Come ha fatto A.S. a, come dice lui, “dare la maturità al penultimo anno e ciononostante metterci sei anni a finire il liceo”?
Quando qualcuno richiede un po’ troppo dalla gentilezza altrui si usa apostrofarlo con “E poi, vuoi anche una fettina di culo?”. E’ una di quelle battute talmente logore che non appaiono più nemmeno battute, ma solo espressioni idiomatiche. Ma cosa significa “una fettina di culo”? Mi è stato suggerito che potrebbe richiamare il gesto di chi si taglia una fetta dalle proprie chiappe, perché donare la propria carne è il gesto di generosità suprema. A parte il fatto che mi fa un po’ schifino, mi pare comunque un concetto un po’ troppo contorto. Altra ipotesi è che sia un invito a portare una fettina di culatello, il più pregiato dei salumi, ma non ne sono convinto. Insomma, quando volete una fettina di culo, cosa volete?
(il primo che posta l’immagine della “fettina di culo” che girava tempo fa sarà stigmatizzato a vita!)
Cito dal mio (e di Golosino) capolavoro Daniela dei Tonni:
Non solo Massimo mi ha offerto il cinema, ma ha anche insistito per prendermi un panzerotto da Zio Zozzone (la friggitoria più famosa di Pizzopapero) e poi, non appena ha visto un cingalese che vendeva le rose, lo ha fermato e ha messo mano al portafogli. Ero rossa per l’imbarazzo e per la contentezza, mentre mi sceglieva una rosa dal mazzo. Ha voluto anche prendersi qualcosa per sé, dalla cesta di giocattolini che l’indiano aveva sottobraccio: un pupazzetto di Mike Bongiorno con la testa gigante che se tiri una cordina dice “Allegriaaa!!!”… a me sembrava uno schifo… ma non gliel’ho detto.
A questo punto c’è stato un piccolo momento di imbarazzo, perché con tutto quel che mi ha offerto Massimo poi non aveva abbastanza soldi per l’indiano ed il pupazzetto… ha cominciato a tirare fuori dalle tasche monetine da cinque, due e addirittura un centesimo per arrivare alla cifra giusta. Ha anche chiesto un piccolo sconto al cingalese che però, visibilmente scocciato, non ha voluto sentire discussioni e così gli ho prestato io 30 centesimi e tutto è andato a posto.
Daniela ha quattordici anni ed è al primo appuntamento della sua vita, Massimo ha la stessa età ed è nella stessa situazione, quindi la rosa dal cingalese magari ci sta. Ma al di là dei quattordicenni al primo appuntamento, chi compra quelle rosacce ai cingalesi (indiani, pakistani, malesi: non so perché quella macro-etnia abbia l’esclusiva, ma i cingalesi sono i miei preferiti)? Lo trovo un gesto talmente poco spontaneo che non riesco a immaginare come possa far piacere a una signora. Campano sulla gente che si arrende all’insistenza? La rottura di marroni è un business così remunerativo?
Questa credo che abbia una risposta sensata, ma una volta tanto più che essere pigro non so dove reperire le informazioni. Siate creativi!
Parliamo di cartoni animati (no, non “cinema di animazione”. Proprio di cartoni animati.) e precisamente dell’ondata di serie giapponesi arrivata in Italia tra la fine degli anni ’70 e la metà degli anni ’80, durante il regno delle tv private locali. Mi sono sempre chiesto chi traducesse i dialoghi di quelle serie, la cui versione italiana era, in generale, palesemente realizzata in fretta e in economia. Direi una delle tre:
- C’è stato un periodo di superlavoro per i traduttori italiani dal giapponese. Una serie di signori compìti che si dedicava all’approfondimento di Mishima o degli haiku medioevali all’improvviso ha dovuto confrontarsi con Pugni a razzo e orfanelli sfigati. Quest’ipotesi mi pare poco probabile ma è la più divertente.
- I giapponesi non sono poi così scemi, e vendevano i propri prodotti già tradotti magari non in italiano, ma in una lingua più umana come potrebbe essere l’inglese, il francese o il tedesco. La mediocre qualità generale dei dialoghi potrebbe derivare da questo doppio passaggio. Questo caso è praticamente sicuro nei casi di serie arrivate da altri paesi europei, come per Goldrake giunto dalla Francia, ma in tal caso il problema si sposta oltralpe.
- I dialoghi venivano inventati. Magari i musi gialli fornivano un riassunto in lingua umana di ogni puntata, ma era qualche sagace dialoghista a far quadrare tutto mettendo in bocca ai personaggi quello che gli sembrava più coerente.
…Oppure c’è qualche altra possibilità che non ho contemplate. Beh, lavorate! Devo mica fare tutto io, qua?
E’ più bello indossare le mutande messe in frigo in estate o quelle messe in forno in inverno?
Come sarebbe a dire che non l’avete mai fatto? Beh, purtroppo nemmeno io. E non ci avete mai pensato? Non ci credo, dai… pensate alla frescura sulle chiappe in un’assolata giornata d’agosto…oppure al calore accumulato che potete portarvi fuori in una piovosa e buia mattina invernale! La prossima volta che vedete in giro uno che sorride in modo imbecille per nessun apparente motivo, quasi sicuramente ha le mutande termoregolate.
Penso che tutti abbiamo notato che, nei grandi magazzini, il reparto profumeria è sempre accanto all’ingresso. Perché?
La cosa buffa è che so che esiste una regione pratica di cui avevo letto da qualche parte su una rivista, quindi non “per accogliere i visitatori con un buon odore” o qualche simile motivazione frivola. Ricordo parimenti bene che quando lo lessi pensai “Geniale!” , ma ciononostante ho dimenticato quella nozione. Che rabbia! Per fortuna che il mio pubblico saprà risolvere il mistero prima che io possa dire “crostata di mirtilli”. Vero?