Texas, di Fausto Paravidino, Italia, 2005
Una recensione quasi seria
La provincia italiana, soprattutto quella del nord Italia, è un territorio misteriosamente dimenticato da decenni di produzioni italiane, oserei dire da dopo Pavese. Forse perché è sfuggente, e narrare “la grazia e il tedio morte del vivere in provincia” (come cantava Guccini) è un’impresa difficile. Meglio rifugiarsi nelle metropoli, nelle spiagge o, al massimo, negli stereotipi della campagna toscana o del sud Italia arso dal sole. Il tentativo di riscoprire quest’ambientazione è quindi, come minimo, un merito a priori del giovane Fausto Paravidino, alla sua prima opera. L’esperimento è comunque molto interessante. Pur non essendo privo di difetti più che altro dovuti ad ingenuità ed inesperienza degli autori, si tratta di un film fresco ed originale, sia dal punto di vista formale che da quello contenutistico. Innanzitutto, lo spunto dell’ambientazione, quei paesi di ex-campagna ma non ancora di città nelle tristi nebbie di Ovada, offre un’umanità narrativamente interessante. Il film, sostanzialmente corale nonostante la presenza di una voce narrante, narra le vicissitudini di un gruppo di persone attraverso tre loro tipici sabati sera. Narra di come le loro vite si intreccino, di come i tradimenti e gli amori, le speranze e le delusioni costellino la loro vita di umanità ai margini del mondo. Se la pellicola ha un difetto macroscopico, è probabilmente nel non saper dare un’unità e una direzione precisa a questo coacervo di impressioni. Interessanti sono invecei protagonisti di questo film, in cui diversi di essi partono da macchiette ma in qualche modo trovano poi la loro dimensione tragica. Non tutti, ovviamente qualche personaggio ("Picchiami", "Coma" e "Oklahoma") rimane una macchietta divertente e basta. Al di là di questo, il film è comunque molto amaro, quasi privo di speranza. "Andare via, sì, ma per andare dove?"
Bravini in generale anche gli attori, quasi tutti sconosciuti se non dilettanti, su cui spicca Valeria Golino che conferma la sua abilità nel trovare piccoli progetti interessanti a cui collaborare. Dal punto di vista formale, il film vuole essere moderno: sceneggiatura con incastri temporali piuttosto elaborati, uso di visioni che si intersecano alla realtà (tecnica mutuata, probabilmente, dai Simpson), jump cut, fermi immagini e framing. Qualcuno .’ha definito "muccinesco", ma io trovo piuttosto che i modelli a cui si ispira siano i Tarantiniani (ancor più che Tarantino stesso) o al massimo Inarritu.
Nel complesso si tratta quindi di una visione interessante, che lascia pensare che in Italia forse a cercar bene qualche innamorato del cinema che, con un processo di maturazione adeguato, possa fornire nuovi stimoli al cinema italiano c’è. Speriamo gli si dia fiducia, anche se la scarsa distribuzione del film e la tiepida reazione della critica non fanno sperare per il meglio.