclusione.

Annecy 2006 Contrariamente al regime minceur dichiarato e realizzato nel 2005, l’edizione del 2006 è stata grassa. Negli anni precedenti non ho mai avuto un programma così pieno, e le poche programmazioni che ho saltato sono state dovute a problemi puramente logistici o, ehm, fisiologici. Questo significa che oltre alle visioni obbligatorie dei corti in concorso, quelle semi-obbligatorie dei corti di scuola e del panorama e una sbirciatina a qualche lungometraggio, mi sono trovato una serie di anteprime e di retrospettive davvero interessante che ha quasi generato l’imbarazzo della scelta. L’impressione che certuni hanno avuto di un’edizione scadente probabilmente nasce dal fatto che i corti e i lunghi in concorso proponevano accanto ad alcune opere pregevoli altre incontrovertibilmente scadenti. Da questo punto di vista c’è in effetti da criticare il lavoro del comitato di selezione che ha portato in concorso alcune opere vergognose, e lasciato meramente in rassegna altre veramente ottime. Questa cattiva preselezione è stata per fortuna mitigata dall’opera dei giurati che, almeno per quanto riguarda i cortometraggi, hanno premiato esattamente i lavori migliori. Oltre a tutto questo, c’è da segnalare l’interesse sempre maggiore delle major per il festival di Annecy, nel quale stanno proponendo non solo sempre più anteprime, ma anche film in concorso. Può essere l’indizio di un leggero cambiamento di rotta della politca del festival, ma questo lo scopriremo solo nei prossimi anni.
Histoire tragique...
Il concorso dei cortometraggi è stato vinto dalla portoghese Regina Pessoa, con Histoire tragique avec fin heureuse (Storia tragica con lieto fine, immagine a destra),  che ha vinto anche un premio minore (il TPS, che in realtà tanto minore non è, dato che si tratta dell’unico che porta soldi!) La storia della ragazza col cuore che batte troppo forte e disturba i vicini, narrata in un bianco e nero espressionista ha conquistato la giuria e il pubblico: non ha vinto il premio relativo, ma nessun altro corto ha avuto un’applauso così fragoroso e sincero.
Dreams and desiresIl secondo premio  è andato all’inglese Joanna Quinn col suo Dreams and Desires – Family Ties.(a sinistra)  Storia di una festa di matrimonio tragicomica narrata mediante le riprese di una signora imbottita di teorie cinematografiche, questo corto ha forti debiti con Bill Plympton sia per lo stile grafico che per l’umorismo graffiante e a tratti un po’ disgustoso. Dreams and desires ha rastrellato anche il premio del pubblico e il premio FIPRESCI.
Come menzione speciale finalmente un esponente del sesso forte, il britannico Run Wrake che propone l’originalissimo Rabbit, immagine sotto a destra. Due bambini trovano dentro un coniglio un idolo in grado di trasformare gli oggetti, in particolare le mosche in gemme. La parabola è in qualche modo morale, ma è lo stile grafico con grossi debiti alla grafica pubblicitaria anni ’50 quello che colpisce di più dell’opera.
Il premio della giuria junior è andato al divertente One D di Michael Grimshaw (Canada), che parla di uno strano mondoRabbit 1-D citando un mucchio di generi cinematrografici. Dopo anni in cui i bambini giocavano a fare i grandi votando i corti più impegnati, "spessi", finalmente questa giuria ha votato qualcosa che le è davvero piaciuto.
Il premio per l’opera prima è andato al discreto lavoro di Till Nowak (Germania) che nel suo Delivery racconta di un uomo che riceve una scatola che riproduce in piccolo l’ambiente che lo circonda, permettendogli quindi di modificarlo. Non originalissimo, ma discretamente ben realizzato e, francamente, unica opera prima degna di menzione. Completa il parco dei premi ai cortometraggi l’unica opera poco valida, Cherno na byalo del bulgaro Andrey Tsvetkov, una banaluccia parabola sul razzismo.
A parte questa eccezione, i premi in effetti coprono i corti migliori, come accennato prima. Meritano una menzione in questa sede solo Wind along the coast di Ivan Maximov e Minotauromaquia, Pablo en el labirinto di Juan Pablo Etcheverry e Ichtys di Marek Skrobecki, lavori di cui parlerò diffusamente negli articoli dettagliati.

I lungometraggi in concorso di solito non sono particolarmente interessanti, ma quest’anno il panorama è Renaissance stato un po’ differente: sono stati affiancate due grosse produzioni di stile europeo (Wallace and Gromit e Astérix et les Vikings) a due produzioni giapponesi in stile tipicamente anime (XXX-holic manatsu no yo no yume, da un soggetto delel CLAMP e Gin-iro no kami no Agito, dello studio Gonzo) a una produzione semi-autoriale europea, Renaissance (nella foto). Ha vinto quest’ultima, contro tutte le previsioni: personalmente ho visto 10′ di questo film e poi me ne sono andato disgustato, trovando lo stile pseudo-Sin City assai stucchevole e la trama tremendamente già vista e mal narrata. Sono tuttora convinto di non essermi sbagliato. Wallace and Gromit l’abbiamo visto tutti, mentre il nuovo Asterix è un buon film, forse col brodo leggermente allungato rispetto alla compattezza della sceneggiatura originale di Goscinny ma comunque niente male. I film giapponesi non sono piaciuti a nessuno: XXX-holic è un puntatone di una serie banale, l’altro una tipica "gonzata".
Pocoyo
Per quanto riguarda i programmi dedicati alla televisione, non ho visto nulla. La priorità delle produzioni televisive è scesa troppo rispetto al resto per potermi permettere di annoiarmi di fronte a produzioni per ragazzini come negli anni passati. Il premio per la serie è andato a Pocoyo (immagine), un 3d spagnolo con target prescolare. Chi l’ha visto ne dice meraviglie, e dal poco che han proiettato durante la premiazione tendo a crederci. Menzione poi al francese Zombie Hotel, che invece mi è parso stupidino, mentre il premio per lo speciale è andato al canadese Petit Wang. Quest’ultimo premio ha sempre meno senso, essendoci in concorso sempre la miseria di due o tre speciali tv, quasi sempre poco interessanti.

L’unica novità importante da segnalare nei corti di scuola deriva dalla presenza pian piano sempre più consistente delle scuole italiane. Dopo anni di produzioni unicamente "artistoidi" pare che i giovani sfornati da Milano e Torino (ma non solo…) stiano iniziando a riscoprire il piacere della gag, del "cartone animato" inteso in senso classico, e i corti presenti qua ne sono una buona testimonianza. La qualità dei lavori esteri però è oggettivamente ancora superiore. Vincitore è Walking in a rainy daystato Astronauts, inglesissimo corto di Matthew Walker. Le tragicomiche avventure di due astronauti sono narrate con aplomb e humour perfettamente britannici. Personalmente però ho amato di più il secondo premio, andato a Walking in the Rainy Day del coreano Hyun-myung Choi (nell’immagine). Una bambina ha l’ombrello rotto in un giorno di pioggia e ne approfitta per fare amicizia con una rana: molto delicato e animato in modo delizioso. Inoltre ci permette di scoprire che in Corea avere l’ombrello rotto è un disonore insopportabile. Menzione poi alla sarcastica parabola di Abigail di Tony Comley (regno unito) e premio dei bimbi allo psicologico e forse un po’ presuntoso Ego di Louis Blaise, Thomas Lagache, Bastien Roger, francesi.
Il poeta danese
La sezione Panorama è migliorata molto quest’anno, e stupisce come almeno due corti non siano entrati in concorso. Den Danske Dikteren (Il poeta danese, immagine) di Torill Kove, una produzione canadese/norvegese, è una storia poetica di caso e di amore, una specie di commedia romantica ma come gli americani non fanno più. Vennad karusudamed (i fratelli Cuoredorso), estone di Riho Unt narra a pupazzi di tre orsi pittori immersi nella rivoluzione artistica tra la fine dell’impressionismo e l’inizio dell’astrattismo. Il modo in cui le opere dei vari autori, soprattutto Van Gogh, si integrano con gli scenari è sbalorditivo ed è una vera gioia per gli occhi.

La nazione dell’anno è stata l’Italia. La butto giù così con indifferenza, ma in effetti c’è di che essere orgogliosi. Non ho visto moltissimo dei sette programmi dedicati all’Italia: mi sono limitato ad un monografico  su Bozzetto e Manuli (Bozzetto è in assoluto un genio, non c’è altro da dire) e ad una retrospettiva mista intitolata Tutti frutti, di valore tutto sommato non così esaltante. Tra i programmi che non ho visto diversi lungometraggi, vecchi e nuovi, e altre proiezioni tematiche, tra cui un monografico sulla cosiddetta corrente neo-pittorica.

Anche se non è molto patriottico dirlo, è stato molto più interessante l’altro tema, When animation meets the living, dedicata ai rapporti tra animazione e riprese dal vero. Ben sei programmi, uno al giorno, hanno tematicamente mostrato Pas de deuxcorti vecchi e nuovi sul tema. Sussiste qualche perplessità su come sia stata organizzata questa serie: ogni programma aveva un tema particolare ma sostanzialmente pretestuoso, e inoltre la composizione era strutturata da un corto "preistorico" dei primi del ‘900, uno di Norman McLaren (sempre benvenuto, ma non sempre calzante. Pas de deux nell’immagine) e da altri dagli anni ’90 in poi. Ancora,  la relazione tra animazione e riprese dal vivo in alcuni corti non era affatto chiara, o comunque a tratti pretestuosa. Mi pare eccessivo proiettare un Betty Boop dei Fleischer solo perché è uno dei primi cartoon a fare uso del rotoscopio. Ciò non toglie che la qualità media delle proiezioni fosse molto alta, e al pubblico la cosa non è sfuggita, visto l’affollamento della povera Petite Salle durante questa serie.

Come accennato in precedenza, le anteprime e le proiezioni speciali di quest’anno sono state importanti.
Cars, il nuovo attesissimo film di John Lasseter per la Pixar e’ stato proiettato insieme ad una piccola presentazione da parte della Pixar, e, anche se se non è il capolavoro di questa casa produttrice è comunque un discreto lavoro, superiore alla totalità delle produzioni 3d extra-Pixar degli ultimi anni.Azur et azmar
Monster House è una produzione sotto l’ala di Spielberg e Zemeckis che narra un curioso horror per ragazzi, realizzato in 3d. Il film è stato proiettato in anteprima mondiale, con relativo sequestro di videocamere e cellulari e perquisizione prima di entrare, ed è stata una bella sorpresa, una bella variazione sugli schemi dei film di animazione delle major.
Terza ma non meno importante anteprima è stata del nuovo film di Michel Ocelot, Azur et Asmar (un’immagine a destra). In breve, è il capolavoro di questo bravo regista francese e si spera che la distribuzione in Italia saprà valorizzarlo come merita.
Sabato mattina ha fatto la sua comparsa Tim Burton. Darketti da mezza Francia sono venuti ad incontrare il loro beniamino alla proiezione de La sposa cadavere con successivo incontro col regista. Se avessi venduto il mio biglietto invece di regalarlo sciaguratamente mi sarei pagato mezza vacanza.
A tutto ciò si aggiunge la proiezione di alcuni film giapponesi: Nausicaa, Nagasaki 45 e Gen di Hiroshima. Ho visto solo quest’ultimo (in breve, ha gli stesso pregi e difetti del manga relativo) e ho un pizzico di rimpianto per aver perso Nausicaa a causa della concomitanza con la cerimonia di chiusura.

Completa il quadro il concorso dei film su commissione (ha vinto un bello spot sull’Aids, un video musicale con lo zampino di quel geniaccio di Joann Sfar e il solito video sulla violenza sessuale sui bambini. Nessuno nega che siano importantissimi, ma ormai ogni anno ne vince uno!) e qualche programma minore (i "morti", animazione sull’Aids, una proiezione di Silly Simphonies, Spike & Mike).

Mi pare quindi evidente come il festival sia stato più ricco e sfaccettato che mai. Può darsi che questo non sia sufficiente a garantirne la qualità, ma come minimo i motivi di interesse per il festival di Annecy continuano a crescere. Non posso che essere lieto di tutto questo.

Sbagliando s’impara

Eh già, perché se tu fai in un modo e sbagli, la prossima volta non fai più così e quindi lo fai giusto.

Con queste esatte parole Mario il falegname, marito di Piera, mi spiegò il concetto intorno al 1981. Al momento mi sembrò lampante e geniale, ma se potessi reincontrarlo gli esprimerei i dubbi che da allora ho maturato.

Tali obiezioni si rivolgono più alla spiegazione che al motto in sé, che pur essendo banale è sostanzialmente corretto.
Deluso dagli insegnamenti di Mario, ho raggiunto un’altra conclusione: meglio non fare mai nulla, così si evitano gli errori.

Misteri della vita XLI

Perché non posso sollevarmi da terra afferrandomi le stringhe delle scarpe e tirando forte verso l’alto?

Mi spiego: so che non posso farlo e sono quasi certo che la spiegazione, in qualche modo, risieda nella terza legge di Newton, quella che parla di azione e reazione e di equilibri di forze all’interno di sistemi. Ma se il mio cuginetto di sei anni me lo chiede io cosa gli rispondo? "Perché no" mi pare l’unica risposta perfettamente comprensibile e corretta.

Tennisti in pantofole

Tra la fine del 1995 e l’estate del 1998 ho vissuto in una casa condivisa con altri studenti, la stessa casa in cui si svolge l’aneddoto delle birre e degli amici. Tale casa, nella zona popolare/universitario che sta tra i quartieri di San Fruttuoso e di San Martino a Genova, era a piano terra e aveva un piccolo giardino. Da bravi cazzeggioni, nei tardi pomeriggi primaverili Giampaolo, il Sire Ennio ed io ci siamo messi a fare qualche piccolo passaggio con le racchette da tennis e, pian piano, siamo diventati sempre più competitivi fino a che tali scambi non sono diventati partite, e per estensione uno sport col pomposo nome di Tennis Garden. È quindi sorta  la necessità di strutturare alcune regole: già da allora ero una persona poco seria ma precisa, e mi sono preoccupato di stendere un regolamento che alternasse punti precisi a paurose cazzate.
Tale era il nostro entusiasmo che Giampaolo mise online un sito sul tennis garden dal quale si deduce come io sia il vicecampione mondiale di Tennis Garden, grazie ad una vittoria sul campione. Niente male, eh?
Tale pagina è anche uno splendido esempio di archeologia internettiana: si sappia che la password per modificarlo è andata perduta, e quindi questo, ehm, documento, rimarrà a disposizione nei secoli dei secoli. Grazie ad esso, inoltre, ci ricorderemo cosa si sapeva su Star Wars Episode I nel 1997: addirittura si pensava che fosse un film!

Ma ecco il regolamento: le note sono scritte oggi, mentre il testo è, a parte qualche piccola modifica ortografica, quello redatto nel 1997.

Regolamento del giuoco del Tennis Garden 
Scopo del giuoco
Lo scopo del giuoco del tennis garden è vincere. Per raggiungere questo scopo è valido tutto, tranne ciò che è espressamente vietato.[1]
Campo ed attrezzature
Il giuoco si svolge nel giardino di Salita Inferiore della Noce 4/2, a Genova (Italia). Eventuali altri campi sono possibili, sotto il permesso degli ideatori del giuoco.
Si giuoca rigorosamente in due, poiché il giardino è troppo piccolo per poter giuocare in quattro giuocatori. È sotto studio la versione pippa del tennis garden, da giuocare da soli. [2]
Ogni giuocatore è fornito di una racchetta da tennis. Si usano anche palline da tennis, preferibilmente non troppo dure.
Il campo dovrebbe essere diviso in due da una rete ad altezza da definire, altrimenti si divide ad occhio il campo in due.
L’abbigliamento dei giuocatori (detti tennisgardenisti) non ha particolari requisiti, se non che è obbligatorio giuocare in pantofole. L’abbigliamento classico, comunque, prevede una tuta da casa, possibilmente sporca, oppure dei pantaloncini più marci possibile.  [3]
Punteggi
Un match di tennis garden si svolge al meglio di tre o cinque set, come il tennis normale, con la differenza che un set è composto di soli quattro games. Ogni game ha un punteggio identico a quello del tennis. Si serve un game per uno, si cambia campo ogni due games (cioè quando la somma dei games svolti è pari). In caso di 3-3, si va ai 5, in caso di 4-4 si giuoca il tie-break. Il tie-break si svolge sui cinque punti, con vittoria conseguita con almeno due punti di vantaggio. Si serve una volta per uno, cambiando campo ogni due games, in modo del tutto analogo ai games normali.[4]
Svolgimento del giuoco
Innanzitutto la regola fondamentale: non vale tirare forte. Altrimenti è troppo facile, il campo è piccolo, chi cazzo la prende se tiri forte? In caso ciò avvenga, se non lo si è fatto troppo apposta si rifà, altrimenti, se uno ha fatto lo stronzo, perde il punto, così impara. Una palla è considerata forte se chi ha subito il colpo bestemmia, o muore, o entrambe.[5]
C’è un solo servizio a disposizione. Non si rifà in caso di net, che intanto c’arrivi, mentre si può rifare, a discrezione di chi riceve, se la palla finisce nel canale[6]. Se il servizio è fuori, il punto è perso (Singolo fallo). Il servizio, comunque, deve cadere nella metà del campo più vicina alla rete.
Inizia a questo punto lo svolgimento del giuoco, che avviene secondo le normali regole del tennis, tenendo conto che:
– Se la palla, dopo aver rimbalzato nel campo avversario, rimbalza sul muro, allora è ancora giuocabile (Carambola)
– Si considera fuori ogni palla che finisca sugli ostacoli nel campo (da una parte il tubo della grondaia e dall’altra gli scalini).
– Le palle che rimbalzano male, in particolare quelle nel canale, sono buone, a meno che non siano sul servizio.
– I confini del campo non sono precisissimi, anzi variano a seconda delle circostanze. In generale, si può dire che se un giuocatore è a fondo campo, la palla deve rimbalzare nel campo (prima della linea della casetta dei giornali da una parte, prima dell’aiuola dall’altra). Se il tennisgardenista è invece a rete, allora i pallonetti possono essere un po’ più lunghi: possono rimbalzare sulla casetta di cui prima o non arrivare dalla recinzione coi vicini dal lato della cucina, può andare nell’aiuola ma non sulla rete dall’altra. Per i passanti si vede ad occhio.[7]
-Non è valido fare male fisicamente all’avversario, mentre è consentito distrarlo in qualsiasi modo. E’ anche consentito fare bastardate del tipo tirare quando il nemico è distratto, si soffia il naso, è andato in bagno, ecc. [8]

[1] Nonostante l’appiglio, due medici ed un informatico non hanno sfruttato questa clausola come avrebbe saputo fare un avvocato. Peccato.

[2] Questa aggiunta fa ridere ma non ha senso.

[3] Il giuoco in pantofole è fondamentale e parte dello svolgimento delle partite (si può mettere in difficoltà l’avversario sfruttando le calzature inadatte), mentre l’abbigliamento costituiva semplicemente la prassi.

[4] Si è voluto variare leggermente il regolamento del tennis per distinguerlo dal giuoco originale. L’unico macroscopico difetto sta nel fatto che, cambiando di campo ai games pari, si finisce sempre per ricevere o servire nello stesso campo. E dato che i due campi sono parecchio diversi, non è una cosa da poco.

[5] Questa gag fa molto ridere, e nasce dall’osservazione che tutti facevano leggendo la prima bozza del regolamento: chi decide se un tiro è troppo forte? Decisi quindi di rispondere in modo semi-ironico con questa postilla. D’altra parte rimane ancora il problema di distinguere la volontà precisa di tirare forte. Pazienza, nessun regolamento può essere perfetto.

[6] Il "canale" è un canaletto di scolo che attraversa una delle due metà del campo. La regola è fondamentale, poiché il rimbalzo nel canale è molto irregolare. Se durante lo svolgimento dei punti mirare al canale può essere una strategia accettabile, è davvero troppo facile puntarlo col servizio.

[7] Forse l’ossimoro più geniale sta in questa parte, ovvero definire in un regolamento, per definizione preciso e non ambiguo, il fatto che "si vede ad occhio, dipende, a volte sì e a volte no". I vicini, due anziani molto pazienti, avevano un giardinetto simile al nostro nel quale spesso finivano le palline per pallonetti troppo lunghi.

[8] Ho in effetti vinto diversi games mentre l’avversario parlava al telefono con la fidanzata. Con pazienza, servivo, facevo punto, andavo a raccogliere la pallina e così via per l’intero game.