A volte, quando i treni sono in ritardo, vanno più veloce per recuperare. Perché non vanno sempre a quella velocità?
Lateralmente a tutto questo c’è un’altra forma di grafomania che mi ha sempre incuriosito: la gente che scrive sui muri. Tralasciamo tutto il fenomeno dei graffitari, che mi interessa poco, e dedichiamoci alle scritte vere e proprie: c’è un campionario di umanità che è un vero tesoro.
C’è il tipo che a Genova, in passato, scriveva "Yngwie Malmsteen è il demonio" in elaboratissimi caratteri gotici (probabilmente usando una sorta di mascherina). Nessuno ha mai capito se fosse un estimatore del truzzissimo chitarrista o un suo nemico.
Recentemente, sempre a Genova, c’è qualcuno che tappezza il centro storico con la faccia di Arnold ("Che cavolo stai dicendo Willis?"). Non riesco ad immaginare che significato simbolico, etico o estetico possa avere questo gesto. Però fa ridere.
Ci sono le scritte politiche, in disuso negli anni passati e ora di nuovo in auge: sintomo dei tempi. Mi piace molto quella che si ammira in Viale Italia a Sesto San Giovanni: "Berlusconi vigliacco se sei convinto di essere innocente fatti processare". Pur essendo un esempio di pensiero lucido nella sua sintesi, mi viene un po’ da ridere a pensare che Berlusconi, passando di lì, possa leggere la scritta e all’improvviso pentirsi e decidere di consentire ai giudici di fare il loro lavoro. Nella stessa via, c’è anche un paleolitico "Basta con la concertazione! Rompiamo il patto sociale!". Evidentemente nella Stalingrado d’Italia i sindaci non hanno fondi da dedicare alla pulizia dei muri.
Ci sono poi coloro che correggono i manifesti in metropolitana. A volte si assiste a qualche colpo di genio, tipo coloro che, a Milano, hanno corretto in diverse copie la locandina di Prova a prendermi in "Prova a prendermi nel culo", il che oggettivamente fa ridere. Sempre nel meneghino capoluogo, c’è un pazzo che lascia il suo giudizio morale sui manifesti un po’ più osè, facendoci sapere che non è bene che le donne mercifichino il proprio corpo e che Dio disapprova che il nostro umore nelle uggiose mattinate lombarde venga rallegrato dalle zinne in esposizione. Questo signore pare si giri un po’ tutta la rete della metropolitana, perché le sue opere non sono limitate a poche stazioni, ma si vedono un po’ ovunque.
E poi quello che per me, ingenuo ragazzotto di provincia, è un mistero, sono i richiami con numero di cellulare del tipo "cazzo lunghissimo Giovanni chiamare 337xxxxxx" o, dal lato del gentil sesso, "Giulia ingoia tutto al 348xxxxxxx". Questi non me li spiego proprio. Innanzitutto, si tratta di professionisti nel ramo o di dilettanti? Nel primo caso, non hanno mezzi migliori per farsi pubblicità, soprattutto correndo il rischio di confondere le idee ai Cicci di Nonna Papera come me? Nel secondo, si pone un altro quesito: la gente mette i propri numeri o quelli di qualcuno a cui vuol fare uno scherzo? Il proprio numero è vagamente plausibile per i maschietti, per il ruolo che la società e le consuetudini assegna loro; ciononostante, se fare lo sbruffone e dire che ho il pisello che mi arriva all’ombelico è tutto sommato normale tra amici, ben più difficile mi risulta comprendere il passo successivo, quell’esibizionismo che porta a vantare prestazioni e misure a tutto il mondo. Cioè, dovrei sperare che qualcuna mi telefoni perché ha letto sul muro che sono un emulo di Rocco Siffredi?
Rimane quindi come soluzione più semplice il fatto che Giovanni, indispettito dal fatto che Giulia la dia a tutti tranne che a lui, decida di scrivere il numero di cellulare di quella zoccola acciocché lei riceva decine e decine di telefonate da maschi allupati. E mettiamo anche il suo attuale moroso, dai, così chiamano lui e scoprono che in effetti non ce l’ha così lungo come dice Giulia. Tutto questo però mi pare tremendamente desolante: la pochezza di alcuni esseri umani mi deprime sempre un po’. Quindi cercherò di autoconvincermi che esiste qualche altra soluzione a quest’abitudine. Ad esempio… uhm… ecco, si tratta di disoccupati che si sono ingegnati per allargare la propria rete di contatti. Bene, ho di nuovo fiducia nell’umanità!
C’è un italiano, un francese e un inglese che.
L’analisi del funzionamento delle storielle è stato già adeguatamente dibattuto da Achille Campanile nel "Trattato delle Barzellette", e spinguinato da Elio e le Storie Tese nella meravigliosa "vendetta del Fantasma Formaggino", quindi in questa sede vi toccherà ascoltare i miei lamenti su questo argomento. Le barzellette sono una mia maledizione: non mi piacciono, non credo di aver mai riso ad alta voce ascoltandone una, raramente mi solleticano anche solo un minimo di divertimento intellettuale. D’altra parte difficilmente le scordo, e ho addirittura anche un certo talento nell’individuare il finale prima che esso venga raccontato. Come se questo non fosse abbastanza, ho problemi anche dal punto di vista opposto: se devo raccontare una barza, l’interrogazione al mio database di storielle fallisce spesso, e, quando le ricordo, il racconto è decisamente scadente, sia per le mie scarse doti di oratore sia per l’abilità di sintesi che mi contraddistingue, che mi fa andare dritto al nocciuolo della battuta tralasciando gli orpelli, che in realtà sono ciò che rende (dovrebbe rendere) le barzellette divertenti.
Tutto questo mi pone in difficoltà quando, in società, è il momento delle barzellette. Di solito in buona fede, mi vengono raccontate per passare un po’ di tempo, o credendo di divertirmi, o magari (il peggio!) per rompere il ghiaccio tra sconosciuti. A metà barzelletta mi rendo conto che o la conosco già oppure so dove va a parare; nella migliore delle ipotesi la barzelletta mi soprende ma non mi diverte. E allora che fare? Dipende sostanzialmente dai rapporti che ho con la persona in questione. Se posso permettermelo, la interrompo a metà o, alla fine, rimango impassibile e chiedo sarcasticamente "e poi come va avanti?". Se invece non posso, per educazione o perché non mi conviene far indispettire l’interlocutore, allora sorrido con cortesia alla fine. Ma non chiedetemi una grassa risata, non fa per me. Per quella ci sono mezzi più semplici ed efficaci.
Perché la maggior parte dei francesi quando parla inglese pronuncia l’articolo determinativo "ze"?
Pare che io, appena nato, fossi straordinariamente brutto. Anche adesso non mi considero canonicamente "bello" ma, sebbene la mia vocina interna più incline all’autodistruzione continui a suggerirmelo, nemmeno propriamente "brutto". Tuttavia,le leggende sulla mia bruttezza da neonato si sprecano. Io ritengo che tutti i bambini in fasce siano sgradevoli da vedere: quella testa enorme, il viso deformato dal pianto, la crapa pelata li rendono quasi una grottesca caricatura di un essere umano. Ma io ero peggio. Dicono che zio Attilio a vedermi abbia esclamato "Mamma mia quant’è brutto!" e che mia mamma tenendomi affettuosamente in braccio dicesse "Che carino il mio scimmiottino".
L’apice di questa storia però è stato raggiunto in un aneddoto che mi limito a riferire così come l’ho sentito. Un giorno una commessa del negozio di mia nonna, tal Antonella, mi portò a fare un giro col passeggino per il Budello (il caruggio lungo e stretto che attraversa tutto il centro storico di Alassio). Ebbene, la leggenda vuole che una signora abbia ritenuto opportuno fermare per strada Antonella per dirle quando fosse brutto quel bambino che lei stava portando a passeggio.
Ora, ragionando da adulto, mi pare estremamente improbabile che esista al mondo una persona così rincoglionita da andare a insultare senza ragione una mamma (o presunta tale) sconosciuta giudicando i tratti somatici del suo bambino. Almeno, io che tutto sommato sono ottimista e ho fiducia nell’umanità, vorrei credere che si tratti di un mito deformato dagli anni e dall’usura dei racconti (è sempre stato un piatto forte delle riunioni di famiglia!), ma a volte sospetto che il trauma si sia infilato nelle pieghe più nascoste della mia mente, e che almeno parte della mia atavica insicurezza possa nascere da quella vecchiaccia e la sua bocca larga. Maledetta signora sconosciuta, è tutta colpa tua.
Nuova categoria: le piccole grandi domande che mi angustiano. A volte hanno una risposta e a volte no. Se qualcuno sa darmi una risposta sarò felicissimo di recepirla.
Perché la domenica a pranzo la televisione vuole farci diventare tutti contadini?