Il mio dinosauro preferito è il diplodoco, perchè è stupidamente magro e perché non finisce per -sauro.
La mia formaggetta spalmabile preferita è il classico Philadelphia, anche se per ragioni dietetiche tendo a mangiarne le versioni Light o Balance.
Il mio colore preferito è il rosa, seguito dal viola. Però mi vesto sempre di blu, perché sono un pusillanime.
Il mio pezzo del pollo preferito è il petto. Amo prenderlo con l’ala attaccata, che è l’antipodo del petto.
Il mio gusto di gelato preferito è il cioccolato. Quando prendo un cono, di solito scelgo due tipi di creme una delle quali è inevitabilmente il cioccolato.
La mia ora preferita va dalle nove alle dieci di mattina. E’ il momento della giornata con la luce più bella e in cui sono più efficiente.
La mia pizza preferita è la quattro formaggi rossa. La pizza ai wrustrer, la napoletana e il calzone però insediano da vicino il primato.
Il mio numero preferito è e^(pi*i)+1 (questa brutta gag la capiscono solo i nerd matematici).
Il mio gioco di Windows preferito è il classico Solitario, immutato dai tempi di Windows 3.1. Campo minato mi ha sempre snervato.
Il mio sapone preferito è quello di Marsiglia, serio e spartano.
Il mio fastfood preferito è il McDonald. Tanto malvagio quanto buono.
Il mio dito preferito è il pollice destro. Non c’è nessuna ragione particolare, mi è solo più simpatico di tutti gli altri.
Il mio classico Disney preferito è Lilli e il vagabondo. Pur essendo conscio che ha parecchi difetti dei Disney barocchi, tocca alcune corde per me irresistibili.
Il mio shampoo preferito è l’Ultradolce di Garnier all’hennè e aceto di mora per capelli scuri. Mi piace come odora e mi attrae la stupidità di fare un aceto con le more.
Il mio posto preferito in treno è quello vicino al corridoio, così posso allungare le gambe.
Il mio animale preferito è il maiale. Da mangiare, ovviamente.
Il mio mezzo di trasporto preferito è la motoretta. Questa era troppo facile.
Le mie parti del corpo preferite (del mio corpo, intendo) sono le ciglia e le cosce. Le prime sono lunghe e folte (c’è chi ha pensato che io mi truccassi), le seconde forti e ben tornite.
La mia lettera preferita è la T. Mi piace come suona e come si scrive.
Il mio fiore preferito non c’è. E’ una branca dell’estetica che non ho ancora affrontato.
Gamberetto Turbo da Assalto: arma biologica messa a punto dall’esercito messicano, nel corso di un pluridecennale progetto militare. Nel 1982, con l’acuirsi della crisi internazionale dovuta alle tensioni tra Regno Unito e Argentina a proposito del controllo delle Isole Falkland, il governo messicano decise che doveva prepararsi ad un conflitto globale e che era quindi necessario investire in armamenti biologici. Gli alacri ingegneri genetici militari, sotto la guida del professor Felipe Oriundo y Tortilla dell’Università di Guadalajara, lavorarono al segretissimo progetto denominato Ginglo, che venne concluso nel 2004, con una spesa complessiva di otto miliardi di dollari. Il risultato di Ginglo è costituito dai sopracitati Gamberetti Turbo da Assalto, una specie di gamberetto molto aggressiva e capace di nuotare al 120% della velocità di un suo comune simile. Secondo gli studi compiuti dal team di Oriundo y Tortilla, rilasciando un branco di un milione di gamberetti è possibile rallentare un nemico che nuota anche ad un quarto della sua velocità, e procurargli delle abrasioni che se non curate possono infettarsi e ucciderlo nel giro di alcuni mesi. Nel marzo del 2005, l’esercito messicano, convinto di avere finalmente fra le mani l’Arma Definitiva, decise di sperimentare l’efficacia dei Gamberetti Turbo da Assalto contro un contingente panamense di passaggio. I marinai nemici accolsero i crostacei con esclamazioni di gioia, li pescarono e ne fecero una scorpacciata. Oriundo y Tortilla giudicò l’esperimento “soddisfacente”.
Chupito inverso: Cocktail molto in voga in un celebre locale di Locate Trivulzio, chiamato “Locale Trivulzio“. A seconda dell’ispirazione del barista e delle richieste del cliente il chupito inverso viene declinato in diverse varianti cambiando il senso di “inverso”: c’è quello banale in cui prima si beve il succo di pera e poi il rum, quello in cui si beve grappa di pere e sciroppo di zucchero di canna, quello in cui si beve a testa in giù, quello in cui il liquido lo si espelle invece di berlo. Non mancano poi il chupito servito in bicchieri enormi da sorseggiare con calma e infine il più gettonato, quello in cui l’avventore è costretto ad un rapporto omosessuale se etero, eterossuale se gay. I bisessuali non sono i benvenuti nel Locale Trivulzio ma si sa, in Brianza non sono mica tanto ospitali.
La Grande Baruffa del ’14: episodio storico passato sotto silenzio dalla gran parte della storiografia contemporanea, eppure indicativo dello stato di tensione sociale in cui versava l’Italia all’alba del suo ingresso nel primo conflitto mondiale. Tutto nacque da un banale litigio sorto fra due passanti in Galleria del Corso a Milano, il giorno 14 novembre 1914 alle ore 16.43. In breve, varie persone accorse per sedare la discussione vennero coinvolte e prese il via una vera e propria rissa. Alle ore 17.23 si contavano già ventidue partecipanti, e molta altra gente cominciò ad accorrere dalla vicina Piazza del Duomo, attirata dal fracasso. Uscito dal Duomo, il sagrestano fu colpito da una bottigliata, cosa che provocò la reazione dei cattolici nei paraggi che, armatisi di bastoni, si unirono alla baruffa. Alle ore 18.06 la contesa assunse connotazioni politiche, con la susseguente divisione in due fazioni, una favorevole all’intervento dell’Italia in guerra, l’altra contraria. Alle ore 18.20 intervenne la polizia, senza riuscire a migliorare la situazione. Anzi, favorendo una coesione fra i due diversi fronti politici uniti ora contro le forze dell’ordine. Intanto, la notizia della Grande Baruffa cominciò a spargersi in tutta la nazione, e alle 20.12 giunse voce di alcuni disordini sorti nel vicino paese di Giussago. Prima di sera, 120 comuni del Nord Italia, Reggio Emilia, Ancona, Civitanova Marche e una fattoria nelle campagne di Caserta erano in preda al caos. In alcuni casi, dovette intervenire l’esercito, che sparò sulla folla causando ben 12 morti. Inspiegabilmente, dopo le due di notte i disordini si placarono gradualmente, scemando del tutto per le ore 3.25, quando gli ultimi due contendenti, a Trezzano sul Naviglio, si strinsero la mano e fecero pace.
Una commissione d’inchiesta istituita alcuni mesi dopo, con l’incarico di indagare sull’avvenuto e di ricostruire i fatti di quel fatidico 14 novembre 1914, stabilì che la Baruffa era scoppiata perché uno dei due passanti aveva inopinatamente scambiato l’altro signore per sua zia Mariolina.
Mattino feriale, risveglio in casa XXmiglia. Sveglia, doccia, barba (non sempre), colazione. La colazione, tra le 7.30 e le 8, rappresenta uno dei pochi momenti della giornata in cui accendo la tv e guardo ciò che la scatola infernale mi propina, senza essere io a scegliere cosa guardare (sì, l’attitudine pull dovuta all’uso di internet ormai non me la scrollo più). Dribblando oroscopi e deprimenti telegiornali flash, la scelta cade inevitabilmente sui miei amati cartoni animati; è un’abitudine che mi porto dietro da oltre dieci anni. Quand’ero giovane, addirittura, mi mettevo apposta la sveglia mezz’ora prima per vedere Ken il guerriero (ma si può?!?), mentre ora guardo quello che c’è all’ora in cui mi alzo, e di solito non vedo puntate intere ma frammenti varii.
Ecco quello che in cui mi sono imbattuto negli ultimi mesi.
Ape Maia: sì, il classico cartone con l’antipaticissimo insetto. Non l’ho rivalutato vedendolo da adulto, mi è parso noioso, privo di mordente e persino retorico, un peccato piuttosto raro nelle serie giapponesi. Però gli sfondi pittorici sono belli: (modalità vecchietto) sissignore, non li fanno più sfondi così belli oggigiorno.
Hamtaro: Hamtaro è geniale. Il suo palese obiettivo è di portare all’estremo l’estetica del kawaii, il carino, in modo da conquistare bambini e ragazzine. I cricetini da questo punto di vista sono irresistibili, ma non solo: oltre ad essere carinissimi, riescono anche ad essere buffi e ad avere una loro personalità. In tal modo l’eccesso di zucchero non diventa mai stucchevole, e le avventure dei criceti, che riguardano l’esplorazione obliqua della quotidianità umana, sono sempre godibili. Una vera rivelazione.
Hello Spank: il cane demente con la testa quadrata. Mah, in fondo non è lontano da Hamtaro come concezione e filosofia commerciale/estetica, ma è molto più primitivo (i markettari di anime non erano ancora molto bravi a quei tempi) e decisamente più idiota. Sei meno.
Monster Allergy: il fumetto mi è piaciuto abbastanza, ma la versione animata soffre dei tipici mali dei passaggi di media da fumetto ad animazione: mancanza di ritmo, edulcorazione, disegni poco incisivi, annacquamento della trama. Di buono c’è il design dei personaggi, ma è poco per renderlo un buon prodotto.
Scooby Doo: ne ho visto due serie diverse, entrambe moderne. La prima di esse (dovrebbe essere “What’s new, Scooby Doo?“) commette un paradosso: per essere più snella limita i personaggi del team storico ai due più amati, Scooby e Shaggy, ma nella disperata ricerca di nuovi spunti si rivolge ai personaggi secondari come Scrappy Doo, Scooby Dum o altri. La serie è terribile e si sviluppa sulle solite gag riviste alla nausea, e non riesco proprio a comprendere come abbia fatto a tirare avanti tre stagioni. Molto meglio la seconda, “A puppy named Scooby Doo“, col team completo in versione bambina e Scooby Doo da cucciolo. Al di là della bella estetica quasi superdeformed, le sceneggiature sono ricche di gag riuscite, di numeri musicali, di ritmo e di azione…e il tutto in soggetti imperativamente in stile Scooby Doo! Un buon lavoro.
Winx: pietà. Cito un amico che ha lavorato su questo prodotto: “Ci sono puntate che ho visto e rivisto fino alla nausea…e ancora non riesco a capire che cacchio succede!”
Kim Possible: ecco, lo confesso. Trovo Kim Possible irresistibilmente sexy. Le sue avventure poi sono banalotte, prive di mordente e con sceneggiature molto spesso già viste…ma rimango inevitabilmente ipnotizzato di fronte all’ombelichino di Kim. Ho il sospetto di non essere l’unico.
Bratz: il cartone animato più tamarro dai tempi di Gokinjo Monogatari (“Curiosando nei cortili del cuore“), ha un suoindubbio fascino trash. Moralmente è abbastanza riprovevole: perché vogliamo insegnare alle giovani donne ad essere delle orrende zoccole stratruccate e con solo lo shopping per la testa? Certo, Bratz racconta di alcune amiche che hanno un sogno e lavorano duramente per ottenerlo, ed è una storia che gli americani amano molto. Ma forse all’etica americana del lavoro sfugge che se il sogno è imbecille (avere una rivista di moda tutta per noi!) allora la cosa non è necessariamente positiva. La grafica 3d è incredibilmente brutta. Eppure, anche Bratz mi ipnotizza. Non mi spiego il perché.
Little Einsteins: una scoperta. Little Einsteins è un programma educativo della Disney rivolto ad un pubblico di seienni o giù di lì, ed è bellissimo. Ogni puntata focalizza su un luogo, un’opera d’arte e un brano di musica classica (spesso con un riferimento ad uno strumento) incoraggiando i bambini ad imparare con avventure coloratissime e rocambolesche, invitando persino il pubblico a partecipare! Quando uno dei protagonisti chiede “Vi ricordate che strumento è questo? Diciamolo insieme: il flauto!” ero sempre pronto a rispondere. Mi manca tanto Little Einsteins…
Perché le compagnie di autobi [1] non assumono più controllori?
E’ ben noto che sia conveniente non pagare il biglietto sui mezzi pubblici: costa di meno affrontare una multa una volta ogni tanto invece che timbrare il biglietto regolarmente, vista l’esigua probabilità che salgano i controllori. D’altronde, ogni volta che i simpatici signori in divisa (o, ultimamente, pure in borghese!) salgono sui mezzi beccano sempre qualcuno in flagrante: dati i quaranta euri o giù di lì di multa, non può non essere vantaggioso spingere in questa direzione. Forse i controllori hanno stipendi stratosferici o dei costi pazzeschi di formazione/assicurazione/tasse che io ignoro. O magari gli introiti da biglietti sono minimi rispetto ai finanziamenti pubblici, e quindi non vale la pena insistere più di tanto.
Per la cronaca, io pago il biglietto (e questo magari si sarà capito) soprattutto perché detesto fare figure di popò e perché, ovviamente, faccio parte dei buoni.
[1] plurale di autobus, è latino!
Credo che la mia prima uscita fuori dall’Italia sia avvenuta alla fine degli anni ’70, ed abbia avuto come modesta meta la Costa Azzurra, con particolare riferimento all’Acquario di Monaco. Non ho un ricordo vivido di quest’ultimo, se non per lo scheletro di balena che campeggia in una sala. Più avanti, quando diventai un fan dei dinosauri, mi autoconvinsi di aver visto un fossile di plesiosauro, ed ero esaltatissimo all’idea di aver visto un dinosauro vero. In realtà dovettero passare oltre vent’anni prima che potessi ammirare un fossile di dinosauro vero e proprio, e ho dovuto trascinare le mie pesanti chiappe fino a New York per lo scopo.
Ma torniamo in Francia (o nel Principato di Monaco, vabbè, non formalizziamoci). Non ebbi lo shock culturale che ci si può aspettare dal trovarsi per la prima volta in un posto dove tutti parlano una lingua diversa. Fu una concomitanza di più fattori a mitigare il trauma: innanzitutto la consapevolezza che avevo dell’esistenza di lingue straniere (cosa lungi dall’essere automatica), poi la presenza costante e protettiva dei miei che facevano da filtro e scudo verso i malvagi autoctoni, il paesaggio sostanzialmente identico a quello a me familiare della Riviera Ligure di Ponente, e, ultimo ma non meno importante, persino il cibo. Infatti dopo la visita ci recammo a pranzare in un ristorante, e probabilmente mangiai qualcosa di non troppo estraneo ai miei gusti: in fondo, la cucina ligure e quella nizzarda hanno poche differenze.
L’innocenza fu perduta quando, dopo mangiato, uscii nel giardino del ristorante mentre i grandi si attardavano a tavola. Antistante al locale un piccolo parco giochi era a disposizione dei giovani clienti, e io mi trastullai allegramente. All’improvviso, il dramma. Si avvicinò un bimbo francese che attaccò a parlarmi, ovviamente in francese. Dopo un monologo accorato, si rivolse a me e mi chiese qualcosa, rimanendo in attesa di una risposta. Io, un po’ in panico, capii che mi stava parlando in francese, e decisi di rispondere con l’unica parola in quella lingua che conoscevo: Bonjour. Lui mi guardò come si guarda un imbecille e se ne andò.
Mi rimarrà per sempre la curiosità di sapere che cacchio aveva detto quel piccolo mangiarane.
Uno dei grandi misteri della lingua italiana sta nel fatto che esiste una parola che significa due cose opposte: ospite, infatti, indica sia colui che ospita che colui che viene ospitato. Non è quindi raro imbattersi in dialoghi simili:
– Grazie di tutto, sei stato uno splendido ospite!
– Di nulla. E’ stato un piacere averti come ospite.
E’ evidente che deve esserci qualche trucco di etimologia che sono troppo pigro per andare a cercare. Ma perché non ci chiamiamo “ospitanti” e “ospitati”, oppure stabiliamo quale dei due significati è quello corretto e inventiamo un sostantivo nuovo per l’altro? Che so, greppio.
-Grazie della cena, sei sempre un ottimo greppio!
-Eh, me lo dicono tutti! Sarai mio ospite ancora, voglio sperare.
Ecco, così si che vivremmo in un mondo migliore.